L’OMESSO CONTRIBUTO ECONOMICO ALLA MOGLIE IN DIFFICOLTÀ È REATO?
Cassazione, sez. VI, 3 aprile 2012, n. 12516
Il primo comma dell’art. 570 c.p. riguarda solo le condotte che violano gli obblighi di ‘assistenza morale’, che si concretizzino nella violazione ingiustificata dell’obbligo di coabitazione ovvero in comportamenti (attivi od omissivi) comunque riconducibili ai non immutabili contenuti della nozione di ‘ordine e morale familiare’. Ora, se è vero che la fattispecie dell’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al coniuge non legalmente separato non richiede, per la ‘sua configurabilità, la previa esistenza di un provvedimento giudiziale (Sez. 6, sent. 35520/11 e 5447/1995), discendendo direttamente dalla norma incriminatrice penale, tuttavia proprio la struttura complessiva di tale norma incriminatrice non consente di giudicare penalmente rilevante una condotta di omessa ‘assistenza materiale’ che attenga ad una mancata contribuzione economica che tuttavia non si risolva nell’aver fatto venir meno i mezzi di sussistenza.
Cassazione, sez. VI, 3 aprile 2012, n. 12516
(Pres. Agrò – Rel. Citterio)
Ragioni della decisione
1. P.C.B. è imputato di violazione del primo comma dell’art. 570 c.p., per essersi disinteressato completamente delle condizioni di salute della moglie, abbandonando senza giustificazione il domicilio domestico ed omettendo di provvedere alle esigenze economiche della donna, impossibilitata a lavorare per ragioni di salute, così sottraendosi agli obblighi di assistenza inerenti la qualità di coniuge, dal settembre 2005 al 12 agosto 2006.
Il Tribunale di Torino con sentenza del 5.5.2008 lo ha condannato alla pena di giustizia oltre che al risarcimento dei danni in favore della moglie costituita parte civile, assegnando una provvisionale di 5000 euro e subordinando i benefici di legge “al versamento della provvisionale immediatamente esecutiva assegnata alla parte civile”.
Con sentenza del 24-27.11.2009 la Corte d’appello piemontese ha assolto l’imputato relativamente al periodo fino a dicembre 2005, perché il fatto non sussiste, confermando l’affermazione di responsabilità per il residuo periodo, rideterminando la pena in diminuzione e riducendo la provvisionale alla somma di 4000 euro, fermo il resto.
1.1 La Corte distrettuale ha ‘corretto’ la motivazione del Tribunale, osservando che non si procedeva per l’ipotesi di cui al capoverso ma per quella prevista dal primo comma dell’art. 570 c.p., sicché andava accertato se vi fosse o meno stato un disinteresse del B. nei confronti della moglie. Ha giudicato situazione pacificamente acquisita al processo l’esser venuto meno da tempo e reciprocamente l’‘affectio coniugalis’, per plurime concorrenti ragioni attribuibili ad entrambi i coniugi, e argomentato che pur in tale comune contesto permaneva l’obbligo di assistenza che avrebbe imposto all’uomo anche solo un intervento economico, dal contenuto più vario, non potendo egli ignorare le condizioni di salute della donna, che le impedivano di proseguire a svolgere la sua attività lavorativa di assistenza con uso efficace delle mani. Ciò era in effetti avvenuto per i mesi fino al dicembre del 2005 (da qui la parziale assoluzione in appello), non invece per i mesi successivi, quando il B. si era in definitiva posto in attesa dei provvedimenti del giudice civile, adito dal ricorso per separazione promosso dalla donna (il 14.4.2006, quattro giorni prima della querela che aveva dato origine a questo procedimento) dopo che l’imputato tramite un proprio legale aveva egli per primo prospettato una tale prospettiva. Secondo la Corte, la totale assenza di rapporti del B. con la moglie in tale periodo – quando invece la donna si era trovata in effettiva difficoltà perché ancora la pensione di invalidità non le era stata riconosciuta mentre nulla aveva apportato un’assicurazione infortuni – aveva condotto ad una colpevole omissione, a prescindere dall’esito e dai contenuti della aperta vertenza per la separazione. In particolare, nulla poteva rilevare che il Tribunale avesse poi respinto la richiesta della donna di una somma in proprio favore (con l’argomentazione della mancanza di prova della sua condizione di salute ostativa al lavoro e della capacità lavorativa del figlio maggiorenne, avuto da precedente rapporto, con lei convivente e disoccupato), traendo l’obbligo ex art. 570 c.p. fonte autonoma dalla stessa norma incriminatrice. La Corte di Torino esaminava anche aspetti della vicenda relativi in particolare ad un prestito di 3500 euro fatto da tale C. alla donna (e forse al suo convivente, già amico anche dei B.) e spiegava perché la dazione di tale somma (relativa ad una possibile iniziativa imprenditoriale che avrebbe coinvolto arche lo stesso imputato) non aveva rilevanza sotto il profilo dell’adempimento dell’obbligo di assistenza diretta
2. Il ricorso pone quattro motivi:
