Istigazione alla corruzione e tentativo di corruzione attiva e passiva (V. Zinzio)

 

ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE E TENTATIVO DI CORRUZIONE ATTIVA E PASSIVA

Valentina Zinzio

 

 

Sommario: 1. Il delitto di istigazione alla corruzione. – 1.1 Istigazione alla corruzione passiva – 1.2 Istigazione alla corruzione attiva. – 2. Tentativo di corruzione e principali questioni interpretative – 3. Profili differenziali.

 

 

1. Il delitto di istigazione alla corruzione.

L’istigazione alla corruzione trova la sua disciplina normativa nell’art. 322 c.p. il quale descrive quattro distinte ipotesi criminose. I commi primo e secondo prevedono per il privato, l’istigazione alla corruzione passiva; viceversa, i commi terzo e quarto contemplano per il soggetto pubblico, l’istigazione alla corruzione attiva. Mentre le istigazioni ad opera del privato erano già previste dall’originaria versione normativa, quelle del pubblico agente sono state opportunamente introdotte dalla legge n. 86/90 al fine di colmare un vuoto legislativo che, ritenuto altrimenti insuperabile dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale non ravvisava alcun possibile appiglio interpretativo, aveva come unico risultato quello di creare un’ingiustificata disparità di trattamento dei due soggetti.

Le istigazioni riguardano le corruzioni proprie ed improprie di cui agli artt. 318, 319 c.p. le quali si differenziano a seconda che il pubblico agente riceva denaro od altra utilità, ovvero ne accetti la promessa, per commettere, oppure omettere o ritardare un atto contrario ai doveri d’ufficio; ovvero per compiere un atto conforme ai doveri d’ufficio. Inoltre, esse si differenziano altresì in antecedenti o susseguenti a seconda che la promessa o la dazione segua o meno il compimento dell’atto, ovvero il ritardo o l’omissione dello stesso. Pertanto, sia il richiamo effettuato dal I comma dell’art. 322 c.p. al I comma dell’art. 318 c.p., sia le formule dei commi I e II “per indurlo a compiere” ovvero “per indurre ad omettere o ritardare un atto” limitano espressamente l’istigazione del privato alle corruzioni passive, impropria o propria, antecedenti, così come accade per le istigazioni alla corruzione attiva di cui ai commi III e IV della norma in esame. Tuttavia, il richiamo senza distinzione effettuato dai commi III e IV dell’art. 322 c.p. agli artt. 318, 319 c.p., nonché le menzionate “finalità” di tali disposizioni, hanno spinto taluni Autori a ritenere che l’istigazione alla corruzione attiva operi anche con riferimento alle forme di corruzione susseguente. Invero, le argomentazioni poste a sostegno di tale assunto interpretativo non appaiono sufficienti a far concludere in tal senso. Infatti, l’uso al plurale del termine “finalità” risulterebbe comunque ambiguo, se si considera che esso è propriamente riferibile al solo futuro (pertanto sarebbe una forzatura ritenerlo riferito anche al passato e alla forma susseguente); inoltre, cio’ darebbe luogo ad una notevole differenza di trattamento in peius per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio i quali risulterebbero assoggettati all’identica “sorte punitiva” riservata al corrotto e al corruttore nelle corruzioni consumate, con il conseguente insorgere di seri e fondati dubbi di legittimità costituzionale.

Il mancato richiamo della norma in esame alla corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p. ha dato luogo ad un ulteriore problema interpretativo. Ci si è chiesti infatti, quale sia la disciplina giuridica applicabile nel caso in cui la proposta di conclusione dell’accordo criminoso abbia per oggetto un atto giudiziario. A tal proposito, la dottrina ha elaborato due diverse soluzioni. Una prima consiste nel ritenere punibili i fatti corruttivi in questione in base al combinato disposto degli artt. 56, 319-ter c.p., anche se può apparire incongruente che il legislatore abbia elevato a reati autonomi le ipotesi criminose degli artt. 318, 319 c.p. e non invece l’art. 319-ter c.p., comparativamente più grave; pertanto, al fine di evitare tale inconveniente, un’altra ricostruzione suggerisce invece di ricondurre l’istigazione alla corruzione in atti giudiziari nell’ambito dell’art. 322 c.p., in base al rinvio che tale norma opera agli artt. 318, 319 c.p., a loro volta richiamati dall’art. 319-ter c.p.

La rubrica dell’art. 322 c.p. parla di “istigazione alla corruzione” ma l’espressione in verità non denota la mera condotta di chi fa sorgere o rafforza l’altrui proposito criminoso. Vi deve infatti essere già stato l’inizio di esecuzione incarnato dalla “promessa” o “dall’offerta” da parte del privato o la “sollecitazione della promessa” da parte del pubblico funzionario, dovendo  mancare quindi soltanto l’accettazione della promessa da parte del pubblico ufficiale nei primi due commi, ovvero l’accettazione del privato nei restanti III e IV comma.

Dal punto di vista strutturale, la particolare configurazione del delitto contemplato dall’art. 322 c.p. ha suscitato incertezze in ordine alla sua collocazione sistematica. La dottrina assolutamente dominante, sulla scorta del fatto che la norma in esame non disciplina condotte di istigazione in senso stretto, ritiene che il delitto de quo dia luogo a forme di tentativi unilaterali di corruzione (ossia ricerche di accordi non andate a buon fine a causa del rifiuto della controparte) sanzionate come reati autonomi attraverso una pena più severa. Così facendo, il legislatore ha elevato a delitto consumato un comportamento costituente tentativo, ricomprendendo al suo interno anche fatti che altrimenti sarebbero rimasti impuniti per il principio dell’istigazione non accolta sancito dall’art. 115 c.p.

Per quanto concerne il bene giuridico tutelato dalla norma in esame, esso ricalca sostanzialmente l’interesse protetto dalle forme di corruzione di cui agli artt. 318, 319 c.p. trattandosi di attività dirette a conseguire i risultati tipici di questi due delitti, con l’unica differenza dell’anticipazione della soglia della punibilità. In particolare, in tema di corruzione impropria ex art. 318 c.p., l’orientamento maggiormente persuasivo individua il bene giuridico protetto nell’interesse a che gli atti d’ufficio non costituiscano oggetto di una compravendita privata. In tal modo si vuole salvaguardare un rapporto Stato-cittadino non inquinato dall’intromissione di interessi “privati” o “venali” del pubblico funzionario nel compimento di atti del suo ufficio.

Assai controversa appare invece l’individuazione dell’oggetto giuridico nell’ambito della corruzione propria. Accantonata la tesi, diffusa soprattutto in passato, che considerava tutelato il dovere d’ufficio o di fedeltà, la dottrina ha avanzato diverse soluzioni interpretative. Accanto a coloro che individuano l’oggetto giuridico nel regolare funzionamento della P.A. dando risalto al fatto corruttivo come sviamento dell’attività amministrativa dai suoi fini pubblici istituzionali attraverso lo sfruttamento dell’ufficio a fini privati, si è sviluppata di recente una nuova linea interpretativa. A fronte del ricorso diffuso a pratiche di corruzione condotte su scala internazionale si è affermato che la dimensione offensiva dei reati di corruzione non sarebbe più riconducibile a tradizionali interessi di categoria quali il buon andamento e l’imparzialità della P.A., bensì a nuovi e diversi valori relativi all’integrità della “costituzione economica”. Tuttavia, se è indubbio che il fenomeno corruttivo finisce per coinvolgere profili economici della nostra società, il nucleo centrale della corruzione è e rimane l’illecito pactum sceleris in relazione all’attività dell’ufficio. Pertanto, se è vero che gli effetti della corruzione appaiono dirompenti sul terreno economico, l’attuale quadro normativo delineato dagli artt. 318-322 c.p. non consente di individuare nuovi ed ulteriori profili di offensività rispetto all’interesse a che gli atti della P.A. non siano oggetto di “compravendita”.

 

1.1 Istigazione alla corruzione passiva

I primi due commi dell’art. 322 c.p. disciplinano la figura dell’istigazione alla corruzione passiva, andando a colpire la condotta  del privato che “offre o promette denaro o altra utilità” al pubblico agente. L’offerta sta ad indicare l’atto spontaneo del porre la cosa o l’utilità  a disposizione di altri. L’analisi di essa ha portato dottrina e giurisprudenza a differenti approdi interpretativi. Mentre la dottrina maggioritaria ritiene necessario che l’offerta venga recepita dal pubblico funzionario, la dottrina minoritaria e la giurisprudenza ritengono invece che si possa parlare di offerta anche se il denaro o l’altra utilità non siano ancora stati consegnati al destinatario della condotta delittuosa. Tale ultima impostazione determina un notevole, discutibile, arretramento della soglia di punibilità. Risulta infatti molto difficile poter parlare di vera e propria offerta a taluno di qualcosa in difetto almeno di un contatto personale tra chi offre e il destinatario della predetta.

La dottrina appare invece concorde nel ritenere necessaria, ai fini dell’integrazione del reato in esame, la percezione della promessa da parte del destinatario, poiché essa prevede solo una futura messa a disposizione del denaro o dell’altra utilità. Di diverso avviso appare invece la giurisprudenza che talvolta, così come per l’offerta, non ritiene necessario che la promessa del privato sia recepita dalla controparte, trattandosi di un reato di mera condotta la cui consumazione si verifica nel momento e nel luogo in cui il comportamento tipico è tenuto. Invero, come affermato da taluni Autori, pare preferibile ritenere la percezione da parte del destinatario un elemento del reato poiché esso rappresenta il presupposto necessario della sua mancata accettazione.

Promessa ed offerta, ancorchè non determinate nella quantità devono comunque possedere i caratteri dell’effettività, della serietà e dell’idoneità alla realizzazione dello scopo, oggetto, quest’ultimo, del dolo specifico che deve animare il soggetto agente nella realizzazione dell’iter criminis. La giurisprudenza ritiene che una volta stabilità la serietà dell’offerta o della promessa, l’idoneità vada valutata secondo un giudizio ex ante che tenga conto dell’entità del compenso, delle qualità personali del destinatario e delle sue condizioni finanziarie, delle possibilità dell’offerente e di ogni altra connotazione del caso concreto.

Controversa appare infine l’ammissibilità del tentativo. Parte della dottrina e della giurisprudenza giungono a negarne il rilievo poiché, altrimenti, affermano, si finirebbe per anticipare la soglia della punibilità sino a ricomprendere comportamenti che si risolvono in un tentativo del tentativo. Secondo un altro orientamento invece, il tentativo sarebbe ammissibile per le ipotesi in cui l’azione del dare o promettere è sì iniziata, ma non si è compiuta. Ad esempio nel caso in cui una lettera contenente l’offerta della retribuzione non venga recapitata al pubblico funzionario perché sequestrata prima che giunga a destinazione. Tuttavia anche la giurisprudenza nega l’ammissibilità della forma tentata ritenendo che i fatti di cui all’art. 322 c.p. integrino già di per sé condotte di tentativo. A conferma di cio’, la giurisprudenza è ormai pacifica nell’escludere l’operatività della desistenza volontaria e del recesso attivo con riferimento al reato in esame.

 

1.2 Istigazione alla corruzione attiva.

Le figure criminose di cui ai commi III e IV dell’art. 322 c.p. sono state introdotte dal legislatore del 1990 (legge 26.04.1990, n. 86) per punire le condotte dei pubblici agenti (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) che pur sollecitando il privato ad una dazione illecita ai fini dell’ottenimento di un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, non rientravano nell’area operativa della concussione poiché carenti dei requisiti della costrizione e dell’induzione richiesti dall’art. 317 c.p.

La norma in esame richiede che l’intraneus solleciti al privato una promessa o una dazione di denaro od altra utilità al fine di ottenere un atto in linea o meno coi doveri del suo ufficio. Con la conseguenza che, come per la figura criminosa descritta dai commi I e II, è richiesta la sussistenza del dolo specifico in capo al soggetto agente.

La dottrina prevalente qualifica il verbo “sollecitare” come sinonimo di “richiedere con insistenza”. Del resto, se si dovesse richiedere l’induzione si finirebbe di fatto per disapplicare la norma ed applicare il tentativo di concussione ex artt. 56, 317 c.p. Il confine fra l’istigazione alla corruzione e il tentativo di concussione è infatti piuttosto incerto se si considera che sollecitazione e induzione sono termini semanticamente analoghi, mentre il trattamento sanzionatorio risulta ben diverso, essendo il tentativo di concussione punito più gravemente.

L’istigazione alla corruzione attiva si consuma nel tempo e nel luogo in cui il soggetto pubblico sollecita il privato alla dazione illecita e, come per l’istigazione ad opera del privato di cui ai precedenti commi, anche per questa figura criminosa la giurisprudenza finisce per negare l’ammissibilità della forma tentata.

