La costituzione di parte civile in sede penale estingue il processo civile. E l’assoluzione del denunciato esclude il risarcimento Cassazione, sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633

 

LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE IN SEDE PENALE ESTINGUE IL PROCESSO CIVILE. E L’ASSOLUZIONE DEL DENUNCIATO ESCLUDE IL RISARCIMENTO

Cassazione, sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633

 

Il trasferimento dell’azione civile nel processo penale produce di diritto (la norma dell’art. 75 cit. è nel senso che l’esercizio della facoltà “comporta rinuncia agli atti del giudizio”) la rinuncia dell’attore al giudizio civile, sicché il giudice civile deve anche d’ufficio dichiarare l’estinzione del processo, senza che sia necessaria l’accettazione della parte, alla sola condizione che dagli atti risulti l’avvenuto trasferimento dell’azione civile nel processo penale, sul fondamento, ben s’intende, dell’accertata identità (alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle azioni: personae, petitum, causa petendi) delle due azioni”

 

Cassazione, sez. III, 16 maggio 2012, n. 7633

(Pres. Trifone – Rel. Giacalone)

 

In fatto e in diritto

1. C..C. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Lecce, G..Q. , S..A. e la Camera di Commercio di Lecce, esponendo: che nel settembre 1999 egli e l’A. avevano concordato di acquistare insieme una partita di piastrelle dalla Ditta Centro Ceramiche del Q. e a tale scopo egli aveva emesso un assegno bancario di lite 3.300.000 in favore dell’A. , il quale lo aveva a sua volta girato al Q. a scopo di garanzia, onde bloccare la mercé ordinata; che nel febbraio 2000 egli aveva informato l’A. di aver chiuso il conto corrente e lo aveva invitato a chiedere al Q. la restituzione dell’assegno; che il Q. , violando gli accordi, lo aveva posto all’incasso e l’assegno era stato perciò protestato in data 31.3.2000; che il Q. aveva poi contraffatto l’assegno, apponendo sul titolo, successivamente al protesto, un’ulteriore firma illeggibile; che di tale ulteriore condotta illecita era stata informata la Procura della Repubblica; che in sede cautelare egli aveva ottenuto il 19.1.2001 un provvedimento del Tribunale di sospensione della pubblicazione del protesto; che aveva quindi interesse ad iniziare il giudizio di merito per sentir disporre la cancellazione del proprio nominativo dall’elenco dei protesti, accertare la responsabilità dei convenuti e condannare chi di dovere al risarcimento del danno, da liquidarsi in Euro 40.000,00 o nella diversa somma ritenuta di giustizia, con vittoria di spese. L’A. , costituitosi in giudizio, deduceva di non avere alcuna responsabilità, in quanto l’assegno era stato posto all’incasso dal Q. . Quest’ultimo, a sua volta, contrastava la domanda e la ricostruzione dei fatti fornita dall’attore. La Camera di Commercio rimaneva contumace. Dopo 1 interrogatorio formale delle parti, all’udienza del 10.1.2005 il Q. eccepiva che nelle more era stato iniziato nei suoi confronti procedimento penale ed il C. si era costituito parte civile, così rinunciando alla domanda attrice. A seguito di tale eccezione, il giudice istruttore invitava le parti a precisare le conclusioni e, all’esito, il Tribunale rigettava la domanda siccome improcedibile e condannava l’attore al rimborso delle spese processuali in favore dei convenuti costituiti, osservando che il C. si era costituito parte civile nel procedimento penale pendente nei confronti del Q. per i medesimi fatti oggetto di causa e che perciò l’azione civile era divenuta improcedibile ai sensi dell’art. 75 c.p.p..

2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata il 17 aprile 2010, la Corte di Appello di Lecce rigettava l’appello del C. , previa integrazione della motivazione della sentenza di primo grado. In particolare, osservava che il trasferimento dell’azione civile nel processo penale produce di diritto, a norma dell’art. 75, primo comma, c.p.p., la rinuncia dell’attore al giudizio civile, sicché il giudice civile deve anche d’ufficio dichiarare l’estinzione del processo (senza che sia necessaria l’accettazione delle altre parti), alla sola condizione che dagli atti risulti il trasferimento dell’azione civile nel processo penale, previo accertamento dell’identità delle due azioni (quella promossa in sede civile e quella esercitata nel processo penale), alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle stesse (Cass. 14/05/2003 n. 7396). Il C. , costituendosi parte civile nel processo penale pendente nei confronti del Q. , aveva certamente trasferito in sede penale l’azione risarcitoria che aveva esercitato contro il Q. nel presente giudizio: si legge nell’atto di costituzione di parte civile: “Il pregiudizio lamentato è costituito dalla condotta del Q. , il quale, violando i patti contrattuali di non mettere all’incasso l’assegno, dato in garanzia, ha negoziato il titolo in questione provocando, così, la levata del protesto in capo al C. , facendo credere di aver girato a terzi il titolo. Il danno patrimoniale lamentato è pari a Euro 2.000, 00, pari cioè alla somma portata dal titolo maggiorata delle spese di protesto, della penale del 10% e degli interessi legali del 2,5%. Il danno morale, invece, è dovuto all’ingiusto disagio d’animo che la parte lesa ha patito in conseguenza della illecita levata del protesto e della grave offesa perpetrata nei confronti della propria persona da parte dell’imputato a mezzo dell’alterazione del titolo in questione.

Tali danni si quantificano in Euro 3.000,00 o in quella somma maggiore o minore ritenuta equa…”. Come risulta evidente, sebbene oggetto del processo penale fosse soltanto il (preteso) reato di falso commesso dal Q. attraverso la contraffazione dell’assegno dopo il suo protesto, con la costituzione di parte civile il C. ha proposto un’azione risarcitoria che ha come fatto costitutivo un comportamento illecito più complesso (rispetto alla mera contraffazione dell’assegno), in quanto nella dichiarazione di costituzione di parte civile il C. ha addebitato al Q. di avere dapprima messo all’incasso l’assegno ricevuto in garanzia, così provocandone l’illegittimo protesto, e poi apposto sul titolo la falsa firma di girata, in modo da indurlo in errore, facendogli credere che altri aveva messo all’incasso l’assegno e che quindi egli non era responsabile dell’illegittima levata del protesto. Lo stesso complesso comportamento illecito il C. ha allegato come fatto costitutivo della pretesa risarcitoria esercitata in questo processo, risultando evidente dalla lettura dell’atto di citazione che l’attore non si è soltanto lamentato che il Q. avesse posto all’incasso l’assegno contro pacta, ma anche che Io avesse contraffatto dopo il protesto e del resto proprio quest’ultima circostanza ha indotto il Tribunale in sede di reclamo ad accordare ex art. 700 c.p.c. la sospensione della pubblicazione del protesto. Pertanto, correttamente il primo giudice ha dichiarato improseguibile l’azione civile proposta contro il Q. , a nulla rilevando che il procuratore di quest’ultimo non avesse sollevato l’eccezione di estinzione nella prima udienza successiva al fatto estintivo (rappresentato dalla costituzione di parte civile), in quanto il fatto impeditivo alla prosecuzione del processo rappresentato dal trasferimento in sede penale dell’azione civile è rilevabile anche d’ufficio, attinendo all’interesse all’ordinato esercizio della giurisdizione, che non è disponibile dalle parti (Cass. 28/08/2007, n. 18193). Viceversa, il Tribunale ha erroneamente dichiarato improseguibile pure l’azione proposta contro l’A. e la Camera di Commercio, del tutto estranei al processo penale. Tuttavia la statuizione di rigetto della domanda contenuta nel dispositivo della sentenza impugnata è corretta, per cui ben può la Corte limitarsi a integrarne la motivazione.

 Non è vero infatti che l’A. abbia reso dichiarazioni confessorie; al contrario, egli ha addossato tutta la responsabilità al Q. , sostenendo di aver consegnato allo stesso l’assegno in garanzia, di avergli successivamente comunicato che il conto era stato chiuso e di aver addirittura offerto altro assegno al Q. , in modo da poter ottenere la restituzione del titolo a firma del C. . Analogamente, le deposizioni testimoniali raccolte nel giudizio di primo grado non hanno assolutamente suffragato l’ipotesi di una eventuale responsabilità dell’A. , in quanto il teste I. (funzionario di banca) ha dichiarato di non conoscere gli accordi intervenuti tra le parti, mentre la teste F. (moglie dell’A. ) ha riferito che fu il Q. a mettere all’incasso l’assegno, in violazione degli accordi intervenuti, in base ai quali il pagamento delle piastrelle doveva avvenire contestualmente alla loro consegna (per cui il Q. non poteva incassare l’assegno prima di consegnare la mercé). Né potrebbe giungersi all’accertamento della responsabilità dell’A. attraverso l’escussione dell’unico teste (S..D.B. ) non sentito in primo grado, in quanto i capitoli di prova che lo stesso dovrebbe confermare sono tutti diretti ad imputare l’illegittima levata del protesto al Q. e non all’A. , avendo il C. sostenuto nella memoria istruttoria depositata in prime cure il 28.11.2002 che l’assegno da lui emesso era rimasto sempre in possesso del Q. e che per contratto il pagamento della mercé doveva avvenire soltanto al momento della consegna, sicché non si riusciva ad immaginare quale responsabilità potesse individuarsi a carico dell’A. , il quale si sarebbe limitato (secondo la prospettazione dello stesso C. ) a girare l’assegno ed a consegnarlo al Q. , il quale ben sapeva che non poteva incassarlo prima della consegna delle piastrelle.