– 1. violazione dell’art. 570 perché la ripetuta reiezione della domanda di contributi economici da parte dei competenti giudici civili, pur successiva al periodo in contestazione, avrebbe attestato l’insussistenza di una condizione di fatto che imponesse effettivamente un contributo del B., l’autonomia degli aspetti penali e civili essendo stata insegnata dalla giurisprudenza di legittimità sempre e solo in presenza di un provvedimento civile che imponesse obblighi di corresponsione;
– 2. contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, perché la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente considerato che: comunque la donna aveva avuto la disponibilità anche della somma di 3500 euro, non restituita, quale che ne fosse l’originaria destinazione, e viveva con altra persona; la capacità lavorativa del figlio rendeva non rilevante la sua disoccupazione in atto; la donna in data 11.1.2006 aveva scritto al marito “oggi tutto bene” in un contesto dove B. sapeva del suo diritto alla pensione di invalidità e dell’esistenza di un’assicurazione infortuni, sicché contraddittoriamente la Corte avrebbe osservato che l’imputato con una mera telefonata avrebbe saputo della diversa realtà, dopo aver spiegato che i rapporti personali tra i due erano scemati;
– 3. violazione dell’art. 165 c.p., perché la subordinazione del beneficio alla corresponsione della provvisionale non aveva indicato alcun termine specifico;
– 4. mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto dell’entità della somma determinata come provvisionale, perché la riduzione da 5.000 a 4.000 euro era conseguita alla parziale assoluzione ma non era stata accompagnata da alcuna risposta sul punto cella congruità nel peculiare caso di specie, di assenza di obblighi giudiziali.
2.1 È stata depositata memoria della difesa a sostegno delle ragioni del ricorso.
3. Il ricorso è fondato, nei termini che seguono.
La Corte distrettuale ha chiarito, con efficace coerenza all’effettiva imputazione (che attiene solo alla violazione del primo comma dell’art. 570 c.p.), come oggetto del processo sia il quesito se l’Imputato si sia o meno (e dolosamente) disinteressato della moglie, in un periodo temporale nel quale ancora non era intervenuto alcun provvedimento che legittimasse la cessazione della comunione coniugale (in essere nell’autunno 2006), cessazione tuttavia già in atto per una situazione ‘di stanchezza’ comune ai due, anche a seguito della lontananza del B. per le esigenze del proprio lavoro, che si era manifestata pure nel reciproco sostanziale scarso interesse in occasione di alternativi ricoveri di entrambi per problemi anche consistenti di salute.
Il Giudice d’appello ha ritenuto in concreto sussistente la violazione dell’obbligo di assistenza familiare perché, pur in assenza di un obbligo autonomo imposto dall’autorità giudiziaria nel contesto della procedura per la separazione la permanenza degli obblighi di assistenza di cui al primo comma dell’art. 570 c.p. avrebbe imposto al B. una qualche forma di contributo economico, in ragione della peculiare situazione in cui la B. si era trovata, per la sopravvenuta impossibilità fisica di proseguire la propria attività di assistenza e il contestuale ritardo dell’operare della pensione di invalidità e di un’assicurazione personale, vivendo oltretutto la donna con un figlio maggiorenne disoccupato pur se abile al lavoro. E ciò l’imputato aveva in effetti fatto solo fino al dicembre 2005, non dopo e fino al provvedimento giudiziale che aveva poi tuttavia respinto la richiesta della donna (sia pure per ragioni probatorie afferenti la dedotta invalidità sopravvenuta).
Il Giudice d’appello dava altresì atto che vi era stato un rapporto – dai termini esatti non chiariti – in esito al quale la somma di 3500 euro sarebbe pervenuta nella disponibilità della donna e del suo convivente al momento (tra l’altro indicato come già amico del B.) e che tale somma non era stata restituita, ma giudicava irrilevante la dazione in quanto essa avrebbe avuto riguardo ad un’iniziativa economica che avrebbe dovuto interessare oltre che il convivente della donna anche lo stesso B., dovendosi perciò escludere la destinazione della somma alle esigenze della donna. Dava pure atto che la donna aveva scritto nel periodo in esame al marito che tutto andava bene, ma addebitava all’uomo che proprio la sostanziale interruzione dei rapporti gli aveva impedito di comprendere che quell’affermazione non corrispondeva al vero, in ragione dei problemi con la pensione e l’assicurazione. Nulla argomentava poi la Corte piemontese sulla convivenza all’epoca in atto della B. con altro uomo, in definitiva concludendo che il reato risultava integrato dal non essersi l’uomo sforzato di garantire l’invio alla donna “anche di una minima somma, a dimostrazione di un interesse puramente umano”.
