2.2.3. – Pertanto – sul piano delle norme, di rango primario o sub-primario, applicabili alla fattispecie in prima approssimazione -, alla specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, deve darsi, in conformità con i su menzionati precedenti di questa Corte, risposta negativa.
Al riguardo, deve essere infine precisato che, nella specie, l’intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 – come, invece, originariamente affermato dall’ufficiale dello stato civile di Latina a giustificazione del rifiuto di trascrizione, in conformità con le menzionate circolari emanate dal Ministero dell’interno -, ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall’ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli (cfr., supra, n. 2.2), della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano. Ciò che, conseguentemente, esime il Collegio dall’affrontare la diversa e delicata questione dell’eventuale intrascrivibilità di questo genere di atti per la loro contrarietà con l’ordine pubblico.
3. – Ma, già da tempo ed attualmente, la realtà sociale e giuridica Europea ed extraeuropea mostra, sul piano sociale, il diffuso fenomeno di persone dello stesso sesso stabilmente conviventi e, sul piano giuridico, sia il riconoscimento a tali persone, da parte di alcuni Paesi Europei (anche membri dell’Unione Europea, come nella specie) ed extraeuropei, del diritto al matrimonio, ovvero del più limitato diritto alla formalizzazione giuridica di tali stabili convivenze e di alcuni diritti a queste connessi, sia – come si vedrà più oltre in dettaglio {cfr., infra, nn. 3.3.1. e seguenti) – un’interpretazione profondamente “evolutiva” dell’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Una realtà siffatta esige, quindi, che la specifica questione dianzi esaminata sia considerata nel contesto di quella più generale (cfr., supra, n. 2.1.) consistente nello stabilire se il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto a due persone dello stesso sesso dalla Costituzione italiana e/o se esso discenda immediatamente dai vincoli derivanti allo Stato italiano dall’ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., secondo il quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
3.1. – Il Collegio ritiene che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso.
Al riguardo, com’è noto, la Corte costituzionale – chiamata a decidere, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis cod. civ., “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso” (questione sollevata in una fattispecie – analoga a quella in esame – di opposizione, ai sensi dell’art. 98 cod. civ., avverso l’atto con il quale l’ufficiale dello stato civile aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta da due persone dello stesso sesso) -, con la più volte menzionata sentenza n. 138 del 2010, ha dichiarato detta questione non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., ed inammissibile, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cfr. anche le successive ordinanze, di manifesta inammissibilità e di manifesta infondatezza di analoghe questioni, nn. 276 del 2010 e 4 del 2011).
In particolare ed in estrema sintesi: 1) la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., è stata dichiarata non fondata, sia perché l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica “creativa”, sia perché, in specifico riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee rispetto al matrimonio; 2) la questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost. è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata; 3) la medesima questione – sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle specifiche norme “interposte”, di cui ai già citati artt. 12 della CEDU e 9 della cosiddetta “Carta di Nizza” – è stata dichiarata del pari inammissibile, perché tali norme interposte, “con il rinvio alle leggi nazionali, […] conferma[no] che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”.
Benché si tratti di pronuncia di inammissibilità e di non fondatezza della questione sollevata, perciò priva di efficacia vincolante erga omnes, il Collegio ritiene che non siano individuabili parametri costituzionali o ragioni, diversi da quelli già scrutinati dal Giudice delle leggi, tali da giustificare una nuova rimessione alla Corte costituzionale, tenuto anche conto che, come dianzi rilevato, successivamente alla sentenza n. 138 del 2010 sono state già pronunciate due ordinanze di manifesta infondatezza e di manifesta inammissibilità di questioni analoghe.
Al riguardo, non è certamente decisiva in senso contrario l’argomentazione dei ricorrenti, secondo la quale la Corte, mutuando la nozione costituzionale di matrimonio di cui all’art. 29 Cost. dal codice civile, avrebbe arbitrariamente invertito l’ordine e l’oggetto del giudizio di costituzionalità stabilito dalla Costituzione (art. 134): da quello della “legittimità costituzionale” della legge (e degli atti aventi forza di legge) a quello, per così dire, della “legittimità della Costituzione”.