 

2. Tentativo di corruzione e principali questioni interpretative

La possibilità di configurare il tentativo nel delitto di corruzione appare strettamente legata alla natura giuridica assegnata al reato. Secondo un primo orientamento minoritario, le condotte del funzionario e del privato delineate dagli artt. 318, 319 c.p. darebbero luogo a distinte ed autonome fattispecie di reato stante la loro intrinseca diversità, poiché il pubblico agente riceve il denaro o l’utilità o ne accetta la promessa; viceversa il privato, il denaro o l’utilità dà o promette. Invero, cio’ non appare del tutto condivisibile se si considera che ognuno dei due soggetti sarebbe chiamato a rispondere di due reati: sia di quello di cui egli è autore tipico, sia di concorso nel delitto commesso dall’altro soggetto. A tale ricostruzione è stato infatti giustamente obiettato che la doppia imputazione viene ad essere superata attraverso l’applicazione dei principi sul concorso apparente di norme. Inoltre, se così fosse, non si spiegherebbe l’art. 322 c.p. che considera a sè stanti ed autonome le condotte dei due soggetti, privato e pubblico, quando non si siano unite a quelle della controparte.

Contrariamente a cio’, dottrina e giurisprudenza dominanti ritengono la corruzione un reato a concorso necessario affermando la necessità, ai fini della sua piena integrazione, che le condotte del privato e dei pubblici agenti convergano nel patto scellerato avente ad oggetto i doveri di questi ultimi soggetti. Cio’ troverebbe conferma sia nella previsione dell’art. 321 c.p., che richiamando per il corruttore le pene previste per il pubblico funzionario dagli artt. 318, 319, 319-bis e 320 c.p. escluderebbe per questi, l’attribuzione del fatto in via autonoma; sia nell’art. 322 c.p. laddove vengono punite a titolo di istigazione alla corruzione le condotte del privato e del pubblico agente  che non si saldino con quelle della controparte.

L’adesione a tale impostazione porta a ritenere che, essendo la corruzione un reato a concorso necessario, il tentativo può essere caratterizzato soltanto da una violazione incompleta degli obblighi di legge da parte di entrambi i concorrenti necessari, esulando in tali ipotesi l’integrazione delle fattispecie criminose delineate dall’art. 322 c.p. ove è richiesto invece, il contegno positivo di una sola delle parti.

Il tema del tentativo di corruzione assumeva particolare rilievo in passato laddove il previgente testo dell’art. 322 c.p. non contemplava le forme di istigazione alla corruzione attiva di cui agli attuali commi tre e quatto. In tali ipotesi infatti, si discuteva se la disciplina generale del tentativo di delitto di cui all’art. 56 c.p. potesse trovare applicazione anche con riferimento ai casi in cui il pubblico funzionario avesse invano sollecitato il privato a dare o promettere denaro o altra utilità per il compimento di un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio. Oggi, a seguito della novella intervenuta nel 1990 con la legge n. 86 la questione ha perduto rilievo essendo ormai opinione consolidata che qualora il funzionario assuma l’iniziativa sollecitando inutilmente il privato a dare o promettere denaro o altra utilità, la disciplina dell’art. 56 c.p. rimane esclusa poiché trova applicazione l’art. 322 c.p. Tuttavia, la questione della rilevanza dell’istituto del tentativo rispetto alle fattispecie corruttive riveste ancor oggi carattere di attualità sotto due diversi profili.

Innanzitutto è sorto il dubbio interpretativo circa la possibilità di configurare il tentativo di corruzione ai sensi dell’art. 56 c.p. per le forme di corruzione propria susseguente, sia attiva che passiva. La questione in esame nasce dal fatto che l’art. 322 c.p. pare richiamare le sole forme di corruzione a carattere antecedente laddove nel comma I, rinvia al solo comma I dell’art. 318 c.p., ovvero laddove nel comma II prevede le formule “per indurlo a compiere un atto…ovvero…per omettere o ritardare…”. Alla luce di cio’, ci si è chiesti se oltre all’art. 322 c.p. siano ammissibili ulteriori forme di tentativo di corruzione per i casi in cui il privato offra o prometta senza successo al pubblico agente denaro o altra utilità, per un atto contrario all’ufficio già compiuto (posto che nella corruzione impropria susseguente il privato non è invece punibile ex art. 318/2 c.p.); così come nelle ipotesi in cui, parimenti senza esito, sia il pubblico agente a sollecitare il privato alla promessa o alla dazione illecita.

