Favoreggiamento della prostituzione: è reato affittare a prezzo di mercato un appartamento ad una prostituta? Cassazione, sez. III, 23 febbraio 2012, n. 7076

 

FAVOREGGIAMENTO DELLA PROSTITUZIONE: È REATO AFFITTARE A PREZZO DI MERCATO UN APPARTAMENTO AD UNA PROSTITUTA?

Cassazione, sez. III, 23 febbraio 2012, n. 7076

 

  • Il delitto di tolleranza abituale della prostituzione richiede per la sua configurabilità che si sia in presenza di un locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico (quale albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo), nel cui interno il preposto, gerente o proprietario tolleri abitualmente la presenza di persone che esercitino la prostituzione.
  • Da tale disposizione si ricava anche che la mera tolleranza dell’altrui prostituzione in locali non aperti al pubblico o non utilizzati dal pubblico, di per sé, non è prevista come reato.
  • Se la locazione non è concessa allo scopo specifico di esercitare nell’immobile locato una casa di prostituzione (nel qual caso ricorrerebbe l’ipotesi di cui al n. 2 dell’art. 3 legge 75/1958), la condotta del locatore non configura propriamente un aiuto alla prostituzione esercitata dalla locataria, ma semplicemente la stipulazione di un contratto attraverso cui è consentito a quest’ultima di realizzare il suo diritto all’abitazione. Insomma l’aiuto (o più esattamente il negozio giuridico) riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non la sua attività di prostituta. E vero che indirettamente ne è agevolata anche la prostituzione; ma questo rapporto indiretto non può essere incluso nel nesso causale penalmente rilevante tra condotta dell’agente ed evento di favoreggiamento della prostituzione

 

Cassazione, sez. III, 23 febbraio 2012, n. 7076

(Pres. Teresi – Rel. Franco)

 

Svolgimento del processo

Con l’ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Ancona confermò il decreto di sequestro preventivo di tre appartamenti siti in Ancona ritenendo che sussistesse il fumus almeno del reato di cui all’art. 3, n. 3, legge 20 febbraio 1958, n. 75, in quanto era assai probabile che gli indagati tollerassero abitualmente la presenza di più persone che, all’interno dei medesimi appartamenti, si davano alla prostituzione. Ritenne altresì sussistente il periculum in mora perché era probabile che gli indagati, per affittare più facilmente gli immobili, fossero propensi a disinteressarsi dell’effettivo uso degli stessi.

Gli indagati propongono ricorso per cassazione deducendo:

1) mancanza di motivazione sul fumus del reato ipotizzato. Lamentano che il tribunale del riesame non ha risposto alle eccezioni sollevate con la richiesta di riesame e comunque ha ritenuto il fumus in termini meramente probabilistici e presuntivi, e con una deduzione incoerente ed incompleta. Il tribunale ha altresì omesso di prendere in considerazione le diffide inviate dai locatori alle inquiline.

2) mancanza di motivazione in riferimento al periculum in mora ed al rapporto pertinenziale tra i beni sequestrati ed il reato, in quanto è provato che gli appartamenti non erano organicamente e stabilmente strumentali alla attività illecita.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Agli indagati sembra essere stato contestato il fatto che, avendo la proprietà o comunque la disponibilità di tre appartamenti, li avevano concessi in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione ovvero vi avevano tollerato abitualmente la presenza di più persone che, all’interno dei medesimi appartamenti, si davano alla prostituzione, comunque favorendone in tal modo la prostituzione.

Il tribunale del riesame sembra aver ritenuto sussistente esclusivamente il fumus del reato di cui all’art. 3, comma 3, legge 20 febbraio 1958, n. 75, il quale riguarda la condotta di “chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si danno alla prostituzione”.

È quindi decisivo il rilievo che il delitto di tolleranza abituale della prostituzione, quindi, richiede per la sua configurabilità che si sia in presenza di un locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico (quale albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo), nel cui interno il preposto, gerente o proprietario tolleri abitualmente la presenza di persone che esercitino la prostituzione.

Da tale disposizione si ricava anche che la mera tolleranza dell’altrui prostituzione in locali non aperti al pubblico o non utilizzati dal pubblico, di per sé, non è prevista come reato.

