CUSTODIA IN CARCERE, I PRESUPPOSTI DEVONO SUSSISTERE SIA NELLA FASE GENETICA CHE APPLICATIVA
Cassazione, sez. II, 24 gennaio 2012, n. 2937
(Pres. Carmenini – Rel. Gallo)
Ritenuto in fatto
Con ordinanza in data 30/06/11, il Tribunale per il riesame di Catanzaro, accogliendo l’appello del P.G. avverso l’ordinanza della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro emessa in data 12/4/2011 con la quale era stata disposta, nei confronti di R.C. , imputato dei delitti di cui agli artt. 73, 74 e 80 DPR. 309/90, la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con l’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria, ripristinava la misura cautelare custodiate. Avverso tale ordinanza propone ricorso l’indagato, per mezzo dei sui difensori di fiducia, con due distinti atti a firma, rispettivamente dell’avv. Pietro Pitari e dell’avv. Romualdo Truncè.
L’atto a firma Pitari deduce l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato dolendosi che il Tribunale si sia limitato ad una motivazione apparente, limitata all’argomento del decorso del tempo, senza prendere in considerazione la radicale rivisitazione dei fatti addebitati all’imputato, che aveva portato la Corte d’Assise d’Appello a revocare la misura per carenza di pericolosità concreta. L’atto a firma Truncè deduce violazione di legge in relazione agli artt. 274, comma 1, lett. c) e 275, comma 2 e 3, cod. proc. pen..
Al riguardo eccepisce che erroneamente il Tribunale ha ritenuto la presunzione di inadeguatezza di ogni altra misura cautelare per il reato di cui all’art. 74 DPR 309/90, alla luce della sentenza n. 231/2011 della Corte Costituzionale che ha riconosciuto il carattere relativo e non assoluto di tale presunzione.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato. Il Tribunale per il riesame ha effettuato una lettura riduttiva dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 1608^2011, soffermandosi soltanto su una delle due massime tratte dalla sentenza. Per meglio comprendere l’insegnamento delle Sezioni Unite è necessario riportare i punti salienti della motivazione.
“Il perimetro dei valori costituzionali entro i quali può trovare soluzione il quesito sottoposto all’esame di queste Sezioni unite e che ovviamente illumina il percorso argomentativo da seguire, è stato nitidamente tracciato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, da ultimo, si è espressa in termini di univoca chiarezza, ai fini che qui interessano, nella sentenza n. 265 del 2010. Il tema dell’an e del quo modo delle misure limitative della libertà personale ruota, infatti, tutto attorno a due parametri in apparente frizione logica fra loro: da un lato, il principio di inviolabilità della libertà personale, con i relativi corollari di tipicità, riserva di legge, giurisdizionalità e limitazione temporale che ne assistono le eccezionali deroghe, sancito dall’art. 13 Cost., e, dall’altro, il principio di presunzione di non colpevolezza, previsto dall’art. 27, comma 2, della medesima Carta. L’apparente contraddizione tra una previsione espressa che legittima la privazione massima della libertà personale attraverso la “carcerazione preventiva”, per sua natura destinata ad operare prima ed a prescindere dalla condanna definitiva, e la regola per la quale nessuna anticipazione di pena può ritenersi costituzionalmente compatibile con il principio che presume la persona “non colpevole” fino alla pronuncia della condanna irrevocabile, si risolve proprio – ha sottolineato la giurisprudenza costituzionale – assegnando a questo secondo principio il valore di limite che, in negativo, contrassegna la legittimità della limitazione della libertà personale ante iudicium.