La dottrina maggioritaria esclude che l’offerta o promessa di denaro od altra utilità rivolta dal privato al pubblico ufficiale e da questi non accolta, per un atto già compiuto, contrario ai doveri d’ufficio, possa realmente costituire una tentata corruzione attiva susseguente punibile in base all’art. 56 c.p. Secondo tali Autori, per quanto discutibile dal punto di vista politico-criminale, l’art. 322 c.p. esaurisce le ipotesi di tentata corruzione poiché non avrebbe avuto senso affidare ad essa le sole tentate corruzioni antecedenti per poi riservare le corruzioni susseguenti alle regole generali sul tentativo di cui all’art. 56 c.p. Inoltre, per le ipotesi delineate dai commi III e IV dell’art. 322 c.p., l’applicazione dei principi ordinari dell’art. 56 c.p. per le corruzioni passive susseguenti del soggetto pubblico non potrebbe avvenire senza incontrare difficoltà. Infatti, un conto è la sollecitazione indicata come condotta dalla norma apposita, altro sono, da parte del pubblico ufficiale, atti idonei e diretti in modo non equivoco a ricevere il denaro o l’utilità o ad accettarne la promessa. Affermano infatti tali Autori che laddove non venissero accertati i requisiti strutturali richiesti dall’art. 56 c.p. nella condotta del soggetto attivo, s’incorrerebbe nel rischio di lasciare impuniti detti comportamenti alla stregua dell’art. 115 c.p.

Un’ulteriore questione interpretativa sul tema riguarda l’ammissibilità del tentativo bilaterale di corruzione. Secondo una prima ricostruzione ermeneutica, a seguito dell’introduzione dei commi III e IV dell’art. 322 c.p. ad opera della l. 86/90, esso sarebbe da escludere in tutti quei casi di trattativa fallita in cui, prima della novella del ’90, l’iniziativa “infruttuosa” del pubblico agente, veniva ragionevolmente sanzionata ai sensi dell’art. 56 c.p. Secondo questa tesi, l’art. 322 c.p. sarebbe ormai sufficiente ai fini repressivi. La norma postulerebbe solo che il denaro o l’utilità siano stati respinti, non che lo siano stati “senza esitazioni”, così che, essa varrebbe anche nell’ipotesi in cui lo siano stati a seguito d’una trattativa. Inoltre, la pena del tentativo bilaterale di corruzione risulterebbe inopportunamente inferiore a quella delle attuali istigazioni, visto che la presenza d’una trattativa, seppur fallita, appare idonea ad attribuire al fatto un maggiore allarme sociale. Tuttavia appare maggiormente condivisibile l’orientamento seguito da quella parte della dottrina che non ritiene tali argomentazioni del tutto convincenti per negare il tentativo bilaterale di corruzione. Infatti, seppur di difficile individuazione, esso presenta un evidente disvalore che l’interprete senza un’espressa esclusione non è legittimato a ritenere privo di ogni rilievo penale.

 

3. Profili differenziali.

Nell’individuare l’ambito di operatività dell’istituto del tentativo con riferimento ai delitti di corruzione, dottrina e giurisprudenza hanno definito i caratteri che le condotte del privato o del pubblico funzionario debbono assumere per non rientrare nell’alveo dell’art. 322 c.p. Posto che entrambe le norme consentono un’anticipazione della tutela penale apprestata all’interesse protetto dalla fattispecie corruttive, la giurisprudenza ha più volte affermato come ai fini della realizzazione del tentativo di corruzione, stante la natura bilaterale del reato, sia necessaria la verificazione, seppur incompleta, del comportamento tipico dei due soggetti. Cio’ si verifica ad esempio, nei casi in cui tra le parti intervengano trattative poi non concluse con un accordo o con una dazione. A tal proposito in una pronuncia del 1984 la Corte di Cassazione ha stabilito che “…il reato di corruzione è sussistente, seppur allo stadio del tentativo, laddove tra il privato ed il pubblico agente si siano aperte trattative poi non sfociate in un successivo accordo…”. Secondo l’impostazione privilegiata in dottrina e giurisprudenza, nei casi di trattativa fallita, quando cioè fra i due protagonisti vi sia stata un’offerta e una controfferta ovvero una pluralità di esse, risulterebbero punibili ex art. 56 c.p. entrambi i soggetti, avendo essi stessi compiuto atti idonei e diretti in maniera non equivoca a raggiungere un accordo corruttivo, poi non concluso. In presenza d’una trattativa fra i due soggetti si versa infatti al di fuori dell’art. 322 c.p., che si riferisce all’iniziativa ed all’azione di uno solo di essi, esauritasi in sé stessa per la mancata adesione dell’altro. Nella trattativa invece, entrambi svolgono un ruolo attivo ed è importante a tal fine vagliare le modalità con cui la promessa o l’offerta del privato, o la sollecitazione del pubblico agente, non sia stata in definitiva accettata. Le condotte di istigazione alla corruzione invece, in quanto tipizzate dal legislatore, secondo alcuni debbono essere considerate adeguate ex se e, nei loro confronti, l’accertamento di idoneità e di univocità deve quindi ritenersi superfluo. Tuttavia, dall’analisi della giurisprudenza di legittimità emerge come questa in realtà affianchi la valutazione dell’idoneità della condotta alla promessa e all’offerta come requisiti di fattispecie.