3. Nel proprio ricorso per cassazione il C. propone le seguenti quattro censure; il Q. resiste con controricorso e chiede il rigetto del ricorso.

3.1. Violazione e falsa applicazione degli art. 75 c.p.p., 185 c.p., 99 e 112 c.p.c. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia e precisamente in ordine: a) al presunto intervenuto trasferimento dell’azione civile nel procedimento penale e alla conseguente rinuncia dell’attore al giudizio civile; b) alla non rilevata diversità delle azioni (petitum e causa petendi) fatte valere nel giudizio civile e penale dal C. ; c) all’individuazione dei criteri dell’azione risarcitoria proponibile in sede penale; in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 e 5 c.p.c.. La sentenza impugnata risulterebbe errata ed illegittima, dato che, nella fattispecie, non sussisterebbe alcuna identità tra le domande, dato che l’azione fatta valere dall’attore in sede civile non sarebbe la stessa che ha fatto valere nel procedimento penale, in quanto diversi risultano essere il petitum e la causa petendi. Q.G. , è stato imputato per i reati di cui agli artt. 485 e 491 c.p., per aver apposto dopo la propria una falsa girata sull’assegno indicato in atti, al fine di procurarsi il vantaggio di non apparire quale ultimo giratario del titolo.

La costituzione di parte civile nel procedimento penale effettuata dal C. avrebbe appunto ad oggetto il risarcimento dei danni patrimoniali e morali quali conseguenza diretta dell’apparenza ingannevole creata dal Q. attraverso il fatto di reato, ossia l’alterazione del titolo di credito in questione al fine di procurarsi il vantaggio di non apparire quale ultimo giratario del titolo, per escludersi da qualsivoglia responsabilità per l’elevazione de protesto. Ciò si può agevolmente vedere da una semplice lettura dell’atto di costituzione di parte civile, prodotto in atti e dalle stesse richieste sostanziali indicate (al di là delle espressioni utilizzate al fine di dare contezza solo della vicenda nel suo complesso) rispettivamente in Euro 2000,00 per danni patrimoniali pari cioè alla somma portata dal titolo in questione oltre le spese anticipate dall’attore e gli interessi corrisposti al Q. ed Euro 3000,00 per i danni morali sofferti per la compiuta alterazione del titolo di credito da parte del Q. .

La domanda del medesimo, invece, fatta valere nel presente giudizio civile risulterebbe del tutto autonoma e sganciata dal fatto di reato commesso dal Q. , atteso che deriva da una riassunzione nel merito dopo l’accoglimento da parte del Tribunale, in sede di reclamo, della richiesta cautelare ex art. 700 c.p.c. di sospensione della pubblicazione del protesto illegittimo sul relativo bollettino, formulata dal C. . Con tale azione civile instaurata, non soltanto nei confronti del Q.G., imputato nel procedimento penale, ma anche nei confronti dell’A. e della Camera di Commercio di Lecce, l’attore, dopo aver ottenuto la sospensione della pubblicazione del protesto sul relativo bollettino, ha chiesto in via principale “di disporre in via definitiva la cancellazione del nominativo dell’attore dall’elenco dei protesti in relazione al titolo indicato in atti, nonché di accertare la responsabilità dei convenuti nella elevazione del protesto medesimo e per l’effetto condannare chi di dovere al pagamento in favore dell’attore della somma di L. 40.000.000 a titolo di risarcimento danni, conseguenti alla levata illegittima del protesto”.

Chiarito il petitum e la causa petendi dell’azione civile, risulterebbe evidente che “la cancellazione del protesto illegittimo” integra una domanda totalmente autonoma dal fatto di reato sia perché diretta alla CCIA di Lecce, quale organo esecutore, su cui il giudice penale non potrebbe, né avrebbe potuto pronunciarsi. Ne conseguirebbe che alcuna attinenza può avere la domanda azionata nel giudizio civile con quella azionata nel procedimento penale, atteso che diverso è il petitum e totalmente diversa è la causa petendi, oltre che in parte diverse sono anche le parti processuali. Inoltre, dall’esame dell’atto di citazione si evincerebbe con chiarezza un altro elemento, totalmente disatteso dalla Corte di Appello, ossia che la domanda risarcitoria proposta dal C. in sede civile ha per oggetto i danni diversi patrimoniali da protesto illegittimo, derivatigli dal discredito personale e commerciale che l’evento del protesto inevitabilmente comporta, in quanto conferisce pubblicità all’insolvenza del debitore.