Dunque, tanto l’applicazione quanto il mantenimento delle misure cautelari personali non può in nessun caso fondarsi esclusivamente su una prognosi di colpevolezza, ne1 mirare a soddisfare le finalità tipiche della pena – pur nelle sue ben note connotazioni di polifunzionalità – né, infine, essere o risultare in itinere priva di un suo specifico e circoscritto “scopo”, cronologicamente e funzionalmente correlato allo svolgimento del processo. Il necessario raccordo che deve sussistere tra la misura e la funzione cautelare che le è propria, comporta, poi – sul versante del quo modo attraverso il quale si realizza la compressione della libertà personale – che questa abbia luogo secondo un paradigma di rigorosa gradualità, cosi da riservare alla più intensa limitazione della libertà, attuata mediante le misure di tipo custodiate – “fisicamente” simmetriche rispetto alle pene detentive, e, dunque, da tenere nettamente distinte sul piano funzionale – il carattere residuale di extrema ratio. “Questo principio – ha d’altra parte sottolineato la stessa Corte costituzionale – è stato affermato in termini netti anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell’art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorché tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelievre contro Belgio)”.
Da qui, la logica che sostiene i principi enunciati nella direttiva n. 59 della Legge-Delega 16 febbraio 1987, n. 81, sul nuovo codice di procedura penale, ed il recepimento, all’interno del sistema delle cautele (art. 275 c.p.p., comma 2) del duplice e concorrente canone della adeguatezza, in forza del quale il giudice deve parametrare la specifica idoneità della misura a fronteggiare le esigenze cautelari che si ravvisano nel caso concreto, secondo il paradigma di gradualità di cui si è detto, ed il criterio di proporzionalità, per il quale ogni misura deve essere proporzionata “all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata”. L’aspetto qualificante che caratterizza il sistema appena delineato e che lo rende conforme a Costituzione, è dunque quello – ha sottolineato ancora la Corte costituzionale – di rifuggire da qualsiasi elemento che introduca al suo interno fattori che ne compromettano la flessibilità, attraverso automatismi o presunzioni. “Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piana individualizzazione della coercizione cautelare” (v. la già citata sentenza n. 265 del 2010). Ed è del tutto evidente che i postulati della flessibilità e della individualizzazione che caratterizzano l’intera dinamica delle misure restrittive della libertà, non possono che assumere connotazioni “bidirezionali”, nel senso di precludere tendenzialmente qualsiasi automatismo – che inibisca la verifica del caso concreto – non soltanto in chiave, per così dire, repressiva, ma anche sul versante “liberatorio”.
4. Dai rilievi dianzi svolti è già dunque possibile trarre alcuni significativi corollari. La vicenda cautelare, anzitutto, presuppone una visione unitaria e diacronica dei presupposti che la legittimano, nel senso che le condizioni cui l’ordinamento subordina l’applicabilità di una determinata misura devono sussistere non soltanto all’atto della applicazione del provvedimento cautelare, ma anche per tutta la durata della relativa applicazione. Adeguatezza e proporzionalità devono quindi assistere la misura – “quella” specifica misura – non soltanto nella fase genetica, ma per l’intero arco della sua “vita” nel processo, giacché, ove cosi non fosse, si assisterebbe ad una compressione della libertà personale qualitativamente o quantitativamente inadeguata alla funzione che essa deve soddisfare: con evidente compromissione del quadro costituzionale di cui si è innanzi detto.
Ciò basta, dunque, a sgombrare subito il campo da quell’orientamento minoritario, secondo il quale la valutazione sulla proporzionalità della custodia cautelare alla pena irrogata o irrogabile andrebbe operata esclusivamente nel momento applicativo della misura e non anche successivamente, nel corso della sua esecuzione, escludendosi, dunque, che la misura stessa possa essere revocata quando sia trascorso un termine ritenuto congruo dal giudice (Sez. 6, n. 33859 del 10/7/2008, dep. 2^8/2008, Hicham; nonché, pur se in modo del tutto incidentale, Sez. 3, n. 38748 dell’l:i/7/2OO3, dep. 14/10/2003, Nako).
È ben vero che a favore di tale soluzione, per così dire drastica, è stato evocato, quale argomento testuale indubbiamente suggestivo, il disposto dell’ari 299 e.p.p., comma 2, ove è stabilito che, nella ipotesi in cui venga meno il requisito della proporzionalità tra la misura cautelare e l’entità del fatto o della sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice è facoltizzato ad operare la sostituzione in mitius della misura, mentre non è testualmente prevista la possibilità della relativa revoca. Ma si tratta di argomento sistematicamente flebile, sia perché contrastato dal tenore della direttiva 59 della Legge-Delega (al cui espresso tenore deve, come è noto, conformarsi la lettura della disposizione delegata, altrimenti contra constitutionem) secondo la quale si sancisce la “previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare in carcere, qualora l’ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entità del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata”; sia perché in contrasto con la logica del “minor sacrificio possibile” per la libertà personale, che informa, come si è accennato, non soltanto la “statica” del sistema cautelare, ma anche la relativa “dinamica”;
sia, infine, perché in antitesi con la stessa tradizione del principio che viene qui in discorso. Sull’onda, infatti, di una importante Raccomandazione (R/30-11) adottata il 27 giugno 1980 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in tema di detention provisoire, nella quale fu espressamente stabilito che la carcerazione preventiva non potesse essere disposta se la privazione della libertà fosse risultata sproporzionata in rapporto alla natura del reato contestato ed alla pena prevista per tale reato, il legislatore riformulò l’art. 277-bis del codice abrogato con la L. n. 398 del 1984, art. 9 attraverso una previsione che, nella prospettiva di mitigare i casi di cattura obbligatoria e di divieto di libertà provvisoria, introduceva il principio per il quale il giudice potesse astenersi dall’emettere il provvedimento coercitivo e concedere la libertà provvisoria allorché la ulteriore custodia in carcere fosse risultata “non proporzionata all’entità del fatto e all’entità della sanzione che si rit(eneva) po(tesse) essere irrogata con la sentenza di condanna, considerata la custodia già sofferta”. La proporzionalità, dunque, come canone di commisurazione della “ragionevolezza” della compressione della libertà personale, non soltanto al momento della scelta “se”emettere una misura cautelare e “quale” misura concretamente prescegliere, ma anche nel corso della relativa applicazione, in rapporto alla durata della privazione della libertà già subita, ancora una volta da orientare non soltanto sul quo modo, ma anche sull’an della coercizione. Risulterebbe, quindi, palesemente regressivo rispetto alla stessa storia dell’istituto della proporzionalità un sistema che, in presenza di una misura divenuta appunto “sproporzionata”, consentisse al giudice soltanto di affievolirne l’incidenza sulla libertà (sostituendola con altra meno grave o disponendone l’applicazione con modalità meno gravose), ma non di rimuoverla in toto. D’altra parte, se è indubitabile che, ove nel corso del procedimento muti in senso sfavorevole all’imputato il giudizio prognostico circa il quantum di pena irrogabile in caso di condanna, sia senz’altro consentita l’applicazione ex novo di una misura cautelare, non v’è ragione alcuna per ritenere preclusa l’ipotesi reciproca, ammettendo, dunque, la revocabilità di qualsiasi misura, ove lo scrutinio del caso conduca a ritenere funzionalmente superfluo il perdurare della cautela, in rapporto al “tipo” di condanna che si prevede verrà pronunciata.
5. Adeguatezza e proporzionalità, peraltro, non sono parametri autodefiniti ed indipendenti, giacché, entrambi, si riflettono – proprio perché iscritti nel panorama delle scelte circa l’an ed il quomodo della cautela – sulla esistenza e sulla qualità delle specifiche esigenze che possono ravvisarsi tanto all’esordio che nel divenire della vicenda cautelare. È ben vero che l’origine storica del principio di proporzionalità – di cui si è già fatto cenno -tradisce il suo intimo raccordo con l’istituto della “carcerazione preventiva” e con la finalità di impedire che la custodia ante iudicium possa comunque rivelarsi inutiliter data, alla luce della non eseguibilità della condanna, o quando risulti aver integralmente consumato la quantità di pena irrogabile o irrogata. Ed è altrettanto vero, come è stato osservato, che la funzione del principio risulti nel nuovo codice non poco sminuita, alla stregua della corposa gamma di presidi che mirano, appunto, ad impedire una “sproporzionata” applicazione o mantenimento della misura in rapporto alla condanna che si prevede possa essere inflitta, quali quelli delineati dall’art. 273 c.p.p., comma 2, art. 275 c.p.p., comma 2 – bis, art. 280 c.p.p., comma 2, art. 299 c.p.p., comma 2, e art. 300 