In primo luogo, infatti, la Corte – nell’affermare che “I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile”, sicché, “in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942 che […] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso” – ha inteso sottolineare con nettezza: per un verso, che il concetto di matrimonio è stato “costituzionalizzato” dall’art. 29 nel significato codicistico e che, tuttavia, esso ed anche il concetto di famiglia “non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”; ma, per altro verso, che tale interpretazione “evolutiva” “non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”, sicché “Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa” (n. 9. del Considerato in diritto).
In secondo luogo, e più in generale, la predetta argomentazione difensiva, per così dire, “prova troppo”, perché la Costituzione, non essendo stata ovviamente concepita e formulata in un “vuoto normativo”, richiama innumerevoli volte concetti, nozioni ed istituti che, elaborati nelle varie branche del diritto, acquistano, con il recepimento nel testo costituzionale, significati nuovi e diversi e, soprattutto, natura, valore e forza propri delle norme costituzionali e, quindi, l’idoneità a costituire parametri del controllo di costituzionalità (si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’art. 22 Cost., secondo il quale “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome [corsivi aggiunti]”, dove tali termini giuridici sono stati appunto mutuati dal codice civile e dalla legge ordinaria sulla cittadinanza n. 555 del 1912, allora vigente).
3.2. – Tuttavia, proprio alcune nuove ed importanti affermazioni, contenute nella stessa sentenza n. 138 del 2010 e relative allo scrutinio della questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost., potrebbero far sorgere il dubbio che il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso possa derivare immediatamente da tale “principio fondamentale” della Costituzione. Come sarà subito chiaro, neppure da queste affermazioni può dedursi che esse comportino, secondo la Corte, il riconoscimento costituzionale di tale diritto.
La Corte – dopo aver precisato che per “formazione sociale”, di cui all’art. 2 Cost., “deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” – ha affermato: “In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza” (n. 8. del Considerato in diritto).
Con tali espressioni, la Corte ha in definitiva affermato: a) per la prima volta, che nelle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. deve comprendersi anche “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, con la conseguenza che le singole persone componenti tale formazione sociale sono titolari del “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, diritto fondamentale che, derivante immediatamente dall’art. 2, discende anche dall’art. 3, primo comma, Cost., laddove questo assicura la “pari dignità sociale” di tutti (i cittadini) e la loro uguaglianza davanti alla legge, “senza distinzione di sesso”, e quindi vieta qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e qualsiasi discriminazione fondata sull’identità o sull’orientamento omosessuale; b) che, fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto “inviolabile”, qualsiasi formalizzazione giuridica della unione omosessuale “necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia”, con la conseguenza che, “nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”; c) che deve essere escluso che l’aspirazione a tale riconoscimento giuridico “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”; d) che deve, comunque, ritenersi “riservata” a se stessa “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
L’attenta analisi di queste nuove ed importanti affermazioni – di cui il giudice comune deve comunque tener conto nella risoluzione dei casi volta a volta sottopostigli – consente di sottolineare, per quanto in questa sede interessa: da un lato, che l’art. 2 della Costituzione non riconosce il diritto al matrimonio delle persone dello stesso sesso e neppure vincola il legislatore a garantire tale diritto quale forma esclusiva del riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale, vale a dire ad “equiparare” le unioni omosessuali al matrimonio; per altro verso, che il “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, derivante invece immediatamente dall’art. 2 Cost., comporta che i singoli (o entrambi i) componenti della “coppia omosessuale” hanno il diritto di chiedere, “a tutela di specifiche situazioni” e “in relazione ad ipotesi particolari”, un “trattamento omogeneo” a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata”, omogeneizzazione di trattamento giuridico che la Corte costituzionale “può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
A quest’ultimo riguardo, la Corte richiama esplicitamente due specifici precedenti: 1) con la sentenza n. 404 del 1988, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani}, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio”, nonché la illegittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, della medesima legge n. 392 del 1978, “nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto”, per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.); 2) con la sentenza n. 559 del 1989, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell’art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell’art. 2, comma secondo, della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione CIPE pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole”, per violazione dell’art. 2 Cost. (“Questa Corte ha già altra volta riconosciuto indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione, e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale: cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987”: n. 3. del Considerato in diritto).