Parimenti dall’esame dell’atto di costituzione di parte civile, se correttamente letto e interpretato, risulterebbe evidente che l’attore ha chiesto i danni limitandoli esclusivamente a quelli da reato, ai sensi dell’art. 185 c.p., che costituisce il fondamento delle obbligazioni ex delicto. Sul punto palese risulterebbe il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla presunta identità tra la domanda proposta in sede civile e quella trasferita in sede penale. L’espressione utilizzata dall’attore e ripresa dalla Corte territoriale in sentenza, secondo cui; “il pregiudizio lamentato è costituito dalla condotta del Q. , il quale ha negoziato il titolo in questione provocando così la levata del protesto in capo al C. , facendo credere di aver girato a terzi il titolo” non potrebbe portare alla conclusione apodittica di ritenere che con l’atto di costituzione di parte civile l’attore abbia inteso proporre nel giudizio penale un’azione risarcitoria avente come fatto costitutivo un comportamento illecito del Q. più complesso rispetto alla mera contraffazione dell’assegno, posto che è lo stesso capo di imputazione che testualmente evidenzia il fine che l’imputato si era preposto che era quello di procurarsi il vantaggio di non apparire quale ultimo giratario del titolo che aveva fatto protestare. In tale contesto non vi sarebbe alcuna attinenza tra la domanda azionata in sede civile e quella fatta valere in sede penale solo nei confronti del Q. , in quanto la prima avrebbe per oggetto la cancellazione del protesto illegittimo e il risarcimento dei danni conseguenti alla illegittimità dell’evento – protesto; mentre la seconda il risarcimento dei danni conseguenti non al protesto, ma al reato di falso e all’alterazione del titolo di credito commessa dal Q. dopo l’avvenuto protesto.

Ne consegue che nella fattispecie non si sarebbe verificata alcuna automatica rinuncia all’azione civile da parte dell’attore ai sensi dell’art. 75 c.p.p.; né mai l’attore con l’atto di costituzione di parte civile avrebbe inteso rinunciare al giudizio civile e trasferire nel giudizio penale la stessa domanda proposta in sede civile rivolta peraltro anche verso altre parti non coinvolte nel procedimento penale e avrebbe ad oggetto, oltre il risarcimento dei danni, da discredito commerciale, la richiesta di cancellazione definitiva del protesto elevato illegittimamente. Allo stesso tempo, il riferimento nell’atto di citazione alla contraffazione dell’assegno dopo il protesto non giustificherebbe la conclusione apodittica e immotivata, come ha sostenuto la Corte territoriale, di aver allegato l’attore come fatto costitutivo della pretesa risarcitoria nel processo civile anche il danno da reato.

L’errore della Corte di Appello consisterebbe nell’aver confuso l’esistenza di una correlazione tra i fatti dei due giudizi con l’identità tra essi, nonostante la loro innegabile diversità in contrasto con le linee direttici che si ricavano dalla giurisprudenza della stessa Suprema Corte in merito, secondo cui “qualora un fatto illecito produca diversi tipi di danno è possibile pretendere il risarcimento di ciascuno di essi separatamente dagli altri e particolarmente agire in sede civile per un tipo e successivamente costituirsi parte civile nel giudizio penale a carico del danneggiante per ottenere il risarcimento degli altri senza che questo comporti rinuncia ex lege agli atti del giudizio civile” (Cass. Sez. III Ord 10/03/2006 n. 5224 – Cass. Sez. II 2/10/2000 n. 13007). Secondo il resistente, l’odierno ricorrente non avrebbe riportato testualmente il contenuto della costituzione di parte civile e, in particolare, la richiesta di risarcimento danni vera e propria, che così aveva formulato: “il pregiudizio lamentato è costituito dalla condotta del Q. il quale… ha negoziato il titolo in questione provocando così la levata del protesto in capo al C. . Il danno patrimoniale è pari ad Euro 2.000, 00… 11 danno morale, invece, è dovuto all’ingiusto disagio d’animo che la parte lesa ha patito in conseguenza dell’illecita levata del protesto”. E continua: Invece; (?), “l’azione civile odierna mira ad accertare la responsabilità dei convenuti nella elevazione del protesto e per l’effetto condannarli al pagamento di L. 40.000.000 a titolo di risarcimento danni conseguenti alla levata illegittima di protesto”. L’oggetto è identico: la fonte del danno, cioè, è sempre la medesima (illegittima levata di protesto), cambia solo la quantificazione del danno che, paradossalmente, risulta assai minore in sede penale, pur alla presenza di un’ipotetica fattispecie di reato,”estranea” all’azione civile. La Corte d’Appello avrebbe colto, leggendo gli atti originari, l’identità delle due azioni, senza contare che l’ipotetica alterazione del titolo non è un fatto acquisito, cioè provato, come si vorrebbe far credere.

