L’ILLEGITTIMITÀ DEL TERMINE APPOSTO AL CONTRATTO DI LAVORO PUBBLICO. IL SISTEMA INDENNITARIO
Tribunale di Roma, sez. lav., 8 novembre 2011, n. 17966
Francesco Magnosi
(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 3/2012)
Con la sentenza citata il Tribunale del Lavoro capitolino ha consolidato quella prospettazione interpretativa che individua nel sistema dell’indennizzo il rimedio più adatto a sanzionare il ricorso illecito ad una serie di contratti di lavoro a termine da parte della P.A.
Il Giudice del Tribunale di Roma, premettendo che nel pubblico impiego il lavoratore assunto con contratto a termine illegittimo non possa aspirare alla trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, questi in ogni caso abbia diritto al risarcimento del danno.
Si osservi preliminarmente che nell’impiego privato la stipula di un contratto individuale a tempo determinato che risulti essere illegittimo cagiona al lavoratore un danno immediato, consistente nel fatto che il contratto a termine si è posto come alternativa al contratto a tempo indeterminato, per cui se il datore di lavoro non avesse apposto la clausola, poi rivelatasi illegittima, il lavoratore sarebbe stato assunto con contratto a tempo indeterminato.
In questo caso, l’ammontare del danno risarcibile è immediatamente individuabile, in quanto è rappresentato dalle retribuzioni non godute dal lavoratore dalla illegittima cessazione del rapporto di lavoro al ripristino dello stesso.
Se ciò appare sussumibile per il rapporto di lavoro privato, per quanto riguarda il lavoro pubblico la regola base secondo cui le assunzioni devono avvenire all’esito del superamento di un concorso esclude la sussistenza del citato danno, poiché, se il lavoratore non fosse stato assunto con l’illegittimo contratto a tempo, egli non avrebbe verosimilmente potuto stipulare un contratto a tempo indeterminato, dovendo prima superare una prova concorsuale.
Queste osservazioni hanno indotto parte della giurisprudenza a negare al lavoratore pubblico assunto con contratto a termine rivelatosi illegittimo ogni forma di risarcimento, sulla motivazione, per la verità suscettibile di molte critiche, dell’insussistenza di un danno subito.
La gran parte della giurisprudenza, più accorta e sensibile al problema, ha osservato che la conclusione dinanzi nominata, seppure coerente con i principi in materia di risarcibilità del danno, contrasta profondamente con l’impostazione rappresentata dalla Corte di Giustizia Europea, la quale sostanzialmente configura il risarcimento del danno più come una sanzione per l’amministrazione, avente un valore deterrente, che come un diretto ristoro per il lavoratore.
Così, il Giudice romano, più che andare alla ricerca di elementi che consentono di quantificare il danno, ha considerato più opportuno «individuare un sistema indennitario che da un lato si ponga come deterrente per l’amministrazione dallo stipulare contratti a termie illegittimi, dall’altro possa costituire un ristoro per il lavoratore senza fare gravare su di lui l’onere di provare il danno subito» .
Secondo questa prospettazione interpretativa, che appare conforme agli obiettivi prefissati dalla Corte di Strasburgo, il danno lamentato è in re ipsa, e non avrebbe bisogno di essere provato in giudizio, con ciò non volendosi aggravare l’onere di allegazione da parte del ricorrente.
In tal caso, con una decisione lineare ed equilibrata il Giudice, pur escludendo la stabilizzazione, ha inteso apprestare una tutela realmente avanzata all’illecito subito dal lavoratore, rappresentato dall’aver subito la stipulazione di una serie di contratti a tempo di cui è stata dichiarata l’illegittimità del termine per contrarietà a norme imperative.
Quanto al parametro di riferimento per la quantificazione del danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine, la sentenza romana afferma che un utile parametri di riferimento possa rinvenirsi nell’art. 32, comma 5, della legge 183/2010.
L’affermazione più avvincente della decisione in analisi, è rappresentata dal fatto che il Giudice, pur rilevando che la norma non sia direttamente applicabile al lavoro pubblico, per il quale, come visto, la conversione è esclusa, la stessa introduce una forfetizzazione del danno subito dal lavoratore in ipotesi di illegittima apposizione del termine, che prescinde dalla prova della effettiva sussistenza di un danno – tanto che la norma prevede che in luogo del risarcimento venga stabilita una indennità – costituendo un valido parametro per la liquidazione del danno in esame.
Invero, nel momento in cui il legislatore ha determinato le conseguenze economiche derivanti dall’illegittima apposizione del termine nel campo privato, tali conseguenze possono essere mutuate anche per il settore del pubblico impiego, con un’operazione di analogia che appare non censurabile ed opportuna in considerazione del caso affrontato.
Infatti, l’applicazione del detto sistema indennitario consente di assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, più volte affermato dalla Corte di Giustizia, in quanto garantisce al lavoratore pubblico una forma di tutela patrimoniale non meno favorevole rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato in situazioni analoghe nel lavoro privato.
A parere si chi scrive, il sistema da ultimo menzionato appare, tra i tanti cui si è fatto riferimento, uno dei più duttili e capaci di rendere giustizia ai lavoratori precari del settore pubblico. Si potrebbe altresì osservare che si tratta di una prospettiva nuova di concepire la misura del risarcimento danni nel nostro sistema: il concetto del punitive damage non è consueto nell’ordinamento italiano (seppur parte della dottrina sostiene il contrario), tuttavia, il riferimento a questo modo di intendere il risarcimento è inevitabile, nelle problematiche in evidenza.
Solo in questo modo, il risarcimento del danno diventa una misura alternativa alla stabilizzazione, proporzionata, effettiva ma, soprattutto, dissuasiva nei confronti delle pratiche tendenti alla contrattualizzazione a tempo, così come imposto anche dal Giudice comunitario.
D’altro canto, solamente la previsione del risarcimento del danno da ingresso nel sistema ad una concreta alternativa alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.
In conclusione, l’utilizzo dell’impianto previsto dall’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010 consente al Giudice di graduare la sanzione risarcitori tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto.
In particolare, anche tenendo conto dei criteri più volte predicati anche dalla Corte di Giustizia per sottoporre ad analisi un rapporto di lavoro a termine e valutarne l’eventuale illegittimità, il risarcimento andrebbe calcolato tenendo conto della durata complessiva dei rapporti a termine, del numero dei contratti a termine illegittimi nonché della tipologia dei contratti.
È auspicabile che, in considerazione degli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza, il divieto di stipulare una serie di contratti a termine divenga una regola, e che il sistema sanzionatorio rinvenibile dalla lettura delle disposizioni presenti nel D.Lgs. 165/2001 e nel D.Lgs. 368/2001 che riconosce il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore , sia in grado di responsabilizzare maggiormente i dirigenti pubblici affinché sia garantita una efficace azione di prevenzione avverso l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato.