Usura e abolitio criminis: ancora dubbi sul dissestato connubio fra norma penale e norma integrativa extrapenale, fra derive logicistiche e teoria generale del reato (F.G. Capitani)

 

USURA E ABOLITIO CRIMINIS: ANCORA DUBBI SUL DISSESTATO CONNUBIO FRA NORMA PENALE E NORMA INTEGRATIVA EXTRAPENALE, FRA DERIVE LOGICISTICHE E TEORIA GENERALE DEL REATO

La Cassazione propende per una restrizione dei casi di abolitio criminis, in caso di modifica di un contenuto extrapenale

 

di Francesco G. Capitani, avvocato in Fermo

(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 1/2012)

 

SOMMARIO: I. Il fatto; II.  Una soluzione: “Prima non punibile, dopo non punibile, quindi non punibile”, gli argomenti semantici e quelli infrasistematici. Il fatto ex artt. 2 e 47 cod. pen.; III. La soluzione della Cassazione: le sirene (tradite) di una spinta logicista. IV. Considerazioni conclusive: un prospetto sinottico. V. (segue) Un derivato profilo ermeneutico di tipo sistemico: il fatto e la teoria generale del reato.

 

 

I.                    Il fatto.

 La Cassazione in commento ancora interviene sul campo mobile delle compatibilità normative, quando disposizioni appartenenti a generi distinti – nel caso penale ed extrapenale – si stagliano sulle piattaforme di senso e sui complessi categoriali delle specifiche verifiche giudiziali di tipo penale. La questione concerne l’ombrello applicativo dell’art. 2 del codice penale, nel caso in cui una modifica mediata della norma penale – per variazione di uno dei contenuti elementi integrativi di tipo extrapenale – giunga a ridefinire il campo sanzionatorio della succitata norma, sottraendo spazi ad un eventuale giudizio di colpevolezza. Più chiaramente, il dubbio sta nell’estensione da riconoscere all’art. 2 cit. e all’ivi contenuto principio di retroattività della norma penale più favorevole, quando la modifica intervenuta in corso di accertamento consentirebbe all’imputato di rimanere esente da sanzione, sebbene a variare sia un contenuto solo integrativo della norma, perché extrapenale. Nel caso si trattava della l. n. 106 del 7 luglio 2011, contenuta nel c.d. Decreto Sviluppo, la quale escludendo dal conteggio del tasso soglia ai fini dell’applicazione della norma speciale sull’usura – art. 644 cod. pen. – la quota attribuibile alla commissione di massimo scoperto, avrebbe avuto effetti salvifici per l’imputato per fatti antecedenti all’entrata in vigore di quella disposizione, altrimenti passibili di sanzione penale per superamento della soglia-limite.  La Cassazione aderisce al solco di quella prevalente giurisprudenza che attribuisce alle sole modifiche extrapenali tali da innovare parte del precetto penale, la capacità di consentire l’abolitio criminis per tutte le condotte precedenti alla variazione che sarebbero state punibili ai sensi della fattispecie medesima. Di fatto opera un discrimine, sulla cui fondatezza segue commento, fra modifiche penalmente rilevanti e modifiche non rilevanti, per gli effetti esimenti dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.

 

II.                  Una soluzione: “Prima non punibile, dopo non punibile, quindi non punibile”, gli argomenti semantici e quelli infrasistematici. Il fatto ex art. 2 e 47 cod. pen.

