LA LIQUIDAZIONE DELLE SPESE AL DIFENSORE VA PARAMETRATA AL VALORE EFFETTIVO DELLA CONTROVERSIA NONCHÈ ALL’IMPORTANZA E AL NUMERO DELLE QUESTIONI TRATTATE
Cassazione, sez. III, 30 novembre 2011, n. 25553
di Giovanni Ciccimarra, Avvocato
(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 1/2012)
QUAESTIO IURIS
Viste le recenti modifiche recentemente previste dal Governo in tema di modifiche del vigente sistema tariffario, affrontare la recente decisione con cui la Suprema Corte ha chiarito i criteri che il Giudice deve seguire nel governo delle spese giudiziali potrebbe apparire operazione di ricerca storiografica, se non addirittura di archeologia giuridica.
In realtà, l’impatto sulla specifica materia delle pretese “liberalizzazioni” potrebbe rilevarsi, ad un più attento esame, meno invasivo di quanto pubblicizzato; e, soprattutto, il richiamo ai “parametri stabiliti con Decreto Ministeriale” – che dovrebbero sostituire le vigenti Tariffe nella liquidazione giudiziale dei compensi –, se da un lato assume il sapore di mera variazione lessicale, lascia immodificata la necessità di individuare i criteri di determinazione del valore della controversia.
Ed, infatti, deve convenirsi che se il fine ultimo delle modifiche operate è quello di assicurare il corretto compenso per ogni prestazione, chiaramente esso non potrà prescindere da due dati fondamentali rappresentati, da un lato, da quanto previsto dall’art. 2233, comma 2, c.c. e, dall’altro, del vero principio fondamentale in materia, rappresentato dalla adeguatezza e proporzionalità degli onorari all’attività professionale svolta.
E questo, nel caso degli onorari relativi a prestazioni in materia civile, significa in primo luogo dare rilievo al valore effettivo della controversia. L’obiettivo, in sostanza, deve essere quello di evitare che compensi significativi vengano corrisposti a fronte di un ridotto impegno professionale, non anche quello di abbattere indiscriminatamente i costi legati al servizio legale.
Nell’ottica sopra individuata, peraltro, si segnala che per il passato la stessa Corte di Giustizia C.E. aveva riconosciuto, al sistema previsto dall’ordinamento nazionale italiano in tema di tariffe legali, una flessibilità tale da assicurare a ciascuna prestazione un adeguato compenso . La Cassazione, con la sentenza in esame, sembra fornire puntuale riscontro di quanto sopra affermato, facendosi carico di individuare e segnalare agli operatori tutti quei correttivi che, in un sistema che deve oramai definirsi previgente, consentivano comunque di parametrare il riconoscimento delle spese legali all’effettivo oggetto del contendere.
Il punto di partenza del ragionamento sviluppato dalla corsa è rappresentato da una precedente decisione a Sezioni Unite (Cass. civ., SS.UU., sent. 11 settembre 2007, n.19014), intervenuta a comporre il contrasto riguardante la determinazione del valore di una controversia in base al disputatum (contenuto della domanda formulata dall’istante) o al decisum (ciò che è stato concretamente riconosciuto all’esito del giudizio).
In quella occasione, la S.C. aveva composto il dissidio affermando il seguente principio: «il valore della controversia al fine del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato all’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica dell’art. 6, commi 1 e 2, della Tariffa per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa e tributaria, contenuta nella Delib. Consiglio Nazionale Forense 12 giugno 1993, approvata con D.M. Ministro Grazia e Giustizia 5 ottobre 1994, n. 585, avente natura subprimaria regolamentare e quindi soggetta al sindacato di legittimità di questa Corte – sulla base del criterio del disputatum (ossia di quanto richiesto dalla parte attrice nell’atto introduttivo del giudizio), tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo parziale della domanda, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum), salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel qual caso il giudice, richiestone dalla parte interessata, terrà conto non di meno del disputatum, ove riconosca la fondatezza dell’intera domanda».
