REVOCA DELL’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA: RISARCIMENTO DEL DANNO E INDENNIZZO EX ART. 21 QUINQUIES DELLA L. 241/90.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. 195/2012
di Elena Napolitano
(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 3/2012)
QUESTIO IURIS
La Pubblica Amministrazione ha come scopo il perseguimento dell’interesse pubblico; per fare ciò essa può agire sia mediante strumenti giuridici disciplinati dal diritto amministrativo, sia mediante strumenti giuridici disciplinati dal diritto civile, in virtù della capacità giuridica di carattere generale, tanto di diritto pubblico che di diritto privato, di cui è dotata.
Anche quando essa pone in essere attività di tipo privatistico, i fini della sua azione sono comunque predeterminati e vincolati dall’ordinamento secondo quanto previsto dalla Costituzione, la quale stabilisce che la pubblica amministrazione deve sottostare ai principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione.
Il principio di legalità si distingue in sostanziale e formale. In applicazione del principio di legalità sostanziale la pubblica amministrazione agisce sulla base di specifiche previsioni di legge mediante provvedimenti autoritativi, e da ciò deriva il principio di nominatività degli stessi, secondo il quale questi sono ammissibili solamente laddove previsti dalla legge e producono esclusivamente gli effetti da questa disciplinati. In applicazione del principio di legalità formale la pubblica amministrazione agisce nei limiti della legge, o anche sulla base di semplici autorizzazioni legislative, quindi al di fuori delle attività autoritative e senza potere adottare provvedimenti amministrativi.
Il principio di imparzialità si traduce nell’esigenza di considerare e contemperare tutti gli interessi in questione al fine di armonizzare l’interesse pubblico con le altre posizioni soggettive tutelate dall’ordinamento giuridico. Il principio di buona amministrazione, o buon andamento, consiste nell’obbligo di porre in essere azioni efficaci, in grado cioè di raggiungere i fini stabiliti, ed efficienti, cioè che utilizzano in modo ottimale ed imparziale le risorse a disposizione, risorse limitate che derivano dalla collettività e che sono vincolate alla cura dell’interesse pubblico.
L’attività di diritto privato della pubblica amministrazione è perciò ammissibile nei soli casi previsti dalla legge, quindi in situazioni di carattere eccezionale in quanto derogatorie alla normale disciplina pubblica. Tale attività è comunque vincolata alla necessità di perseguire gli interessi pubblici definiti dalla legge ove le amministrazioni, nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, devono scegliere tra diversi comportamenti leciti il più adatto al soddisfacimento di tali interessi. Tale impostazione ha origini antiche, risalenti alla l. 25 marzo 1865 n. 2248, il cui allegato E, Legge sul contenzioso amministrativo, in tema di competenza degli organi giurisdizionali ha attribuito tutta la materia negoziale, indipendentemente dal coinvolgimento o meno di una amministrazione pubblica, al giudice ordinario.
A seguito di tale scelta il negozio è stato attratto nell’ambito della giurisdizione ordinaria, quindi nell’area del diritto comune, impedendo di fatto che il medesimo potesse essere inteso ed utilizzato come strumento di amministrazione al pari del provvedimento amministrativo, estendendosi conseguentemente l’area di utilizzo di quest’ultimo a settori d’azione tipicamente contrattuali.
Il diffondersi negli anni cinquanta dello scorso secolo della gestione di attività economiche da parte di soggetti pubblici ha modificato il quadro, rendendo normale in questi casi il ricorso ai medesimi strumenti giuridici utilizzati dai soggetti privati e disciplinati dal diritto civile. In conseguenza di ciò, accanto ad amministrazioni che operano sia con atti amministrativi che con atti di diritto privato, ne sono sorte altre, gli enti pubblici economici, che utilizzano prevalentemente questi ultimi.
Questo fatto ha portato ad un graduale allontanamento dall’impostazione tradizionale, rendendo nel tempo sempre meno eccezionale l’utilizzo da parte di soggetti pubblici degli strumenti previsti dal codice civile per il perseguimento di interessi a carattere generale,ponendo tali strumenti in relazione di alternatività agli atti amministrativi laddove permettano un’azione amministrativa più efficace ed efficiente rispetto a questi ultimi, anche mediante il consenso e l’accordo con le parti interessate.
Oggi è estremamente vasto l’ambito di diritto privato che le amministrazioni pubbliche concretamente utilizzano, a tal punto da potersi affermare che l’agire pubblico odierno si caratterizza proprio per la dimensione che ha assunto tale fenomeno. Gli attuali comportamenti pubblici mostrano come il pubblico si sia talmente mescolato al privato da rendere spesso indistinguibili e commisti i due aspetti, essendovi sempre più rapporti regolati sia da norme di diritto privato che da norme di diritto amministrativo.
Si è rilevato che la crescita del fenomeno è avvenuta in modo differenziato, in quanto alla atipicità organizzativa degli enti pubblici corrisponde una atipicità della distribuzione tra le varie amministrazioni delle attività di diritto privato e delle attività di diritto amministrativo.
Questione diversa dall’utilizzo alternativo del negozio è quella dell’utilizzo di modelli consensuali nell’ambito del procedimento amministrativo, secondo lo schema del cosiddetto contratto di diritto pubblico già teorizzato a fine ottocento ed introdotto nell’ordinamento italiano dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990. In questi casi il modello pattizio di convenzione pubblicistica, pur scrivibile all’area contrattuale e soggetto ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, non è che una delle modalità che l’ordinamento prevede, in via generale, per la conclusione del procedimento o per la definizione di alcuni suoi elementi.
Tale attività, definibile come provvedimentale concertata, è da collegarsi ad una prospettiva sociologica di accettazione degli atti da parte dei soggetti amministrati attraverso il loro coinvolgimento nella fase antecedente all’emanazione degli stessi, nonché ad una prospettiva di composizione di interessi che trova sede nel procedimento amministrativo, considerata anche la crescente frammentazione dell’interesse pubblico.
Non per tutti gli interessi pubblici gli strumenti negoziali sono in grado di raggiungere il risultato pratico voluto, in particolare laddove occorra produrre un effetto giuridico in assenza del consenso del destinatario dell’atto, nonché nei casi in cui tali effetti siano sconosciuti al diritto privato. L’utilizzo del modello negoziale privato sia nella veste del contratto che in quella dell’atto unilaterale, è ammissibile nei casi in cui la pubblica amministrazione trasferisca a terzi beni o utilità di sua pertinenza, quindi nelle concessioni di beni o servizi pubblici, nelle ablazioni reali nonché soprattutto nei rapporti nei quali il terzo è chiamato a fornire una prestazione, sia essa di carattere lavorativo o imprenditoriale, a favore dell’amministrazione stessa.
L’ammissibilità giuridica di tale situazione deve tuttavia confrontarsi e conciliarsi non solo con i richiamati principi costituzionali che guidano l’azione amministrativa, ma anche con i principi di autonomia negoziale e di parità di trattamento giuridico di tutti i soggetti dell’ordinamento, a loro volta rafforzati dall’ordinamento comunitario che persegue la massima realizzazione di un’economia di mercato in libera concorrenza e la sua tutela.
Ne può scaturire un principio generale di derivazione comunitaria detto di proporzionalità, secondo il quale l’ambito di utilizzo dei poteri amministrativi, in quanto derogatori alla disciplina di diritto comune, deve essere contenuta nei limiti dello stretto indispensabile.
L’utilizzo di strumenti privatistici da parte di soggetti pubblici non esclude che la loro azione sia vincolata al fine del perseguimento dell’interesse pubblico in applicazione dei canoni fondamentali di efficacia ed efficienza. Laddove così non avvenisse, l’atto amministrativo sarebbe invalido, mentre il contratto sarebbe valido purché abbia una causa lecita ed i motivi che l’hanno determinato siano anch’essi leciti, indipendentemente dalla sua idoneità o meno al perseguimento del pubblico interesse.
In mancanza di tale idoneità sussiste quale parziale rimedio l’attivazione di un giudizio di responsabilità da parte della Corte dei conti.
La compresenza di situazioni giuridiche differenziate rappresenta un elemento di notevole diversità rispetto al tipico regime privatistico dei contratti. Ciò ha portato una parte della dottrina a rifiutare il concetto di capacità giuridica generale di diritto privato della pubblica amministrazione, affermando l’esistenza di un principio di specialità o funzionalità in considerazione del fatto che essa giunge alla definizione di un rapporto contrattuale con i privati mediante decisioni assunte con procedimenti pubblicistici e sottoposte alla disciplina degli atti amministrativi.