cod. proc. pen.. Ma tutto ciò non toglie che i criteri di commisurazione delle misure cautelari tracciati dall’art. 275 c.p.p., comma 2, non possono far perdere di vista quella che è l’essenza cautelare delle misure e che ne giustifica l’applicabilità al lume dei già ricordati principi costituzionali: vale a dire l’inderogabile necessità che ogni misura – per non essere indebita anticipazione di pena -soddisfi funzionalmente una delle esigenze tassativamente previste dall’art. 274 cod. proc. pen.. In tale cornice, quindi, adeguatezza e proporzionalità rappresentano paradigmi di apprezzamento che si chiariscono solo nel quadro delle specifiche esigenze cautelari ravvisagli nel caso concreto e nel momento in cui lo scrutinio di adeguatezza e proporzionalità viene ad essere compiuto. Ove si postulasse, infatti, come il Tribunale a quo mostra di ritenere, che l’ipotetico raggiungimento del limite della proporzionalità sconti ex se l’automatica (e perciò stesso inammissibile, per quel che si è detto) dissoluzione delle esigenze cautelari che potessero comunque residuare, ne deriverebbe che l’altrettanto automatico venir meno della cautela, risulterebbe del tutto privo di “causa normativa”, posto che -nel quadro del sistema, come positivamente delineato – il permanere intonso delle condizioni di applicabilità della misura (ivi compresi, evidentemente, i relativi limiti di durata) non soltanto legittima, ma impone il relativo mantenimento.
D’altra parte, che il canone della proporzionalità non possa essere semplicisticamente risolto sulla base di una supposta, quanto arbitraria, verifica di tipo aritmetico tra la durata della misura e l’entità della pena che in via di prognosi potrà essere applicata all’esito del giudizio, è dimostrato dalla circostanza che il legislatore colloca – in termini perfettamente simmetrici ed equivalenti ai fini del relativo scrutinio – accanto alla “entità della sanzione”, anche la “entità del fatto”: a sottolineare, quindi, come sia imposta una verifica non soltanto quantitativa ma anche qualitativa del fatto e, dunque, delle esigenze che la relativa gravità può continuare a far emergere.
6. Per altro verso, a svelare l’erroneità dell’approdo ermeneutico cui perviene il Tribunale del riesame, sta la scelta di “commisurazione” del principio di proporzionalità, la quale, anziché essere raccordata al giudizio “triadico” che faccia leva sul tipo della misura applicata, sulla relativa durata in rapporto alla pena irrogata ed alla gravità del fatto, e sulle esigenze che – alla luce del bilanciato apprezzamento dei diversi parametri coinvolti -appaiono concretamente residuare nel caso di specie, finisce per evocare, eccentricamente, il criterio dei due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, di cui all’art. 304 cod. proc. pen., comma 6. La proporzionalità, come parametro di apprezzamento, è, infatti, principio tendenziale, che non sopporta automatismi aritmetici, sia perché, ove cosi fosse, sarebbe chiamato ad operare soltanto in chiave di durata della misura (surrogando, contra ius, la disciplina dei termini di cui agli artt. 303 e 304 cod. proc. pen.) e non anche in fase di prima applicazione, sia perché, concettualmente, il sindacato sulla “proporzione” non può non refluire sulle esigenze cautelari e viceversa. Se, per disposto costituzionale, al legislatore è fatto obbligo di prevedere dei termini di durata massima dei provvedimenti che limitano la libertà personale, è del tutto evidente che ove si ravvisino (in ipotesi anche al massimo grado) le condizioni e le esigenze che impongono il permanere della misura cautelare, risulterebbe addirittura contraddicono rispetto alla garanzia costituzionale circa i limiti massimi di durata, un sistema che consentisse provvedimenti liberatori automatici anticipati (e senza “causa” cautelare) rispetto al relativo spirare. Sotto altro profilo, non è neppure senza significato la circostanza che la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 304 c.p.p., comma 6, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nella parte in cui tale norma non prevede che la durata massima della custodia cautelare non possa comunque superare i due terzi della pena concretamente irrogata, allorché questa risulti non modificabile in peius, ha osservato come, nella specie, la richiesta del giudice a quo fosse orientata ad ottenere una sentenza manipolativa che avrebbe mutato “completamente il significato del limite finale dei due terzi della pena, trasformandolo in un correttivo verso il basso dei termini di fase complessivi, svincolato da ogni evento anomalo di sfondamento, e tale da comportare, in concreto, un drastico abbattimento dei termini stessi” (v. la ordinanza n. 397 del 2000, citata anche dal ricorrente). Il che sta evidentemente a dimostrare come un analogo risultato non possa certamente essere raggiunto semplicemente attraverso una opzione di tipo interpretativo, come al contrario mostra di reputare il Tribunale di Catanzaro.