È certo, pertanto, che la Corte costituzionale ha escluso che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto dall’art. 2 della nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso, anche se alcune delle su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti, comportano – come si vedrà più oltre (cfr., infra, n. 4.2.) – rilevanti conseguenze sul piano della tutela giurisdizionale dell’unione omosessuale.
3.3. – Con la già menzionata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), di poco successiva a quella della Corte costituzionale dianzi richiamata, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affrontato – per la prima volta – la questione se due persone dello stesso sesso “possono affermare di avere il diritto di contrarre matrimonio” (p.50).
3.3.1. – Al riguardo – per la migliore comprensione del successivo discorso -, è indispensabile premettere il quadro normativo di riferimento e le connesse questioni concernenti l’efficacia delle menzionate norme, convenzionale e comunitaria, nell’ordinamento italiano.
A) L’art. 12 (che reca la rubrica: “Diritto al matrimonio”) della CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce: “Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”.
A sua volta, l’art. 14 della stessa Convenzione (che reca la rubrica: “Divieto di discriminazione”) dispone, tra l’altro, che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso […]” e va letto, con riferimento alla fattispecie, in relazione al precedente art. 8 (che reca la rubrica: “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”), laddove (paragrafo 1) statuisce che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”.
B) L’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cosiddetta “Carta di Nizza”, ivi proclamata il 7 dicembre 2000, e nuovamente proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in vista della firma del Trattato di Lisbona) stabilisce: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano 1resercizio”.
Tale articolo – come pure i su menzionati articoli della Convenzione Europea – debbono essere interpretati in relazione con:
1) l’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) – come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 -, il quale stabilisce: “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati [paragrafo 1, primo comma]. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati [secondo comma]. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni [terzo comma]. L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati [paragrafo 2]. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali [paragrafo 3]”;
2) l’art. 51 della Carta (che reca la rubrica “Ambito di applicazione” ed è compreso nel Titolo VII, concernente “Disposizioni generali che disciplinano l’interpretazione e l’applicazione della Carta” e richiamato dal su menzionato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE) statuisce: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati [paragrafo 1]. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati [paragrafo 2]”;
3) l’art. 52, paragrafo 3, della stessa Carta (che reca la rubrica “Portata e interpretazione dei diritti e dei principi” ed è parimenti compreso nel Titolo VII) dispone: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.
3.3.2. – Dev’essere a questo punto ancora chiarito, in riferimento alla preliminare questione se l’art. 9 della Carta sia immediatamente applicabile nella specie, che la specifica fattispecie oggetto del presente giudizio – concernente la trascrivibilità, o no, nei registri dello stato civile italiano di un atto di matrimonio di cittadini italiani dello stesso sesso celebrato all’estero – è del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell’Unione Europea ed inoltre è priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell’Unione.
Tale chiarimento si rende necessario perché i ricorrenti, con la memoria di cui all’art. 378 cod. proc. civ., hanno formulato la richiesta di “valutare la sussistenza dei presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, affinché […] chiarisca quale sia l’interpretazione più corretta da dare al disposto combinato degli artt. 9, 21, 51, 52, 53, 54 della Carta di Nizza, in considerazione del riflesso di tale interpretazione sul diritto di libertà di circolazione dei cittadini Europei nell’ambito del territorio dell’Unione”.
Il senso di tale richiesta si basa sulla non del tutto esplicitata considerazione che due cittadini dello stesso sesso di uno degli Stati membri dell’Unione, i quali abbiano contratto matrimonio in uno di tali Stati che riconosca un matrimonio siffatto, non potrebbero stabilirsi, con il medesimo status di coniugi, in altro Stato membro che non riconosca invece il matrimonio omosessuale, con conseguente lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri, garantita dall’art. 21, paragrafo 1 (ex art. 18, paragrafo 1, del TCE), del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), come avvenuto nella specie.