Aggiungendo anche che: «La regola del decisum vale anche per i gradi successivi; ossia, se in grado d’appello si controverte solo su una parte della somma originariamente richiesta, è questo il disputatum del giudizio di impugnazione e sarà il decisum (ove favorevole all’attore in tutto o in parte soccombente in primo grado) a fissare il valore della causa in appello. Questa “riduzione” del valore della causa è coerente sia con il criterio del “decisum”, che esprime una generale esigenza di adeguatezza delle spese di lite all’effettiva importanza della lite stessa, sia con il criterio generale dell’art. 5 della Tariffa civile che fa riferimento – oltre che alla “natura” e al “valore” della controversia, all’”importanza” e al “numero” delle questioni trattate – anche specificamente al “grado” dell’autorità adita. Quindi il fatto che nel giudizio di impugnazione il thema decidendum si sia ridotto non può non incidere sulla natura e sull’importanza della questione; pertanto si riduce anche il disputatum (come regola), che concorre con il decisum (come eccezione) – al pari del giudizio di primo grado – nel caso di attribuzione solo parziale del bene della vita oggetto della lite».
LA SOLUZIONE di Cassazione, 30 novembre 2011, n. 25553
Benché la decisione delle Sezioni Unite rappresentasse un intervento particolarmente articolato, essa prendeva origine da una vicenda che vedeva la parte istante sempre vincitrice, circostanza che ha indotto i magistrati del Palazzaccio, con la decisione in commento, a meglio chiarire la portata dei principi dettati nella sentenza n. 19014/07 ed a precisare le modalità con cui essi operano in ipotesi di soccombenza dell’attore.
L’ipotesi portata all’attenzione della Suprema Corte è quella della liquidazione delle spese a carico della parte attrice soccombente.
Due le questioni affrontate dalla Cassazione con la sentenza in commento.
In primo luogo, si ribadisce il principio secondo cui il valore di una causa ai fini della liquidazione del compenso va riferito al decisum, ossia alla somma attribuita in concreto alla parte vittoriosa.
Tuttavia, secondo quanto si legge in parte motiva, l’effettiva portata dei principi affermati dalle Sezioni Unite va colta nel fatto che essa «ha individuato il criterio cardine [per la determinazione dei compensi di lite, n.d.a.] in quello del disputatum, fatto salvo il correttivo del decisum, per i giudizi di pagamento di somme o liquidazione di danni, quando vi sia un accoglimento parziale della domanda».
In buona sostanza, è possibile affermare che, nella determinazione del valore della controversia, anche ai fini della liquidazione delle spese di lite, il Giudice deve fare riferimento in primo luogo al valore del petitum originario e, solo quanto si controverta del pagamento di somme o della liquidazione dei danni, si potrà correggere tale valore sulla scorta di quanto emerso dalla istruttoria e, conseguentemente, sulla base di quanto effettivamente riconosciuto come dovuto.
Ma, precisa la Corte, presupposto per l’operatività del correttivo di cui innanzi è una decisione di merito che abbia avuto modo di pronunziarsi sul quantum della pretesa attorea; viceversa «nell’ipotesi di diniego della pronuncia di merito per accoglimento dell’eccezione di prescrizione, nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, il valore della controversia, per la liquidazione degli onorari a carico dell’attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest’ultimo domandata».
Quanto alla seconda questione affrontata dalla Corte, relativa alla sopravvenienza di vicende che abbiano in parte modificato l’originaria domanda, va segnalato che, nella fattispecie, tra l’attore ed alcuni degli originari convenuti era intervenuta una transazione parziale riferita esclusivamente alle rispettive quote di responsabilità ascritte ai convenuti transigenti.
Vero che l’art. 1304, comma primo, cod. civ., prevede che la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare.