7. Tutto ciò non toglie, peraltro, che l’intero sviluppo della vicenda cautelare debba essere sottoposto a costante ed attenta verifica circa la effettiva rispondenza dei tempi e dei modi di limitazione della libertà personale al quadro delle specifiche esigenze, dinamicamente apprezzabili, proprio alla stregua dei criteri di adeguatezza e proporzionalità, posto che, se, da un lato, l’approssimarsi di un limite temporale di applicazione della misura custodiale a quello della pena espianda non può risolversi nella automatica perenzione della misura stessa, è peraltro elemento da apprezzare con ogni cautela, proprio sul versante della quantità e qualità delle esigenze che residuano nel caso di specie e sulla correlativa adeguatezza della misura in corso di applicazione. Può, dunque, conclusivamente affermarsi che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale”.
Le Sezioni Unite, pertanto, se, per un verso hanno escluso che l’approssimarsi del limite temporale di applicazione della misura custodiale a quello della pena espianda possa risolversi nella automatica perenzione della misura stessa, per altro verso, hanno sottolineato che tale circostanza è da valutarsi con grande cautela, proprio al fine di verificare la persistenza della adeguatezza e proporzionalità della misura in corso di applicazione. In conclusione le Sezioni Unite hanno rilevato che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, “imponendo una costante verifica della perdurante idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale”.
Alla stregua di tali principi di diritto deve escludersi ogni automatismo anche per quanto riguarda il perdurare della presunzione legale di pericolosità, in ordine ai delitti di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen..
Questo Collegio, pur in presenza di indirizzi divergenti, ritiene che sia più coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite, testé richiamato, l’indirizzo giurisprudenziale che considera che:
“L’obbligatorietà della custodia in carcere ex art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. opera esclusivamente in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, ma non riguarda le vicende successive della permanenza o meno delle esigenze cautelari, per le quali occorre sempre verificare la concreta sussistenza della pericolosità sociale dell’indagato e, qualora essa risulti affievolita, la legittima possibilità di applicare una misura meno gravosa” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 4424 del 20/10/2010 Cc. (dep. 0402/2011 ) Rv. 249188; Sez. 6, Sentenza n. 25167 del 09/04/2010 Cc. (dep. 02/07/2010) Rv. 247595).
Tale orientamento inoltre è l’unico coerente con i principi di diritto in materia di misure cautelari custodiali affermati dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 164 del 2011, n. 265 del 2010 e n. 231 del 2011. In particolare con quest’ultima sentenza la Corte ha ribadito che: “la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è elemento significativo in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente ai fini della determinazione della sanzione, ma inidoneo a fungere da elemento preclusivo della verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte”.
Con tale sentenza la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), è applicata la custodia cautelare in carcere,salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Nel caso di specie il provvedimento impugnato ha escluso la possibilità di valutare l’affievolimento delle esigenze cautelari durante la fase applicativa della misura cautelare, applicando la presunzione di pericolosità sociale, di cui al terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen., che si riferisce al momento genetico della misura coercitiva, operando un automatismo incompatibile con il principio costituzionale della minore compressione possibile della libertà personale, come esplicato nella pronunzia delle Sezioni Unite, testé citata, e nelle richiamate pronunzie della Corte Costituzionale.
Di conseguenza si impone l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame.
P.Q.M.
Annulla l’impugnata ordinanza con rinvio al Tribunale di Catanzaro.