Al riguardo, deve sottolinearsi che la Corte costituzionale, proprio sulla base di un’articolata interpretazione dei su riportati artt. 6, paragrafo 1, secondo comma, del TUE e dell’art. 51 della Carta -nonché del costante orientamento seguito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sia anteriore che successivo all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr., ex plurimis, la sentenza 29 maggio 1997, nella causa C-299/95, Kremzow; l’ordinanza 6 ottobre 2005, nella causa C-328/04, Attila Vajnai; la sentenza 5 ottobre 2010, nella causa C-400/10, Me B, L. E., nonché la più recente sentenza 15 novembre 2011, nella causa C-256/11, Dereci) – ha affermato il seguente principio: “Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è […] che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto Europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto”; con la conseguenza che tale principio esclude “che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione Europea” (n. 5.5. del Considerato in diritto; per un’applicazione esplicita di tale principio, cfr. la sentenza di questa Corte n. 22751 del 2010).
Alla luce di tali consolidati principi, è del tutto evidente, perciò, che la su specificata fattispecie, oggetto del presente giudizio, risulta del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell’Unione Europea, ed inoltre priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell’Unione.
Decisivo al riguardo è il rilievo che lo stesso art. 9 della Carta, nel riconoscere il “diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, riserva tuttavia ai singoli Stati membri dell’Unione il compito di garantirli nei rispettivi ordinamenti “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, in tal modo esplicitamente chiarendo che la disciplina generale concernente la garanzia di tali diritti è “materia” attribuita alla competenza di ciascuno degli stessi Stati membri.
Deve in ogni caso aggiungersi che, secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea, “Il diritto alla libera circolazione comprende sia il diritto per i cittadini dell’Unione Europea di entrare in uno Stato membro diverso da quello di cui sono originari, sia il diritto di lasciare quest’ultimo” (cfr. la sentenza 17 novembre 2011, nella causa C-434/10, Aladzhov), sicché appare chiaro che l’impedimento denunciato dai ricorrenti è di mero fatto, non implicando alcuna lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno (gli stessi ricorrenti hanno contratto matrimonio nel Regno dei Paesi Bassi e si sono poi stabiliti in Italia nel Comune di Latina) e dipendendo inoltre, si ribadisce, dalla attribuzione a ciascuno Stato membro dell’Unione della libera scelta di garantire o no il diritto al matrimonio omosessuale.
3.3.3. – La Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la richiamata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), pronunciata in un caso del tutto analogo a quello in esame – due cittadini austriaci di sesso maschile avevano chiesto all’ufficio dello stato civile di adempiere le formalità richieste per contrarre matrimonio e, a fronte della reiezione della richiesta, avevano dedotto di essere stati discriminati, in violazione degli artt. 12 e 14, in relazione all’art. 8, della Convenzione, in quanto, essendo una coppia omosessuale, era stata loro negata la possibilità di contrarre matrimonio o di far riconoscere la loro relazione dalla legge in altro modo -, ha ritenuto tra l’altro, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’art. 12 e, a maggioranza, che non vi è stata violazione dell’art. 14, in relazione all’art. 8, della Convenzione.
Nonostante tale dispositivo di rigetto delle richieste dei ricorrenti, la sentenza contiene importanti novità sull’interpretazione sia dell’art. 12 sia dell’art. 14 della Convenzione.
A proposito dell’interpretazione dell’art. 12 della CEDU, operata dalla Corte Europea in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta (cfr., supra, n. 3.3.1.), è opportuno richiamare le “spiegazioni” della stessa Carta – di cui al quinto capoverso del Preambolo ed al paragrafo 7 dell’art. 52 della stessa Carta (“[…] la Carta sarà interpretata dai giudici dell’Unione e degli Stati membri tenendo in debito conto le spiegazioni elaborate sotto l’autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate sotto la responsabilità del Praesidium della Convenzione Europea”), nonché del su riportato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, del TUE (“I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni”) -, in quanto esse, “pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione” (così, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 138 del 2010, n. 10 del Considerato in diritto).