Le plurime soluzioni giurisprudenziali riposano sulle chiavi ermeneutiche generali, nell’aridità dei dati interpretativi utili contenuti nell’art. 2 cit. In verità la norma concede solo la vasta semantica contenuta nell’espressione “disposizioni più favorevoli al reo”, sgradita ai sostenitori di una interpretazione puramente formalista, in cui l’analisi sulla continenza fra elementi normativi si misura nell’area rarefatta della deducibilità logica, piuttosto che sugli esiti sassosi di un diritto misurato sul campo della concreta rudezza della sanzione penale. Quel riferimento semantico, di sapore relativistico, siccome ancorato alle sorti di un’analisi – quella che sostituisce il nuovo dato normativo al vecchio – che accede ad una quantificazione sanzionatoria, è piuttosto affine ad un diritto penale attento alla circostanzialità del caso concreto, al fatto acclarato, ai quali soli è demandata la misurabilità del campo estensivo dell’art. 2 cit. Se la modifica normativa, qualunque essa sia e da qualsiasi fonte provenga[1], produce in corso d’opera un effetto salvifico – perché più favorevole – dei destini processuali dell’agente/indagato/imputato, nulla si dovrebbe eccepire sull’esenzione da sanzione del medesimo, siccome quel giudizio – di favorevolezza – avrebbe acquisito la sua definitiva completezza. Anche altrove il codice penale fa del fatto – processualizzato – la bussola ermeneutica primaria a disposizione dell’interprete: l’art. 47, u.c., cod. cit. esclude la punibilità dell’agente quando l’errore su norma extrapenale è idoneo a cagionare una fuorviante percezione del fatto di reato. Si precisa: per gli effetti (esimenti) dell’art. 47 cit., l’errore sul fatto, a parere dello scrivente, attiene ad una dimensione introspettiva del bene giuridico oggettivamente leso, siccome ad essere oggetto è una travisata acquisizione percettiva di un fatto penalmente rilevante. Il fatto introspettivo è genericamente determinato dal precetto penale, di cui le componenti della fattispecie costituiscono articolazione e la cui consistenza è nutrita dalla diffusività del relativo disvalore socialmente condiviso. Non avrebbe senso distinguere, per l’applicazione dell’art. 47 cit., fra elementi normativi integrativi extrapenali e quelli invece extrapenali e costitutivi della norma[2], sì da ridurre lo sforzo ermeneutico alle mobilità proprie di un giudizio valoriale teso ad indagare – ex ante  il peso di quella norma extrapenale sul complesso disvalore della norma penale violata. Quel peso va stagliato sulla concretezza degli effetti nel mondo reale ovvero sul grado di adesione dell’agente alla condotta lesiva, oggettivamente determinata da elementi normativi imposti e definiti dall’imperio morale eventualmente trasgredito, nonchè misurata dall’esito processuale e dall’eventuale quantificazione sanzionatoria (v. par. n. IV). Dunque ritengo che il discrimine tracciato dall’ultimo comma dell’art. 47 cit., fra dati extrapenali tali da condurre all’errore sul fatto, rispetto agli altri che a tale risultanza non conducono, debba essere parametrata, anziché sulla qualità – integrativa o costitutiva – del dato normativo esterno alla disposizione penale[3], invece sull’impatto che quel dato normativo conduce sul fatto nella sua dimensione sostanziale come percepita dal soggetto agente e come processualmente acclarato, con esiti assolutori o sanzionatori. Al fatto “processualizzato”, per l’insita carica di disvalore connessa alla lesione del relato bene giuridico, va attribuita la veste selezionatrice del penalmente rilevante rispetto a quanto, per errore sul fatto ex art. 47 cit., non poteva essere introiettato come tale. Diversamente operando sublimerebbe il dato concreto in quello ideale-qualitativo, e la relata ipostatizzazione soffrirebbe le perdite di senso proprie di quelle operazioni logiche e induttive che pretendono di contenere la fenomenologia dei casi concreti, quando la sfuggente liquidità dei medesimi andrebbe recuperata sul piano, invece, della teoria generale del diritto. Ancora più limpidamente, sotto il profilo della semantica della norma: l’art. 47 cit. pare accedere ad una nozione del fatto nella sua dimensione soggettiva ed oggettiva, l’estensione dell’art. 2, quarto comma, cit., si misura, in correlazione, sul fatto processualmente acclarato – ai fini della verifica della favorevolezza della modifica rispetto alla versione precedente e quindi dell’applicazione eventuale dell’abolitio criminis -. Lo scarto temporale fra condotta illo tempore realizzata e sua certificazione processuale occupa i tempi attesi alla verifica delle condizioni oggettive per reputare reato la condotta dell’agente, non misura una distanza ideologica per un fatto che, comunque elaborabile in via diretta o presuntiva nel processo penale, viene fotografato in sede di accertamento ultimo della condotta. Ragion per cui il fatto di reato ex art. 47 cit. non è altro che il medesimo fatto valutato – ai fini della favorevolezza della prescrizione che lo descrive ed eventualmente lo sanziona – ex art. 2 cit. Il che consente di affidare all’art. 47 cit. il valore di un efficace argomento sistematico di sostegno alla tesi esposta[4]. Ne segue che, a seguire l’interpretazione descritta, il fatto di reato valutato più favorevolmente ai sensi della l. n. 106 del 7 luglio 2011 che si inserisce nel tessuto normativo dell’art. 644 Cod. pen., è il medesimo che in caso di errore sulla citata norma extrapenale condurrebbe agli effetti esimenti di cui all’art. 47 cit.[5] 