Non mancano altri rilievi critici a tale impostazione, in considerazione della sussistenza di rischi elusivi dei controlli sulla rispondenza dell’agire della pubblica amministrazione ai suoi fini istituzionali, nonché sul rispetto del principio di legalità e sui rischi di compromissione della correttezza dell’operare della pubblica amministrazione, con conseguente possibilità di lesione di valori costituzionalmente garantiti come il principio di uguaglianza.
Infatti l’atto di diritto privato non può essere condizionato nella sua validità alla rispondenza ai pubblici interessi né questa validità può collegarsi al procedimento amministrativo, se non con riferimento alla disciplina dei vizi della volontà, la cui sussistenza rende il contratto annullabile.
Da questo punto di vista è stata prospettata la possibilità di fondare sull’art. 1418 del c.c. il principio di invalidità del contratto concluso da un ente pubblico in violazione dei fini ad esso imposti dalla legge, in quanto questa norma permetterebbe di attribuire rilevanza, anche in campo privatistico, al carattere di funzione dell’attività amministrativa, dal momento che stabilisce la nullità per contrarietà a norme imperative.
E’ altresì stata sostenuta la possibilità di verificare la rispondenza dell’atto allo scopo, che prescinde dai singoli motivi.
Di notevole interesse è la disamina concernente le diverse tipologie di aggiudicazione nonché la tutela esperibile dal privato che si ritiene leso da un atto dell’amministrazione.
La distinzione è alquanto netta: mentre con l’aggiudicazione provvisoria la commissione di gara – al termine di una procedura di selezione – individua il miglior contraente, l’aggiudicazione definitiva, invece, si caratterizza per essere un provvedimento che, pur recependo l’esito dell’aggiudicazione precitata, presuppone una nuova ed autonoma valutazione rispetto alla stessa .
Ciò comporta che colui che si ritenga leso dal provvedimento finale , possa impugnare l’atto conclusivo del procedimento amministrativo anche senza aver preventivamente impugnato l’aggiudicazione provvisoria.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’aggiudicazione provvisoria abbia carattere endoprocedimentale dagli effetti meramente interinali.
Spesso accade che la P.A. si avvalga del potere di autotutela.
Tale istituto, nato agli inizi del XX secolo e dai confini alquanto incerti, è stato da sempre oggetto di studio da parte della dottrina.
Secondo autorevoli suoi esponenti, per autotutela deve intendersi sia l’attività di esecuzione coattiva diretta delle pretese dell’amministrazione, sia il riesame con esito demolitorio o conservativo dei provvedimenti adottati dall’amministrazione che quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa PA provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, nati con soggetti terzi in riferimento a suoi provvedimenti.
Solo successivamente si è ritenuto che con il termine autotutela si volesse indicare il potere di verifica della PA nel verificare la validità dei suoi provvedimenti o , qualora ritenuti invalidi oppure non più opportuni, di “ritiro”.
Si è soliti distinguere l’autotutela decisoria da quella esecutiva.
Mentre quest’ultima si identifica con l’attività dell’amministrazione diretta all’esecuzione coattiva degli atti provvedi mentali, l’autotutela decisoria si attuata attraverso l’emanazione di una decisione amministrativa con cui la P.A. può riesaminare, annullare e rettificare gli atti dalla stessa adottati.
Il legislatore del 2005 ha codificato all’art. 21 quinquies della l. 241/90 l’istituto della revoca grazie al quale si è chiarito che il riesame dell’opportunità del provvedimento amministrativo deve essere rapportato sia alle finalità di interesse pubblico , sia alle eventuali circostanze sopravvenute che si rivelerebbero idonee a rendere il provvedimento adottato non più opportuno dilatando in tal modo la preesistente nozione elaborata dall’insegnamento dottrinario e giurisprudenziale.
Bisogna, inoltre, sottolineare che l’art.21 quinquies limita il suo campo di applicazione ai soli provvedimenti “ad efficacia durevole” a quei provvedimenti, cioè, che producono i loro effetti anche quando la PA vuol verificarne la perdurante opportunità.
La conseguenza della revoca di tali atti è l’”inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti”.