Nella specie, a quanto emerge dalla ordinanza impugnata, tale ipotesi delittuosa – in riferimento alla quale soltanto il tribunale del riesame ha confermato la misura cautelare reale – non è prospettabile nemmeno in astratto non trattandosi di locali aperti al pubblico o utilizzati dal pubblico.

L’ordinanza impugnata, comunque, manca totalmente di motivazione anche in ordine alla possibilità di configurazione del fumus del reato di cui all’art. 3, comma 2, legge 20 febbraio 1958, n. 75, ossia del reato di concessione in locazione di una casa od altro a scopo di esercizio di una casa di prostituzione. Secondo il prevalente e più convincente orientamento di questa Corte, invero, “per integrare il concetto di casa di prostituzione previsto nei numeri 1 e 2 dell’art. 3 della legge 20 febbraio 1958 n. 75 è necessario un minimo, anche rudimentale, di organizzazione della prostituzione, che implica una pluralità di persone esercenti il meretricio” (Sez. III, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m. 214228); e “per integrare il concetto di casa di prostituzione, è necessario il contestuale esercizio del meretricio da parte di più persone negli stessi locali ed, all’interno dello stesso locale, l’esistenza di una sia pur minima forma di organizzazione” (Sez. III, 16.4.2004, n. 23657, Rincari, m. 228971), con la conseguenza che “Il reato di chi, avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa, la concede in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione non sussiste, pertanto, quando il locatore conceda in locazione l’immobile ad una sola donna, pur essendo consapevole che la locataria è una prostituta, e che eserciterà nella casa locata autonomamente e per proprio conto” (Sez. III, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m. 214228, cit.) e persino che “Non integra il reato di locazione di immobile alfine dell’esercizio di una casa di prostituzione concedere in locazione un appartamento all’interno del quale, sebbene con frequente turnazione, venga esercitata la prostituzione di volta in volta da una sola donna” (Sez. III, 16.4.2004, n. 23657, Rincari, m. 228971, cit.). Questo orientamento è stato da ultimo ulteriormente confermato da questa Sezione con sentenza 28 settembre 2011, Pastorelli (che ha anche rilevato come non convince il contrario indirizzo: Sez. Ili, 5.11.1999, n. 2730, Gori, m. 215760; Sez. Ili, 27.2.2007, n. 21090, Petrosillo, m. 236739), alle cui considerazioni, per brevità, si fa qui richiamo. Orbene, l’ordinanza impugnata non contiene alcuna motivazione sulla sussistenza dei requisiti per poter configurare il fumus del delitto di locazione di appartamento al fine dell’esercizio di una casa di prostituzione, ed in particolare, tra l’altro, sull’esistenza di una pluralità di persone esercenti il meretricio nell’appartamento e di una attività di organizzazione.