Un ulteriore sforzo infrasistematico: il primo, il secondo ed il quarto comma dell’art. 2 cod. pen. si distinguerebbero per la decorrenza del momento in cui quella condotta non più venga assimilata a reato – durante il “fatto di reato” o successivamente al suo accertamento – e il quarto comma dunque non conterrebbe i prodromi di una ulteriore verifica sul valore eventualmente abrogativo della variazione normativa extrapenale sul disvalore connesso alla norma intera prima della modifica. Il quarto comma insisterebbe sulla valutazione (processuale) di quel fatto medesimo. Senza nutrire alcun timore di eccesso riduzionistico: il fatto penale di cui al primo comma ed al secondo comma dell’art. 2 cit. è identico a quello del quarto. Siffatta identità va esternamente verificata alla luce degli effetti più favorevoli  per l’agente che una modifica normativa può recare alla norma penale, in punto di accertamento giudiziale. Quel medesimo fatto riecheggia fra le righe dell’art. 47 cit. – verificato nelle sue componenti soggettive ed oggettive e non nei termini della valutazione astratta della rilevanza della norma extrapenale nell’economia della specifica fattispecie penale violata – con evidente giovamento all’ortopedia sistematica sostenuta e alla coerenza del sistema[6]. Ancora più icasticamente: “Prima non punibile, dopo non punibile, quindi non punibile”[7], a prescindere dalla capacità incidente della normativa extrapenale sul disvalore interno alla fattispecie.

 

III.               La soluzione della Cassazione: le sirene (tradite) di una spinta logicista.

La succitata interpretazione, evidentemente generosa per l’agente del fatto penalmente rilevante e forse troppo ruvidamente definita dalla letteratura giurisprudenziale nei termini di teoria “sul fatto concreto”, seppur autorevolmente sostenuta, pare divenuta recessiva a favore di approcci strutturalmente orientati affini a valorizzare una operazione di sovrapposizione dei tasselli semantici delle disposizioni, in chiave logicamente inferenziale[8].  Si fa della fattispecie penale la connotazione tipica ed astratta di una classe di comportamenti. Delle componenti in specie mutate la misura di un rapporto fra le norme nella loro interezza, che esalta i dati testuali in una operazione formale di verifica delle relative continenze logiche. Le variazioni extrapenali agirebbero sui contenuti della disposizione penale, e all’interprete è demandato il compito di verificare, confrontando gli spazi semantici dei contenuti variati, se l’operazione di mutatio definitoria è tale da novare la natura/struttura della fattispecie penale, nel qual caso si produrrebbero gli effetti abolitori previsti dall’art. 2 cit., per i comportamenti antecedenti alla variazione, non più sanzionabili ai sensi della mutata disciplina. E le suddette variazioni extrapenali, c.d. integratrici, andrebbero distinte da quelle meramente definitorie non in grado di partecipare al luogo di senso costituito dal precetto penale e come tali, non idonee a produrre gli effetti di una supposta abolitio criminis[9]. Per cui, nella sentenza di cui è commento, viene riconosciuta alla modifica costituita dalla l. n. 106 del 7 luglio 2011 un valore inidoneo ad inficiare il disvalore penale della condotta di usura, come strutturata prima della modifica medesima, da reputarsi intatto anche a far seguito della modifica del contenuto extrapenale[10].  La successione avvenuta tra norme extrapenali non inciderebbe sulla fattispecie astratta, piuttosto comporterebbe più semplicemente un caso in cui in concreto il reato non è più configurabile, quando rispetto alla norma incriminatrice la modificazione della norma extrapenale comporta solo una nuova e diversa situazione di fatto. L’esposta interpretazione trae linfa da una supposta diversificazione fra norme in idonee ovvero inidonee a cagionare l’”errore sul fatto” – cui abbiamo accennato in precedenza –  in relazione al terzo comma dell’art. 47 cit. (v. nota n. 2) e che in quella sede si è ritenuto di dover escludere.