La portata innovativa dell’articolo de quo è la previsione di un generale obbligo di indennizzo in favore dei soggetti che abbiano subito un pregiudizio da tale provvedimento di revoca.
Nella seconda parte dell’art.12 quinquies, infatti, viene sancito che “se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
Tale previsione si fonda sulla rilevanza accordata al principio dell’affidamento ossia alla situazione giuridica soggettiva qualificata che funge da polo d’attrazione del rinnovo di concessione alla disciplina positiva prevista per la revoca.
L’obbligo di indennizzo da parte della PA per l’atto di revoca non elimina la necessità che la stessa amministrazione debba operare secondo i canoni di correttezza e buona fede.
In tale ambito la causa efficiente della tutela della parte contraente non appare essere più tanto la situazione soggettiva rispetto alla quale può assumere rilievo il legittimo affidamento, quanto, piuttosto, la violazione della buona fede della PA.
Naturalmente, però , non è opportuno parlare di legittimo affidamento qualora il lasso di tempo intercorso tra il provvedimento favorevole alla parte e la revoca sia tanto breve da non aver potuto ingenerare nel potenziale contraente una ragionevole speranza di consolidamento di tale posizione.
La previsione dell’indennizzo introdotta dalla l.15/05, non avendo definito i criteri di quantificazione dell’indennizzo né se lo stesso dovesse avere contenuto monetario o meno, ha ingenerato non pochi problemi.
Parte della dottrina, infatti, ha per lungo tempo sostenuto che l’indennizzo che la PA avrebbe dovuto corrispondere a seguito di un atto di revoca , fosse la somma del danno emergente e del lucro cessante giacchè il legislatore non aveva accennato ad alcuna distinzione tra revoca legittima e revoca illegittima.
Altro indirizzo sia in dottrina che in giurisprudenza, invece, sosteneva che l’indennizzo dovesse essere rapportato esclusivamente al danno emergente fondando tale assunto sulla distinzione tra risarcimento ed indennizzo.
Le domande aventi ad oggetto l’indennizzo e il risarcimento del danno sono giuridicamente e logicamente incompatibili tra loro. Nel primo caso, infatti, si presuppone la legittimità della revoca e un’eventuale responsabilità della PA da atto lecito dannoso; nel secondo caso, invece, l’atto è illegittimo e produce un danno ristorabile ai sensi dell’art.1223 e dall’art.2056 c.c..
Con il c.d. d.l. Bersani bis si è finalmente giunti alla conclusione che l’intervenuta revoca di provvedimenti che incidono su rapporti negoziali , purchè naturalmente tale provvedimento sia adeguatamente motivato con il richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico alla revoca d’ufficio,è fonte di indennizzo rapportato al solo danno emergente.
Tale norma è stata salutata con favore dalla giurisprudenza che ha ribadito tale concetto in numerose occasioni non da ultimo il mese scorso allorquando ha riconosciuto il diritto al risarcimento per il solo danno emergente ad una società che si era vista revocare la procedura di aggiudicazione concernente una gara per la fornitura e posa in opera di arredi ed attrezzature multimediali.
La pronuncia del Consiglio di Stato in parola ha l’ulteriore merito di aver ribadito che in caso di revoca legittima di un’aggiudicazione provvisoria non si possa indennizzare alcunché giacchè trattasi, come accennato, di un atto endoprocedimentale inidoneo ad ingenerare un legittimo affidamento.
LA SOLUZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO N. 00195/2012
La Sezione osserva preliminarmente che:
A) la sentenza del TAR per il Molise n. 689/2004 riconosceva alla società appellata:
a) il danno emergente nel quale andavano computati le spese o costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla gara;
b) la perdita di chance per impossibilità di far valere, nelle future gare, il requisito legato alla fornitura di che trattasi, il cui ammontare veniva stabilito in via equitativa nella misura del 2% del prezzo qui offerto da Italcom;
c) il lucro cessante, integrato dall’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione, da calcolarsi tenendo conto dei costi del materiale oggetto della fornitura, secondo il prezzario vigente della Camera di Commercio di Campobasso, e di quelli di manodopera per l’installazione e l’allestimento dello stesso, nonché per l’assistenza tecnica, applicando le tariffe stabilite dai relativi contratti collettivi di lavoro;
B) la sentenza del TAR per il Molise n. 391/2006, appellata con il ricorso in trattazione, riconosceva alla società appellata un indennizzo così calcolato:
a) danno emergente: rimborso delle spese e/o costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla gara;
b) lucro cessante: in via equitativa 20% del lucro cessante come computato a titolo di risarcimento del danno in sentenza n. 689/2004 (sub b) (pag. 13).