Orbene, nelle “spiegazioni” all’art. 52, paragrafo 3, è detto: “Il paragrafo 3 [dell’art. 52] intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo affermando la regola secondo cui, qualora i diritti della presente Carta corrispondano ai diritti garantiti anche dalla CEDU, il loro significato e la loro portata, comprese le limitazioni ammesse, sono identici a quelli della CEDU. […] Il riferimento alla CEDU riguarda sia la Convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di tali strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione Europea. L’ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all’Unione di garantire una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU. […] In appresso è riportato l’elenco dei diritti che, in questa fase e senza che ciò escluda l’evoluzione del diritto, della legislazione e dei Trattati, possono essere considerati corrispondenti a quelli della CEDU ai sensi del presente paragrafo. […] 2. Articoli della Carta che hanno significato identico agli articoli corrispondenti della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ma la cui portata è più ampia: – l’articolo 9 copre la sfera dell’art. 12 della CEDU, ma il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale […]” (corsivi aggiunti).
Inoltre, nella stesse “spiegazioni”, concernenti specificamente l’art. 9, è detto: “Questo articolo si basa sull’articolo 12 della CEDU […]. La formulazione di questo diritto è stata aggiornata al fine di disciplinare i casi in cui le legislazioni nazionali riconoscono modi diversi dal matrimonio per costituire una famiglia. L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU, ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda [corsivo aggiunto]”.
Tali spiegazioni, nell’attestare la strettissima correlazione tra la Convenzione e la Carta normativamente sancita dall’art. 52, paragrafo 3, della Carta, che “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, primo comma, del TUE -, danno conto a sufficienza delle ragioni per le quali la Corte Europea ha interpretato l’art. 12 della Convenzione in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta, il quale “copre la sfera dell’art. 12 della CEDU, ma il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale”.
Tanto premesso, la Corte Europea, in particolare: a) quanto all’interpretazione dell’art. 12 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A) – dopo aver rammentato la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui “l’articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia. L’esercizio di questo diritto da origine a conseguenze personali, sociali e giuridiche. Esso è soggetto alle leggi nazionali degli Stati Contraenti, ma le limitazioni introdotte in merito non devono limitare o ridurre il diritto in modo o in misura tale da minare l’essenza stessa del diritto […]” -, ha affermato, tra l’altro, che:
1) “[…] esaminata isolatamente, la formulazione dell’articolo 12 [Uomini e donne] potrebbe essere interpretata in modo da non escludere il matrimonio tra due uomini o tra due donne. Tuttavia, in antitesi, tutti gli altri articoli sostanziali della Convenzione concedono diritti e libertà a tutti o dichiarano che nessuno deve essere sottoposto a certi tipi di trattamento proibito. La scelta della formulazione dell’articolo 12 deve pertanto essere considerata intenzionale. Inoltre, si deve tenere conto del contesto storico in cui è stata adottata la Convenzione. Nel 1950 il matrimonio era inteso chiaramente nel senso tradizionale di unione tra partner di sesso diverso” (p.55);
2) “[…] l’incapacità per una coppia di concepire o di procreare un figlio non inibisce di per sé il diritto di contrarre matrimonio […]. Tuttavia, tale decisione non permette alcuna conclusione sulla questione del matrimonio omosessuale” (p.56);
3) “Secondo la tesi dei ricorrenti si deve leggere attualmente l’articolo 12 come concedente alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio o, in altre parole, come facente obbligo agli Stati Membri di prevedere tale accesso nelle loro legislazioni nazionali. […] La Corte non è persuasa della tesi dei ricorrenti. Tuttavia, come essa ha osservato nel ricorso di Christine Goodwin, l’istituto del matrimonio ha subito importanti cambiamenti sociali dall’adozione della Convenzione […] La Corte osserva che non vi è un consenso generale Europeo in materia di matrimonio omosessuale. Attualmente non più di sei Stati aderenti alla Convenzione su quarantasette permettono il matrimonio omosessuale” (p. 57 e 58);
4) “Passando alla comparazione tra l’articolo 12 della Convenzione e l’articolo 9 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (la Carta), la Corte ha già osservato che quest’ultima ha volutamente evitato il riferimento agli uomini e alle donne […]. Il Commentario alla Carta, che è divenuto giuridicamente vincolante nel dicembre 2009, conferma che l’articolo 9 intende avere un campo di applicazione più ampio dei corrispondenti articoli di altri strumenti relativi ai diritti umani […]. Allo stesso tempo il riferimento alla legislazione nazionale riflette la diversità dei regolamenti nazionali, che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto. Facendo riferimento alla legislazione nazionale, l’articolo 9 della Carta lascia decidere agli Stati se permettere o meno i matrimoni omosessuali. Nelle parole del commentario: … si può sostenere che non vi è ostacolo al riconoscimento delle relazioni omosessuali nel contesto del matrimonio. Tuttavia non vi è alcuna disposizione esplicita che prevede che le legislazioni nazionali debbano facilitare tali matrimoni [corsivo aggiunto]” (p. 60);
5) “Visto l’articolo 9 della Carta, pertanto, la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale [corsivo aggiunto]” (p. 61);
6) “A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società […] In conclusione, la Corte ritiene che l’articolo 12 della Convenzione non faccia obbligo allo Stato convenuto di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti” (p. 62 e 63);
b) quanto all’interpretazione dell’art. 14, in relazione all’art. 8 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A), ha affermato, tra l’altro, che: 1) “È indiscusso nel presente caso che la relazione di una coppia omosessuale come i ricorrenti rientri nella nozione di vita privata nell’accezione dell’articolo 8. Tuttavia, alla luce dei commenti delle parti la Corte ritiene opportuno determinare se la loro relazione costituisce anche una vita familiare [corsivo aggiunto]” (p. 90);
2) “La Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio”. […] (corsivo aggiunto) (p. 91);
3) “In antitesi, la giurisprudenza della Corte ha accettato solo che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisca vita privata, ma non ha ritenuto che essa costituisca vita familiare, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte ha osservato che nonostante la crescente tendenza negli Stati Europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l’esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un’area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità […]. Nel caso di Karner […], relativo al subentro del partner di una coppia omosessuale nei diritti locativi del partner deceduto, che rientrava nella nozione di abitazione, la Corte ha esplicitamente lasciato aperta la questione di decidere se il caso riguardasse anche la vita privata e familiare del ricorrente” (p. 92);
4) “La Corte osserva che dal 2001 […] ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un notevole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali […] Certe disposizioni del diritto dell’UÈ riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia […]” (p. 93);
5) “Data quest’evoluzione la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione [corsivo aggiunto]” (p. 94).
3.3.4. – È noto che, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, l’interpretazione e l’applicazione delle norme della Convenzione, pur essendo affidata ai giudici degli Stati contraenti, è attribuita, in via definitiva, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la cui competenza appunto “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste” dalla Convenzione medesima, con la conseguenza che detti giudici hanno il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alla norma convenzionale fintantoché ciò sia reso possibile dal testo di tale norma e, in caso di impossibilità dell’interpretazione “conforme”, di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale “interposta”, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.; con l’ulteriore conseguenza che l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il “diritto vivente” della Convenzione (cfr. l’art. 32 della CEDU; cfr., altresì, ex plurimis, le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, n. 80 del 2011 e n. 15 del 2012).
Ciò premesso, l’analisi dei su riportati brani della sentenza della Corte Europea mostra inequivocabilmente che essa contiene due novità sostanziali rispetto alla precedente giurisprudenza concernente l’interpretazione degli artt. 12 e 14 della Convenzione, novità correlate alla novità del caso sottoposto all’esame della Corte.
A) La prima novità attiene appunto alla questione se il diritto al matrimonio, riconosciuto dall’art. 12 della Convenzione, comprenda anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La risposta della Corte non lascia adito a dubbi: “Visto l’articolo 9 della Carta […], la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”.