L’avvio di trattative dopo l’iniziativa di una delle parti è indubbiamente qualcosa di diverso sia dall’accettazione che dal mancato accoglimento della proposta. Essa s’inquadra nell’esecuzione parziale del reato a concorso necessario. Sarebbe pertanto del tutto irragionevole dal punto di vista della politica criminale che dopo il susseguirsi di proposte e controproposte, la definitiva non accettazione determini solo la punizione di colui che ha preso l’iniziativa e non anche del partner che ha intavolato la trattativa con lui, salvo poi non portarla a termine. Inoltre, l’inconveniente cui può dar luogo l’applicazione dell’art. 56 c.p. a queste ipotesi, determinando un trattamento sanzionatorio meno severo ma comunque esteso a entrambi i partecipi della “trattativa criminosa”, è sicuramente meno grave di quello che scaturisce dall’applicazione dell’art. 322 c.p., laddove la pena, seppur più elevata, è ingiustamente limitata ad uno soltanto dei soggetti agenti.

 

 

 

           Dottrina:

(1)     AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 2006, pp. 150 ss.

(2)     BASILE-CAPALDO, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, Milano, 1996, pp. 115 ss.

(3)     BENUSSI, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Padova, 2001, pp. 528 ss.

(4)     BONDI, DI MARTINO, FORNASARI, Reati contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2004, pp. 219 ss.

(5)     FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Bologna, 2002, pp. 233 ss.

(6)     GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Milano, 2005, pp. 176 ss.

(7)     GROSSO, (voce) Corruzione, in Dig. Disc. Pen., III, 1989, pp. 153 ss.

(8)     LATTANZI LUPO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. III, Milano, 2005.

(9)     MARRA, Alchimie giuridiche dell’istigazione alla corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, pp. 274 ss.

(10) MARINUCCI-DOLCINI, Codice penale commentato, sub artt. 318, 319, 322, Milano, 2006.

(11) PADOVANI, Codice penale commentato (a cura di), sub artt. 318, 319, 322, Padova, 2007.

(12) PISA, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Padova, 2003, pp. 297 ss.

(13) ROMANO, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 2006.

(14) VINCIGUERRA, La corruzione nella giurisprudenza, Padova, 2004, pp. 131 ss.

Giurisprudenza:

(1)     C. Cass., 12.12.1979, Giovagnorio, in Giust. pen., 1981, II, 74.

(2)     C. Cass., 14.3.1996, Varvarito, in Riv. pen., 1996, 591.

(3)     C. Cass., 12.5.1992, Bigoni, in Cass. pen., 1993, 1993.

(4)     C. Cass., 5.7.2000, Evangelista, in Cass. pen., 2003, 525.

(5)     C. Cass., 30.11.1988, Bottero, in Riv. pen., 1989, 852.

(6)     C. Cass., 5.1.1998, Puppo, in Cass. pen., 2000, 891.

(7)     C. Cass., sez. VI, 19.11.1968.

(8)     C. Cass., sez. VI, 21.1.2003, n. 11382.

(9)     C. Cass., 25.2.1994, Fumarola, in Cass. pen., 1995, 2530.

(10) C. Cass., 27.4.1951, in Giust. pen., 1951, 1110.

(11) C. Cass., sez. VI, 19.1.1983, in Cass. pen., 1983, 714.

(12) C. Cass., 5.5.1988, Zufolo, in Cass. pen., 1989, 2184.

(13) C. Cass., 11.10.1974, in Cass. pen., 1975, 756.

(14) C. Cass., 10.2.1984, in Cass. pen., 1985, 1092.

(15) C. Cass., 24.9.1988, in Riv. pen., 1989, 618.

(16) C. Cass., 4.4.1984, Antonazzo, in Giust. pen., 1984, 706.

(17) C. Cass., 15.4.1985, in Giust. pen., 1986, 233.

(18) C. Cass., 11.11.1988, in Cass. pen., 1989, 1218.

(19) C. Cass., 30.11.1995, in Foro it., 1996, 418.  

 

 

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