3.1.2. La censura è infondata. La regola di cui all’art. 24 cod. proc. pen. previgente (riprodotta sostanzialmente in quella di cui all’art. 75, primo comma, del vigente), secondo cui il trasferimento dell’azione civile in sede penale comporta di diritto la rinuncia dell’attore al giudizio civile che di conseguenza va dichiarato estinto anche d’ufficio, postula che tra le due azioni vi sia identità di oggetto, in relazione alla causa petendi e al petitum e di soggetti, il cui accertamento – che prescinde e deve essere condotto indipendentemente dall’esame della fondatezza dell’azione esperita con la costituzione di parte civile – è rimesso all’apprezzamento di fatto del giudice di merito, come tale incensurabile in sede di legittimità ove non siano dedotti vizi di motivazione (Cass. n. 6293 del 2003; 5180/1983; 3439/1981).

Del resto, l’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite (Cass. n. 17947/2206; 2467/2006).

3.1.3. Nel caso in esame, la valutazione compiuta dal giudice di merito circa l’identità delle due azioni è adeguatamente motivata sulla scorta del puntuale esame, condotto in parallelo dalla Corte territoriale sulla dichiarazione di costituzione di parte civile – ritenuta riguardare l’esercizio di azione risarcitoria avente come fatto costitutivo un comportamento illecito non limitato alla contraffazione dell’assegno, ma esteso alla previa messa all’incasso del titolo, tanto da provocarne il protesto illegittimo e quindi all’apposizione su di esso della falsa firma di girata, per evitare di essere ritenuto responsabile dell’illegittima levata del protesto – e sulla pretesa azionata nel presente processo, consistente non solo nella messa in circolazione del titolo, contrariamente alle pattuizioni intercorse tra le parti, m anche nella contraffazione del medesimo dopo il protesto. È stata, così, congruamente valutata la volontà della parte in relazione alle finalità dalla stessa perseguite, senza che risulti alterato il senso letterale, ma senza eh sia condizionante la formula adottata dalla parte stessa (Cass. 22893/2008).

3.2. Violazione e falsa applicazione degli artt. 307 – 99 – 112 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia e precisamente in ordine: a) alla rilevata automatica estinzione del giudizio civile b) alla mancata rilevazione della tardività dell’eccezione di estinzione del giudizio fatta valere dal Q. , c) alla nullità dell’intero procedimento, in relazione all’art. 360 n. 3-4-5 c.p.c. La sentenza impugnata risulterebbe errata ed illegittima, per palese violazione delle norme processuali in materia di estinzione del giudizio. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, “l’estinzione del giudizio civile a seguito del trasferimento dell’azione civile nel processo penale non si produce automaticamente, ma in tanto opera in quanto l’effetto estintivo sia eccepito dalla parte ai sensi dell’art. 307 c.p.c. (Cass. 6/8/2007 17172; Cass. 1997 n. 8737; Cass. 1992 n. 4368). Una volta ricondotta l’estinzione dell’azione civile conseguente al trasferimento di essa nel processo penale ex art. 75 c.p.p. alla norma dell’art. 307 c.p.c., risulta evidente che tale eccezione di parte deve essere formulata perentoriamente entro i termini previsti dal comma 4 della disposizione in questione ossia prima di ogni altra difesa. Se cosi non fosse, non avrebbe senso alcuno l’espressione utilizzata dal legislatore nella disposizione indicata, che testualmente recita: “l’estinzione opera di diritto, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni sua difesa”. La Corte di Appello avrebbe disatteso ogni indagine in ordine al momento in cui sarebbe stata sollevata dalla parte interessata l’eccezione di estinzione, in danno del ricorrente, limitandosi ad affermare soltanto che essa è rilevabile anche d’ufficio. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe errato nel condividere l’iter logico giuridico del giudice di primo grado, il quale aveva dichiarato l’improcedibilità della domanda del C. sulla base di un’eccezione preliminare formulata da controparte che non poteva trovare ingresso nel processo, essendo anche inammissibile, per essere stata formulata tardivamente, molto dopo il verificarsi del presunto evento estintivo: risulta provato che il C. si è costituito parte civile con atto depositato all’udienza del 15/10/2002; mentre la difesa del Q.G. ha formulato l’eccezione suindicata solo ali udienza del 10/1/2005 e dunque tardivamente, posto che avrebbe potuto farla valere in giudizio già all’udienza del 11/5/2004, primo e unico momento utile successivo al presunto fatto estintivo per formulare l’occorrente difesa. Secondo il resistente, invece, la lettera dell’art. 75 c.p.p. sarebbe chiara: “L’azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L’esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio…”. L’art.307, invece, si intitola “Estinzione del processo per inattività delle parti”: se l’azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito, quest’ultimo è altresì il momento ultimo, appunto, per la proposizione dell’eccezione. Inoltre, l’eccezione d’intempestività della deduzione avrebbe dovuto proporsi in primo grado. Controparte non solo trascurerebbe la chiara lettera delle norme indicate, ma aggiungerebbe anche che l’eccezione ex art.75 fu avanzata, in primo grado, tardivamente. Trascurerebbe, però, che detta eccezione di tardività (comunque irricevibile) mai fu eccepita in primo grado, ma solo in appello, quindi tardivamente. Quindi, lo stesso ricorrente sarebbe già incorso nello stesso errore che attribuisce al Q. : l’eccezione di tardività avrebbe dovuto essere avanzata in primo grado, e non successivamente, in sede di conclusionale nel secondo e poi nel presente grado.