Al riguardo, deve sottolinearsi che:
1) la ratio decidendi si fonda – per le ragioni già dette – sull’interpretazione non del solo art. 12, ma di tale disposizione in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta che, pur avendo “significato identico” a quello dell’art. 12, ha tuttavia “portata più ampia”, in quanto “il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale” (cfr., supra, n. 3.3.3.): si fonda, cioè, sull’interpretazione del diritto fondamentale al matrimonio secondo il criterio magis ut valeat;
2) la ratio decidendi, inoltre, costituisce vero e proprio Overruling (“[…] la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto […]”) rispetto alla precedente giurisprudenza richiamata dalla stessa Corte, secondo la quale “l’articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia”;
3) conseguentemente, il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art. 12 ha acquisito, secondo l’interpretazione della Corte Europea – la quale costituisce radicale “evoluzione” rispetto ad “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio” -, un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso (cfr., supra, nn. 3.3.1., lettera B, e 3.3.3.);
4) secondo la Corte, tuttavia – in piena conformità con l’inequivocabile tenore letterale degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta -, la “garanzia” del diritto ad un matrimonio siffatto è totalmente riservata al potere legislativo degli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”); ed è proprio per questa ragione che la Corte ha potuto affermare che, nel caso sottopostole, “l’articolo 12 della Convenzione non fa[ccia] obbligo allo Stato convenuto [nella specie, l’Austria] di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti”.
A quest’ultimo riguardo, secondo l’impostazione della Corte, le ora richiamate disposizioni, pur “riconoscendo” detti diritti, sono state tuttavia formulate in modo tale da separare il “riconoscimento” dalla “garanzia” degli stessi: infatti, l’art.12 della CEDU riconosce “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia”, ma “secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”; corrispondentemente, l’art. 9 della Carta riconosce “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, ma al contempo afferma che questi diritti “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. E la ragione di questa “separazione” – come emerge nitidamente dalla motivazione della sentenza della Corte Europea – sta nella constatazione delle notevoli ed a volte profonde differenze sociali, culturali e giuridiche, che ancora connotano le discipline legislative della famiglia e del matrimonio dei Paesi aderenti alla Convenzione e/o membri dell’Unione Europea.
B) La seconda novità attiene alla questione se la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di “vita familiare” nell’accezione dell’articolo 8 della Convenzione.
Anche su tale questione la risposta della Corte è chiarissima: “Data quest’evoluzione [sociale e giuridica] la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Questa estensione alla coppia omosessuale stabilmente convivente del diritto alla “vita familiare” costituisce coerente conseguenza del riconoscimento ai singoli componenti tale coppia, da parte della Corte Europea, del diritto al matrimonio e del diritto di fondare una famiglia ed attesta ancora una volta la necessità di distinguere tra riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, altre forme di riconoscimento giuridico della stabile convivenza della coppia omosessuale e riconoscimento ai singoli componenti tale unione di altri diritti fondamentali.
4. – Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, può pervenirsi – ferma restando la decisione di infondatezza del ricorso in esame – ad una risposta maggiormente articolata alle questioni – più generale e specifica – poste a questa Corte dalla presente fattispecie (cfr., supra, n. 2.1.), segnatamente in relazione agli effetti, nell’ordinamento giuridico italiano, della sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 (cfr., supra, nn. 3.1. e 3.2.) e della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.).
4.1. – Occorre muovere dal rilievo che, se il diritto di contrarre matrimonio è diritto fondamentale -in quanto derivante dagli artt. 2 e 29 Cost. ed espressamente riconosciuto, come più volte rilevato, dall’art. 16, paragrafo 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, dall’art. 12 della CEDU del 1950, dall’art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 e dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000-2007 -, esso spetta “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, cioè alla persona in quanto tale (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 2001, 249 del 2010, 245 del 2011 cit.).
Il riconoscimento di tale diritto fondamentale comporta necessariamente non soltanto l’appartenenza di esso al patrimonio giuridico costitutivo ed irretrattabile del singolo individuo quale persona umana, ma anche la effettiva possibilità del singolo individuo di farlo valere erga omnes e di realizzarlo, nel che consiste la “garanzia” del suo “riconoscimento”, secondo l’inscindibile binomio contenuto nell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili […]”).
La sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 ha negato fondamento costituzionale al diritto al matrimonio tra due persone dello stesso sesso, in riferimento sia agli artt. 3 e 29, sia all’art. 2 Cost. Dunque, il suo riconoscimento e la sua garanzia – cioè l’eventuale disciplina legislativa diretta a regolarne l’esercizio -, in quanto non costituzionalmente obbligati, sono rimessi alla libera scelta del Parlamento; ciò che trova espressa conferma negli artt. 12 della CEDU e 9 della Carta, i quali riservano appunto alla disciplina legislativa dei singoli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea la garanzia del “diritto al matrimonio” (CEDU) e dei diritti “di sposarsi e di costituire una famiglia” (Carta).
Secondo la sentenza della Corte Europea 24 giugno 2010, invece, il diritto al matrimonio, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta, include anche quello al matrimonio di persone dello stesso sesso, quale “nuovo contenuto” ermeneuticamente emergente proprio dai predetti diritti riconosciuti dalla Convenzione e dalla Carta, fermo restando tuttavia che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato Contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale. […] A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società”).
Tale “riserva assoluta di legislazione nazionale”, per così dire, non significa, però, che le menzionate norme, convenzionale e comunitaria non spieghino alcun effetto nell’ordinamento giuridico italiano, fintantoché il Parlamento – libero di scegliere, sia nell’an sia nel quomodo – non garantisca tale diritto o preveda altre forme di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. Dette norme, invece – attraverso gli “ordini di esecuzione” contenuti nelle su citate leggi che hanno autorizzato la ratifica e l’esecuzione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e del Trattato sull’Unione Europea -, sono già da tempo entrate a far parte integrante dell’ordinamento giuridico italiano e devono essere interpretate in senso “convenzionalmente conforme”.
Ed allora, il limitato ma determinante effetto dell’interpretazione della Corte Europea – secondo cui “la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto” -, sta nell’aver fatto cadere il postulato implicito, il requisito minimo indispensabile a fondamento dell’istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi e, conseguentemente, nell’aver ritenuto incluso nell’art. 12 della CEDU anche il diritto al matrimonio omosessuale (cfr., supra, n. 2.2.2.). La Corte Europea, in altri termini, sulla base della ricognizione delle differenze, anche profonde, delle legislazioni nazionali in materia, “che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto”, ha (soltanto) rimosso l’ostacolo – la diversità di sesso dei nubendi appunto – che impediva il riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, riservando tuttavia la garanzia di tale diritto alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali.
4.2. – Le considerazioni che precedono consentono di pervenire ad una prima conclusione circa la più generale questione se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il diritto fondamentale di contrarre matrimonio.
Come già sottolineato (cfr., supra, nn. 3.2. e 4.1.), la sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010, pur negando specifico fondamento costituzionale al riconoscimento del diritto al matrimonio di persone dello stesso sesso, ha tuttavia affermato: che nelle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. è inclusa “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”; che fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto “inviolabile”, “nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”, e che, tuttavia, resta “riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
A sua volta, la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.) ha affermato anche che “la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8”, e che “Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Ed allora, le su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti da parte della Corte costituzionale, non danno adito a dubbi circa il senso e, soprattutto, gli effetti dei dieta delle due Corti nell’ordinamento giuridico italiano.
I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia -, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto ovvero nella parte in cui non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza.
4.3. – Le medesime considerazioni consentono di pervenire all’altra conclusione circa la specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero – come nella specie -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.
La risposta negativa, già data, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della “inesistenza” di un matrimonio siffatto per l’ordinamento italiano.
Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma – l’art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte Europea -, che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi nel senso dianzi specificato (cfr., supra, n. 4.1.), ne segue che la giurisprudenza di questa Corte – secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante – non si dimostra più adeguata alla attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio. Per tutte le ragioni ora dette, l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende -non più dalla loro “inesistenza” (cfr., supra, n. 2.2.2.), e neppure dalla loro “invalidità”, ma – dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
5. – La novità di tutte le questioni trattate giustifica la compensazione integrale delle spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Dispone, ai sensi dell’art. 52 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che nel caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.