Dall’esame sinottico delle due sentenze emerge che il giudice di primo grado ha riconosciuto in entrambe le sentenze il danno emergente; ha riconosciuto il risarcimento per perdita di chance nella sola sentenza di data anteriore; ha ridotto, nella sentenza posteriore, qui appellata, l’importo dovuto per lucro cessante al 20% della misura stabilita nella sentenza anteriore. La sentenza qui appellata ha dichiarato inammissibile il ricorso per l’ottemperanza alla sentenza anteriore.
La sentenza dell’anno 2006 è stata appellata dalla sola Università degli Studi del Molise, cosicché il giudice d’appello non può rilevare eventuali contrasti tra la
sentenza qui appellata e il giudicato formatosi sulla sentenza dell’anno 2004, anche in considerazione della circostanza che la sentenza successiva ha esplicitamente dichiarato inammissibile il giudizio per ottenere l’esecuzione della sentenza dell’anno 2004.
La sentenza impugnata ha riconosciuto all’appellata sia il danno emergente che il lucro cessante.
Sul riconoscimento del danno emergente non possono sussistere dubbi perché la società ha sostenuto le spese per la partecipazione alla gara prima che questa venisse revocata.
Ai fini della valutazione del riconoscimento del danno emergente deve evidenziarsi che la sentenza dell’anno 2004:
a) ordinava all’amministrazione di approvare definitivamente l’aggiudicazione provvisoriamente disposta in favore della Italcom S.r.l. e di stipulare con la stessa il relativo contratto d’appalto per la sua successiva e conseguente esecuzione;.
b) condannava l’Università degli Studi del Molise al risarcimento dei danni in favore dell’odienra appellata, solo qualora medio tempore fosse stato bandito, interamente espletato ed aggiudicato a diverso soggetto altra gara avente il medesimo oggetto.
Dopo la sentenza dell’anno 2004 l’unico atto efficace era un’aggiudicazione provvisoria, tant’è vero che il giudice di primo grado ordina all’Università degli Studi di provvedere all’aggiudicazione definitiva.
Con la sentenza dell’anno 2006, qui appellata, il giudice di primo grado riconosce la legittimità della revoca della procedura riducendo al 20% l’importo del risarcimento attribuito con la sentenza dell’anno 2004.
Dal punto di vista cronologico la decisione di un diverso utilizzo dello spazio inizialmente destinato alla sala convegni dell’ateneo era stata presa già con decreto
rettorale in data 13 ottobre 2003, al quale può riconoscersi la valenza sostanziale di revoca della procedura, formalmente adottata solo con decreto del 7 aprile 2005.
Questa sezione non può non evidenziare che la volontà di non procedere con il completamento della gara era stata manifestata il 13 ottobre 2003, ossia prima dell’adozione della sentenza del TAR Molise n. 689 del 18 novembre 2004, con la quale il giudice di primo grado si limitava ad ordinare all’amministrazione di assumere le determinazioni conseguenti all’annullamento degli atti impugnati.
Il problema giuridico da risolvere è se spetti una qualsiasi forma di risarcimento o di indennizzo per un’aggiudicazione provvisoria, successivamente annullata con provvedimento ritenuto legittimo.
Al quesito non può che darsi risposta negativa, alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., sez. VI, 27 luglio 2010, n. 4902; Cons. St., VI, 17 marzo 2010, n. 1554; Consiglio Stato, sez. V, 15 febbraio 2010, n. 808) secondo la quale in tema di contratti pubblici la possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d. lgs. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista, come nella specie, nessuna illegittimità nell’operato della p.a..
Non spetta nemmeno l’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies della legge n. 241/1990 poiché si è, nella specie, di fronte al mero ritiro di un’aggiudicazione provvisoria (atto avente per sua natura efficacia interinale e non idonea a creare affidamenti) e non ad una revoca di un atto amministrativo ad effetti durevoli come previsto dalla predetta norma per l’indennizzabilità della revoca.
L’appello va quindi parzialmente accolto nei sensi sopra indicati.