 

IV.                Considerazioni conclusive: un prospetto sinottico.

 In realtà, a parere dello scrivente, quando la teoria strutturalista si cala sul terreno della verifica della mutazione del disvalore penale connesso alla norma a seguito della modifica extrapenale, al fine di distinguere quelle modifiche rilevanti ai sensi dell’art. 2 cit. da quelle che tale rilevanza non possiedono, non realizza una operazione in grado di chiudere il cerchio delle operazioni analitiche possibili. Quell’operazione, aderente ad una tensione di tipo strutturalista-astratto, di verifica delle continenze semantiche fra gli elementi normativi interni alla fattispecie penale e di genere extrapenale, accede ad un conclusivo sforzo di riconduzione al tipo penale disegnato dalla norma – l’intimo disvalore di quel reato – al quale l’indagine si relaziona in termini di giudizio di valore più che di esatto rispondimento logico ed inferenziale fra gli spazi mutati a seguito della modifica normativa. Quel preteso strutturalismo, affine alle ambizioni di esattezza e concludenza della disciplina di interpretazione dei dati normativi, recupera i qualia di una valutazione che dal rigoroso formalismo delle scienze logiche prescinde mostrando le vesti di un approccio invece valutativo non in grado di astrarsi dal nucleo, invalutabile in termini strettamente logici, costituito dalla pregnanza penale del precetto eventualmente violato. Quel giudizio di continenza si cala nelle mobilità dei giudizi valoriali o qualitativi, impedendo il precipitarsi di un giudizio analitico alieno dai venti delle plurime tensioni ermeneutiche gravanti sull’interprete. Eppure, ancora a sostegno della teoria del “fatto concreto”, il “fatto di reato” di cui agli artt. 2 e 47 cod. pen., valutato secondo i canonismi ermeneutici giudiziali, è fatto precedente alla innovazione normativa penalizzante ai sensi del primo comma dell’art. 2 cit., è susseguente alla modifica normativa nel caso del secondo e del quarto comma dell’art. 2 cit., è passibile di errore di valutazione/percezione nel caso del terzo comma dell’art. 47 cit.[11] In quanto fatto (di reato) ne vanno indagate le componenti soggettive e quelle oggettive relative all’integrazione della condotta tipica come strutturata nella fattispecie vigente o in quella successiva in caso di un esito processuale più favorevole. Valga la seguente sinossi:

Accertamento processuale nella teoria del fatto concreto:

          A  +  f (B) → EP                                                                        (1)

f(B)  =  EP1 oppure EP2                                                            (2)

EP1 disuguale da EP2                                                                (3)

A: Elemento soggettivo, f(B): condotta tipica, EP1 o EP2: esiti processuali possibili applicando la norma precedente o seguente alla variazione normativa extrapenale.

In questo caso la determinazione della condotta tipica da preferire – precedente o seguente alla variazione normativa extrapenale – segue l’esito processuale più favorevole, misurabile in termini quantitativi di pena applicabile.

Invece, nel caso della teoria astratta-strutturale:

          f(B) = VR1 ovvero VR2                                                              (4)

 

VR1: valutazione del disvalore penale connesso alla legge precedente alla modifica; VR2: valutazione del disvalore penale connesso alla legge seguente alla modifica.