Ma tale disposizione, come ben ricorda la Corte, «trova applicazione soltanto qualora l’accordo transattivo tra il creditore ed uno dei debitori in solido riguardi l’intero debito […] Se, invece, la transazione ha ad oggetto soltanto la quota dei debitori solidali stipulanti, l’art. 1304, comma primo, cod. proc. civ. non è applicabile, poiché si verifica lo scioglimento del vincolo solidale tra i coobbligati stipulanti e gli altri coobbligati; il debito solidale viene ridotto dell’importo corrispondente alla quota transatta; i debitori rimasti estranei all’accordo transattivo restano obbligati nei limiti della loro quota (così, da ultimo, Cass. n. 5108/11, nonché n. 16050/09, n. 14550/09, n. 7485/07, n. 9369/06, n. 8946/06, tra le più recenti)».
Dunque, a detta della Corte, la transazione effettuata nel caso di specie produce effetti che si riverberano anche sulle parti residue della lite perché la transazione stessa, ed il parziale pagamento da parte dei convenuti transigenti, produce l’effetto di ridurre l’originaria domanda, e di tale riduzione il Giudice investito della controversia deve tenere conto nella liquidazione delle spese processuali in favore del convenuto.
Sennonché, l’argomento non convince.
A giudizio di chi scrive, infatti, il principio dettato dalle Sezioni Unite in ipotesi di riduzione della pretesa in altro grado della lite, non può trovare applicazione anche nell’ambito del medesimo grado di giudizio.
Già le Sezioni Unite, con la più volte richiamata sentenza 19014/07, avevano avuto modo di ricordare che nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del Codice di Procedura Civile (artt 10 ss. c.p.c.) richiamati dal comma 2 dell’art. 6 della Tariffa forense.
Ciò significa che, il valore della lite originariamente determinato dall’istante, se non tempestivamente contestato nell’ammontare dal convenuto, rimane definitivamente fissato.
A tal punto, la rinunzia ad una parte della domanda potrebbe produrre effetti sulla liquidazione delle spese a carico della parte soccombente solo in ipotesi di parziale accoglimento della domanda e conseguente ricorso al criterio correttivo del “decisum”, non anche laddove la domanda venga di seguito integralmente respinta, nel qual caso non potrà che farsi riferimento all’intero petitum originariamente dispiegato in giudizio dalla parte istante.
In ogni caso, seppure con le osservazioni critiche che precedono, alla luce della giurisprudenza esaminata è attualmente possibile affermare l’esistenza dei principi che seguono:
1) Il criterio per la determinazione del valore della controversia ai fini della determinazione dei compensi dell’avvocato va commisurato al petitum formulato dall’attore;
2) quanto, però, le domande hanno contenuto patrimoniale, il riferimento, in caso di accoglimento, dovrà essere rappresentato dalle somme effettivamente riconosciute, salvo che la riduzione della pretesa non sia stata determinata da adempimento in corso di causa;
3) La domanda, originariamente determinata nel suo ammontare, può diventare indeterminata laddove in corso di causa intervengano eventi che ne riducano l’entità in misura non precisata (come la transazione nel caso di specie);
4) parimenti, laddove in sede di impugnazione la materia oggetto del contendere venga circoscritta ad alcune delle originarie domande, di tale riduzione dovrà tenersi conto nella determinazione del valore della causa.
Peraltro, nonostante alcune voci levatesi in senso contrario , i sopra affermati criteri dovrebbero ritenersi operanti non solo per le spese a carico della parte soccombente, ma anche nell’ipotesi di spese da porre a carico del cliente.
In tale ultima ipotesi, tuttavia, un qualche problema potrebbe porsi per l’ipotesi in cui il rigetto della domanda, in particolare laddove discenda dall’accoglimento di una eccezione preliminare e/o pregiudiziale, impedisca di accertare in corso di causa l’entità effettiva della pretesa attorea, con la conseguenza per il cliente di vedersi costretto a corrispondere al legale che si è visto integralmente respingere la domanda un compenso superiore a quello che si sarebbe percepito in ipotesi di parziale accoglimento della domanda .
In tal senso giunge probabilmente utile la norma, anch’essa contenuta nel decreto “Cresci-Italia”, che prevede l’obbligo di pattuizione preventiva del compenso, da sfruttare proprio per individuare convenzionalmente un compenso per il professionista da riconoscere in ipotesi di soccombenza in giudizio ed evitare eventuali contestazioni che proprio sul punto potrebbero insorgere