3.1 A giudizio di questa Corte suprema, proprio le argomentazioni della Corte torinese, ed in particolare la sintesi appena riferita, che nell’economia della motivazione costituisce l’effettiva ragione della condanna (pag. 5 primo paragrafo), attestano l’insussistenza del fatto come contestato (che, come la stessa Corte distrettuale ha precisato, riguarda il primo e non il secondo comma dell’art. 570 c.p.).
Invero, in definitiva la Corte d’appello, come appena ricordato, individua la condotta penalmente integrante l’omessa assistenza nel non aver inviato “anche una minima somma” (che non viene in alcun modo quantificata o precisata nei suoi eventuali parametri) “a dimostrazione di un interesse puramente umano”, rispetto ad una situazione di bisogno apparentemente negata dall’interessata e oltretutto in un complessivo contesto quantomeno incerto (come è quello dell’apparente convivenza in atto con altra persona e della percezione di somma consistente che viene riferita come non restituita sia pure per finalità distinte da quelle del bisogno individuale). Proprio l’indeterminatezza assoluta del contenuto dell’obbligo che si afferma avrebbe dovuto essere adempiuto (“anche una minima somma”) e la finalità attribuita a tale adempimento (“dimostrazione di un interesse puramente umano”), insieme con l’individuazione (quale presupposto necessario di un tal obbligo) di una sorta di mancata peculiare attivazione (“con una telefonata avrebbe appreso… che la lettera non rispondeva al vero”), che viene affermato doverosa in termini del tutto apodittici (perché collocato nel contestualmente riferito ambito di comune mancanza di “affectio coniugalis” e di nuova convivenza in atto), danno invece conto della non riconducibilità della condotta, come ricostruita in fatto, alla fattispecie incriminata dal primo comma dell’art. 570 c.p. (il che è assorbente rispetto alla pur concorrente, e per sé pur autonomamente determinante, questione dell’assenza dell’elemento psicologico del reato come ritenuto).
Ed invero, in definitiva la Corte distrettuale pare avere ricondotto alla fattispecie incriminatrice del primo comma dell’art. 570 c.p. (che, giova ricordarlo, incrimina il comportamento di chi si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti, nella specie, alla qualità di coniuge attraverso le condotte dell’abbandono ingiustificata del domicilio domestico e della condotta contraria all’ordine ed alla morale delle famiglie) il non avere contribuito economicamente alla vita ordinaria del coniuge ancora non separato pur, deve intendersi, senza che si sia determinato il venir meno dei mezzi di sussistenza (ipotesi autonoma e specifica considerata dal secondo comma dell’art. 1570 c.p., e non contestata nella fattispecie, neppure in fatto, posto che il capo di imputazione parla genericamente di “esigenze economiche” della donna).
Ma una tale interpretazione si pone innanzitutto in contrasto con risalente insegnamento di questa Corta suprema (Sez. 6, sent. 939 del 1970) e di autorevole dottrina, secondo cui il primo comma dell’art. 570 c.p. riguarda solo le condotte che violano gli obblighi di ‘assistenza morale’, che si concretizzino nella violazione ingiustificata dell’obbligo di coabitazione ovvero in comportamenti (attivi od omissivi) comunque riconducibili ai non immutabili contenuti della nozione di ‘ordine e morale familiare’. Ora, se è vero che la fattispecie dell’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza al coniuge non legalmente separato non richiede, per la ‘sua configurabilità, la previa esistenza di un provvedimento giudiziale (Sez. 6, sent. 35520/11 e 5447/1995), discendendo direttamente dalla norma incriminatrice penale, tuttavia proprio la struttura complessiva di tale norma incriminatrice non consente di giudicare penalmente rilevante una condotta di omessa ‘assistenza materiale’ che attenga ad una mancata contribuzione economica che tuttavia non si risolva nell’aver fatto venir meno i mezzi di sussistenza.
Non sorprende pertanto la genericità del passaggio argomentativo essenziale che ha condotto il Giudice d’appello alla conferma della condanna, laddove proprio l’impossibilità di indicare i parametri di una possibile quantificazione e la necessità di indicare quale finalità del contributo una ragione (l’“interesse puramente umano”) non immediatamente riconducibile alla peculiarità del rapporto di coniugio concorrono a spiegare perché il mancato contributo economico che non determini uno stato di bisogno non può essere ricondotto alla nozione penale di violazione di obbligo di assistenza.
L’annullamento deve essere senza rinvio, posto che dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che tutti gli elementi probatori utili alla ricostruzione del fatto sono stati acquisiti, sicché quello della Corte torinese si presenta come apprezzamento definitivo sulla vicenda.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.