 

          Non valgono nè la (2) né la (3), in quanto l’analisi della condotta tipica applicabile – f(B) – non è determinata dall’effetto, cioè dalla disciplina più concretamente favorevole dell’imputato verificata sulla base del confronto dei meri testi di legge posti in successione, di seguito l’analisi perde un rilevante elemento quantitativo e dunque di certezza;

          F(B) riposa – come poco prima accennato – null’altro che su un giudizio di tipo valutativo, teso a verificare se la modifica della normativa extrapenale sia  in grado di intaccare la pregnanza del disvalore penale del precetto;

          Quella valutazione, che verifica se la modifica colpisce il disvalore della condotta precedente articolata, determina la sanzione applicabile;

Gli esiti sono icto oculi paradossali e comunque distonici con un diritto penale costitutivamente attento ad esigenze di certezza e di misurabilità: la pretesa completezza dell’interpretazione strutturalista riposa in realtà su un giudizio valoriale assente nella teoria del fatto concreto –  in cui a guidare la scelta del regime normativo applicabile sta il confronto delle quantità sanzionatorie seguenti o precedenti alla variazione della normativa extrapenale -. La teoria strutturalista supera i testi di legge in successione e fa applicare quel testo discrezionalmente ritenuto intriso di disvalore, solo nel caso in cui questo permanga a valle della intervenuta modifica extrapenale. Dunque, in confronto alla teoria del fatto concreto, inverte fattore ed esito del giudizio di reità.

 

V.                  (segue) Un derivato profilo ermeneutico di tipo sistemico: il fatto e la teoria generale del reato.

In altri termini, valorizzare il “fatto” ex artt. 2 e 47 cit. come rubricato dall’accertamento penale, insiste su una lettura ametafisica e demistificatrice del fenomeno giuridico, in cui la norma mutata si confronta con il proprio valore nella situazione reale e in cui siffatta contestualizzazione della norma assume un valore inventivo c.d. di ragionevolezza pratica[12]. Il che consente di misurare nell’impatto sanzionatorio del fatto processualmente acclarato quell’istanza di oggettività che i critici dell’empirismo giuridico dichiarano di esaltare quando fanno della generalità e dell’astrattezza dell’imperio giuridico gli strumenti legistici e redazionali primari che garantiscono i valori etici del sistema giuridico e la sua stabilità applicativa. Dunque si intende fuggire dall’asetticismo di un diritto che chiede a sé stesso nella supposta ambizione di una sfericità perfetta di cui il sistema logico e formale dei complessi normativi possiederebbe internamente i caratteri di coerenza e di completezza. Si sostiene invece che la singola  valutazione giudiziale contestualizzata dal complesso dei mezzi di indagine probatoria e dalle vesti rappresentazionali e circostanziali garantiti dai codici del processo penale, consente di restituire a quel fatto, processualmente certificato, il reato nella sua limpida ma più elaborata normatività, quale ricettacolo di senso e dell’intimo disvalore sociale, mutato nel tempo a seguito della variazione extrapenale. Questa precipitazione processuale del fatto consente di adempiere ad uno dei caratteri naturali della funzione giudiziaria, quello della giuris-dizione, cioè di rendere giustizia, più che di porsi primariamente il fine di rendere una risposta coerente con il sistema formale di riferimento. Permette, in adesione ad una consolidata teoria generale del reato costituzionalmente orientata, eguale trattamento a qualunque altro agente di un fatto analogo, pur se diversamente proiettato normativamente siccome intervenuta fra l’una e l’altra condotta una variazione extrapenale. Sarebbe altrimenti inevitabile correre il pericolo di ledere il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione la cui consistenza ambisce ad una dimensione deontica e dunque ragionevolmente pratica, governata da quei principi di proporzionalità cari al presente contributo e già ampiamente definiti in diffuse giurisprudenze costituzionali estere.