Allo stesso modo, l’ordinanza impugnata non contiene alcuna motivazione sulla sussistenza del fumus di un eventuale reato di favoreggiamento della prostituzione. Va ricordato che secondo una giurisprudenza da tempo affermata e prevalente, non è ravvisabile il favoreggiamento della prostituzione nel fatto di chi concede in locazione, a prezzo di mercato (altrimenti potrebbe ipotizzarsi lo sfruttamento), un appartamento ad una prostituta, anche se sia consapevole che la locataria vi eserciterà la prostituzione in via del tutto autonoma e per proprio conto (Sez. III, 6.5.1971, n. 999, Campo, m. 119000; Sez. III, 5.3.1984, n. 4996, Siclari, m. 164513; Sez. III, 3.5.1991, n. 6400, Tebaldi, m. 188540; Sez. III, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m. 214228). Questo orientamento, che qui va condiviso, è stato poi confermato anche da Sez. III, 13.4.2000, n. 8345, Donati, m. 217080, che pure è stata citata in senso contrario da decisioni che sembrerebbero aver affermato un principio opposto (Sez. III, 23.5.2007, n. 35373, Galindo, m. 237400), ma che in realtà nella motivazione richiedono pur sempre che, per aversi favoreggiamento, vi siano prestazioni ed attività ulteriori rispetto a quella della semplice concessione in locazione a prezzo di mercato. La citata sentenza Donati, infatti, rileva giustamente come la giurisprudenza che esclude il favoreggiamento in caso di mera locazione sia stata ispirata proprio dalla finalità di evitare aberrazioni non solo sul piano dell’etica e del senso comune ma anche in rapporto alla ratio e alla intentio legis cui porterebbe la configurazione come favoreggiamento di qualsiasi aiuto prestato solo alla prostituta in quanto persona e non direttamente all’esercizio del meretricio in quanto tale. In particolare, la detta sentenza ha, più che condivisibilmente, osservato che “se la locazione non è concessa allo scopo specifico di esercitare nell’immobile locato una casa di prostituzione (nel qual caso ricorrerebbe l’ipotesi di cui al n. 2 dell’art. 3 legge 75/1958), la condotta del locatore non configura propriamente un aiuto alla prostituzione esercitata dalla locataria, ma semplicemente la stipulazione di un contratto attraverso cui è consentito a quest’ultima di realizzare il suo diritto all’abitazione. Insomma l’aiuto (o più esattamente il negozio giuridico) riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non la sua attività di prostituta. E vero che indirettamente ne è agevolata anche la prostituzione; ma questo rapporto indiretto non può essere incluso nel nesso causale penalmente rilevante tra condotta dell’agente ed evento di favoreggiamento della prostituzione. Altrimenti si arriverebbe al paradosso che colui che soccorre una (a lui) nota prostituta che sta annegando sarebbe imputabile di favoreggiamento perché indirettamente consente alla prostituta di continuare ad esercitare il suo mestiere! In verità – com’è noto – secondo la legge 75/1958 la prostituzione per se stessa non è prevista come reato, mentre è penalmente sanzionata ogni attività che induca, favorisca o sfrutti la prostituzione altrui, giacché il legislatore è mosso dallo scopo evidente di evitare che il mercimonio del sesso (penalmente irrilevante, ma socialmente riprovevole) sia comunque incentivato o agevolato da interessi o da comportamenti di terzi. Orbene, anche quando il reato previsto è a forma libera (come il favoreggiamento e lo sfruttamento, che possono essere commessi in qualsiasi modo), la condotta dell’agente deve essere legata all’evento da un nesso causale penalmente rilevante. Poiché l’evento del reato non è la prostituzione, bensì – nella fattispecie de qua – l’aiuto alla prostituzione, ciò significa che esula il reato ove la condotta dell’agente non abbia cagionato un effettivo ausilio per il meretricio, nel senso che questo sarebbe stato esercitato ugualmente in condizioni sostanzialmente equivalenti”.

Orbene, nel caso in esame, l’ordinanza impugnata non solo non ha dato alcuna motivazione sul fatto che gli indagati avessero agito allo scopo specifico di far esercitare nell’immobile locato una casa di prostituzione (intesa nel senso specificato) o comunque allo scopo specifico di fornire un contributo causale alla prostituzione esercitata dalla locataria, ma nemmeno ha indicato un qualche elemento da cui potesse ricavarsi il fumus che gli indagati comunque tollerassero la prostituzione svolta negli immobili (fatto che peraltro, di per sé solo, per le ragioni dianzi indicate non costituisce reato) ma addirittura rileva che era solo probabile, e quindi nemmeno certo, che gli stessi fossero a conoscenza dell’attività svolta negli appartamenti.

Analogo vizio di mancanza di motivazione, o di motivazione meramente apparente e generica, è ravvisabile in ordine al periculum in mora, che l’ordinanza impugnata ha apoditticamente ravvisato nel pericolo che la libera disponibilità degli appartamenti potesse consentire la protrazione della attività criminosa, per la probabilità che gli indagati, per affittare gli appartamenti, siano propensi a disinteressarsi del loro effettivo uso. E difatti, non è stata nemmeno indicata quale relazione specifica e stabile esista tra la cosa sequestrata e l’attività illecita, ed in particolare che gli appartamenti siano organicamente e stabilmente strumentali alla attività illecita.

L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata per mancanza di motivazione sul fumus del reato ipotizzato e sul periculum in mora, con rinvio per nuovo esame al tribunale di Ancona, che si uniformerà ai principi di diritto dianzi enunciati.

 

P.Q.M.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Ancona per nuovo esame

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