3.2.2. La censura è infondata. La Corte non ignora che la questione giuridica dedotta nel secondo motivo è stata, nel corso degli anni, oggetto di divergenti decisioni in sede di legittimità, con riguardo specialmente alla previsione di cui all’art. 24 del previgente codice di rito penale. Da una parte, l’indirizzo che riconduceva l’ipotesi del trasferimento dell’azione civile in sede penale nell’ambito dell’art. 307 c.p.c., si da richiedere, per l’operatività dell’estinzione del giudizio civile, l’eccezione della parte interessata (in tal senso, oltre alla citata Cass. n. 6293/2003, in motivazione; Cass. 8 settembre 1997, n. 8737; 11 maggio 1995, n. 5167; 9 aprile 1992, n. 4368; 19 gennaio 1985, n. 158; 26 gennaio 1982, n. 5209); dall’altra si contrappose l’orientamento secondo cui il trasferimento dell’azione civile nel processo penale a seguito della costituzione di parte civile, costituendo (a norma dell’art. 24 c.p.p. citato) una rinuncia dell’attore all’azione civile, consentiva al giudice di questo, adito per le restituzioni e per il risarcimento dei danni derivati dal reato, di dichiarare, in analogia con il disposto dell’art. 306, terzo comma, c.p.c., l’estinzione del processo stesso d’ufficio, anche in grado di appello (così, Cass. 5656/1998; 15 gennaio 1991, n. 295; 27 febbraio 1987, n. 2104; 26 febbraio 1986; 30 gennaio 1982, n. 595; 25 maggio 1981, n. 3439; 15 giugno 1979, n. 3383; nonché, meno recentemente, 16 luglio 1964, n. 1913). Tuttavia, non è dubitabile che, se si pone mente alla giurisprudenza formatasi in relazione alla previsione di cui all’art. 75 c.p.p. del 1988, secondo cui l’esercizio della facoltà di trasferire l’azione civile nel processo penale – esercitabile fin quando non sia emessa sentenza di merito, anche non passata in giudicato – “comporta la rinuncia agli atti del giudizio”, l’orientamento prevalente è ormai nel senso che il fatto impeditivo alla prosecuzione del processo in sede civile, non solo opera di diritto, ma è rilevabile d’ufficio.

3.2.3. Si è, infatti, affermato e deve ribadirsi che “il trasferimento dell’azione civile nel processo penale produce di diritto (la norma dell’art. 75 cit. è nel senso che l’esercizio della facoltà “comporta rinuncia agli atti del giudizio”) la rinuncia dell’attore al giudizio civile, sicché il giudice civile deve anche d’ufficio dichiarare l’estinzione del processo, senza che sia necessaria l’accettazione della parte, alla sola condizione che dagli atti risulti l’avvenuto trasferimento dell’azione civile nel processo penale, sul fondamento, ben s’intende, dell’accertata identità (alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle azioni: personae, petitum, causa petendi) delle due azioni” (Cass. n. 7396 del 2003).