 

 


[1] Occorre isolare lo spazio dell’analisi: la norma extrapenale innerva quella penale di vita sua propria, quando l’imperio normativo agisce sulle legge penale c.d. in bianco. In tal caso l’elemento normativo reifica il precetto penale senza integrarlo ed acquisisce una veste penalistica pur senza possederne i requisiti formali. Il precetto penale è tale solo con la vigenza della norma extrapenale che riempie l’astrazione della disposizione penale e sussume i complessi effettuali propri della sanzione penale. La norma penale da ipotesi acquisisce la concretezza di un comando autoritativo che ne limita la vigenza nel tempo ai sensi, piuttosto, del primo comma, dell’art. 2 del Codice Penale e non del terzo comma di cui è commento.

[2] V. il dibattito in dottrina acceso sul valore dell’esimente, se da intendersi come “errore sul fatto” oppure “errore di fatto”.

[3] Come sostiene la Cassazione di cui è commento.

[4] Senza, al medesimo fine e fra le norme citate medesime, ricorrere  alla discussa figura dell’analogia in bonam partem ammessa in giurisprudenza ormai sparutamente -, che avrebbe consentito di superare l’horror vacui di una norma penale incompleta in punto di successione di norme penali – l’art. 2 cit., nel caso descritto – ricorrendo ad un più ampio e debole criterio di tipo ordinamentale.

[5] In particolare accedendo alla teoria del fatto penalmente rilevante di tipo bipartita, in cui la pregnanza della lesione del bene giuridico consente di assorbire, per la forza dell’imperio, la fase della verifica in ordine all’antigiuridicità della condotta e alla consistenza del dato extrapenale. Si tratta di una linea di sviluppo tendenziale del diritto penale che si scontra, per la quotidiana redazione di elementi di dettaglio al comando penale, con le cesellature di una legistica frastagliata in grado di frammentare la sanzione penale nei rivoli di tante minuzie normative (ad es.: circolari o regolamenti).

[6] Altrimenti, in punto di teoria generale del diritto penale costituzionalmente orientata (v. Bricola, in Digesto Penale), si ammetterebbe per un fatto non penalmente rilevante (ai sensi del primo comma dell’art. 2 cit.) o non più penalmente rilevante (ai sensi del secondo comma dell’art. 2 cit.) un trattamento distinto solo dal diverso momento di vigenza della norma dotata di effetti salvifici per l’agente, in spregio del principio di uguaglianza sostanziale contenuto dall’art. 3 della Costituzione.

[7] V. Padovani, in Diritto penale.

[8] A far data dalla Cassazione, Sezioni Unite, del 26 febbraio 2009. Inoltre: Sezioni Unite, 27 settembre 2007 – 16 gennaio 2008 n. 2451

[9] Coerentemente e in complemento con quella giurisprudenza costituzionale che ammette l’irretroattività della legge penale ed esclude la cittadinanza di un generale principio di irretroattività della norma extrapenale contenuta nella fattispecie penale (v., ad es., Corte Costituzionale n. 36 del 13 febbraio 1985). Non si esclude dunque la possibilità di una mutazione “mediata” della norma penale che incida, aggravandola, sulla posizione sostanziale dell’agente. Ancora una volta la tensione analitica si scarica sulle analisi delle norme penali mutate anziché sugli effetti eventualmente favorevoli per l’agente del fatto, a seguito o precedentemente alla modifica extrapenale.

[10] Ancora più incomprensibilmente la Cassazione in commento definisce l’art. 644 cod. pen. esempio di norma penale in bianco per poi negare valore esimente ad una mutata, in senso favorevole per l’imputato, determinazione del tasso soglia. Se la norma necessita strutturalmente di integrazioni extrapenali per acquisire consistenza e valenza applicativa, ogni elemento algebrico che definisce quel valore soglia acquisirebbe ipso iure rilevanza, data l’assenza di elementi costitutivi già autoreferenzialmente contenuti nella medesima disposizione penale. V. nota n. 1.

[11] Sui rapporti fra le citate disposizione, v. supra.

[12] In particolare nei paesi di common law, in cui  è la circostanzialità del caso concreto a nutrire la prassi giurisprudenziale, sì da decostruire la dogmatica tradizionale e l’ambizione di questa di onnicomprendere ogni variazione dei fatti sottoposti alla cognizione giudiziale.

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