3.2.4. L’affermazione era stata preceduta da altra motivata decisione che – pur inquadrando il fenomeno del trasferimento dell’azione civile nel processo penale non tanto nell’area dell’estinzione del processo civile, quanto in quella dei rapporti tra processi (quello civile e quello penale), sicché esso andrebbe considerato non già un fatto che estingue il primo, quanto un fatto che ne impedisce il proseguimento, non potendo pendere davanti a giudici diversi più processi per la stessa causa e consentendo l’ordinamento alla parte di chiedere che, sulla domanda proposta al giudice civile, provveda ormai il giudice penale – ha precisato che si tratta di una “preclusione che ha ragione d’essere dichiarata in quanto sussiste nel momento in cui è rappresentata al giudice, ma che non richiede eccezione di parte, perché attiene, come si è visto per la litispendenza, ad un interesse all’ordinato esercizio della giurisdizione che sovrasta il potere dispositivo delle parti (Cass. n. 189 del 2001), 11 principio è stato ripreso, sia pure incidentalmente, da un’altra decisione (Cass. n. 18193 del 2007) – anch’essa orientata a ritenere che il trasferimento dell’azione risarcitoria dal processo civile a quello penale non si configuri come fatto estintivo del processo civile, bensì come fatto impeditivo della sua prosecuzione e che, comunque si qualifichi, la preclusione che ne deriva non possa essere dichiarata se al momento della declaratoria abbia già esaurito i suoi effetti – la quale ha affermato che tale “declaratoria, peraltro, prescinde dall’eccezione di parte perché attiene all’interesse all’ordinato esercizio della giurisdizione che non è disponibile dalle parti”.

3.2.5. A questo filone – almeno sul punto della rilevabilità ufficiosa della causa del “trasferimento” dell’azione civile in sede penale – è riconducibile anche un’altra meditata decisione (Cass. n. 13946 del 2005, in motivazione), per la quale, a seguito dell’art. 75 c.p.p. del 1988, norma secondo cui il trasferimento dell’azione civile in sede penale comporta “rinuncia agli atti del giudizio” e non produce più “di diritto la rinuncia dell’attore al giudizio civile”, “la lettera della legge e la nuova disciplina in tema di rapporti tra azione civile e azione penale consentono, dunque, di affermare che l’art. 75, 1^ comma, c.p.p. del 1988 contempla un’ipotesi di rinuncia agli atti del giudizio civile, con conseguente estinzione rilevabile di ufficio, senza che siano necessarie, ai fini della produzione dell’effetto estintivo, né una formale e separata rinuncia in sede civile, né l’accettazione della parti costituite. Questa decisione – che pure si pone in netto e motivato contrasto con l’orientamento riportato al punto precedente (3.2.4.), ritenendo di ricondurre l’indicato trasferimento all’area dei fenomeni estintivi del processo civile ed escludendo, comunque, la riviviscenza dello stesso (in contrasto, quanto a ciò, con le più recenti decisioni in argomento: oltre alla citata Cass. 18193/2007, si veda Cass. n. 15995/2011) – per quanto qui rileva, ha, invece, affermato che “il maggior tecnicismo legislativo abbia, con la riforma del 1989, disegnato un complesso sistema di rapporti tra procedimenti che può così sintetizzarsi: 1) la proposizione dell’azione civile dinanzi al giudice civile, se trasferita nel processo penale (il che risulta possibile fino a quando non sia stata pronunciata sentenza civile di merito anche non definitiva) comporta rinuncia agli atti del giudizio civile; 2) la rinuncia agli atti del giudizio comporta, ipso ture, l’estinzione del processo civile, senza che sia necessaria alcuna attività ulteriore dell’attore o della controparte (Corte cost. 211/2002); 3) La “stessa azione” ed il “medesimo processo” proseguono in sede penale (ancora Corte Cost. 211/2002), come confermato dal disposto dell’art. 78 c.p.p. (che, a differenza dell’art. 94 vecchio codice, esige la strutturazione dell’atto di costituzione di parte civile in termini di vero e proprio libello introduttivo dell’azione modellato sul disposto di cui all’art. 163 c.p.c., a pena di inammissibilità)… “.

3.2.6. Tale articolato indirizzo – che, pur muovendo, nelle sue espressioni, da divergente inquadramento del fenomeno traslativo in esame, concorda sulla rilevabilità d’ufficio della causa del trasferimento e si fonda anche sul rilievo del Giudice delle Leggi circa l’ininfluenza – ai fini della ragionevolezza dell’art. 75 c.p.p. e della sua compatibilità con l’art. 24 Cost. – della mancata previsione che il trasferimento dell’azione civile nel processo penale avvenga solo se vi è l’accettazione delle parti costituite (v. Corte cost., ord. n. 211/2002, cit.) – induce a ritenere superato il divergente orientamento, riproposto negli ultimi anni da una pronuncia della Corte (che si limita, peraltro, a riproporre puramente e semplicemente il principio) secondo cui l’estinzione del giudizio, derivante dal trasferimento dell’azione civile nel processo penale, non si produrrebbe automaticamente, ma in tanto opererebbe in quanto l’effetto estintivo sia eccepito ai sensi dell’art. 307 c.p.c. (Cass. n. 17172/2007). Ne deriva l’infondatezza della censura di cui al secondo motivo.

3.3. Violazione e falsa applicazione degli art. 24 Cost. – art. 354 comma 2 c.p.c. – 112 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia e precisamente in ordine: a) alla rilevata correttezza della statuizione di rigetto della domanda contenuta nel dispositivo della sentenza impugnata e alla conseguente integrazione della motivazione; b) alla mancata rimessione del giudizio al primo giudice; in relazione all’art. 360 n. 3-4-5. La Corte d’Appello, dopo aver evidenziato in sentenza che il Tribunale di Lecce aveva erroneamente dichiarato improseguibile pure l’azione proposta contro le altre parti del giudizio (Camera di Commercio, A. ) ha deciso ugualmente nel merito, integrando la motivazione apodittica di rigetto del primo giudice, violando le norme di diritto sopraindicate, in danno del ricorrente. Secondo costante giurisprudenza, ai sensi dell’art. 354 comma secondo c.p.c., a norma del quale il giudice di appello deve rimettere la causa al primo giudice in caso di riforma della sentenza che ha pronunciato l’estinzione del processo a norma e nelle forme di cui all’art. 308 stesso codice trova applicazione anche nell’ipotesi di giudizio monocratico in primo grado, in cui pur non sussiste la reclamabilità al collegio dei provvedimenti del giudice istruttore dichiarativi dell’estinzione del giudizio, sicché la remissione al primo giudice da parte di quello di appello è consentita anche quando la dichiarazione di estinzione sia contenuta in un provvedimento del giudice monocratico (Cass. 20/07/2005 n. 15253 – Cass. 1/12/1999 n. 1342 – Cass. 21/2/1992 n. 2151). Tale orientamento della Suprema Corte risulta coerente con il sistema e non può non essere condiviso anche alla luce della fattispecie, caratterizzata da una sentenza del Tribunale di Lecce palesemente errata e viziata, in quanto aveva dichiarato l’estinzione dell’intero giudizio, anche per le altre parti, rispetto alle quali il C. non si è mai costituito parte civile, né mai avrebbe potuto costituirsi. La corte territoriale avrebbe anche errato, ad integrare la motivazione di rigetto contenuta nel dispositivo della sentenza di primo grado, ritenendola comunque corretta. Tale dispositivo, con cui il Tribunale “rigetta la domanda, siccome improcedibile”, sarebbe una statuizione abnorme, non contenendo il rigetto della domanda nel merito per infondatezza, ma collegando il rigetto solo all’improcedibilità erroneamente dichiarata dell’intero giudizio nei confronti di tutte le parti, con la conseguenza che totalmente errata risulterebbe la sentenza del primo giudice ed in quanto tale non suscettibile d’integrazione della motivazione da parte del Giudice di Appello. Sul punto la pronuncia della Corte di Appello risulterebbe apodittica e insufficiente e non calata in un discorso motivazionale logico e adeguato, giuridicamente e processualmente corretto.

3.3.1. In ordine al presente terzo motivo, che prospetta un vizio processuale, occorre osservare quanto segue. Come emerge dalla premessa in fatto sopra riportata, la decisione di primo grado venne assunta dal Tribunale adito in composizione monocratica, all’esito della discussione, previa precisazione delle conclusioni, con la sentenza che definì quel grado di giudizio. Con il loro atto di gravame l’attore ne chiese la riforma rappresentandone all’organo superiore l’erroneità perché il Q. si era limitato a chiedere l’estinzione solo del giudizio promosso nei suoi confronti e non delle altre parti. La Corte territoriale ha respinto integralmente il gravame, correttamente dichiarando l’inesistenza della causa d’improseguibiltà nei confronti delle altre due controparti, rispetto alle quali confermava il dispositivo di rigetto, integrando la relativa motivazione, previo esame delle risultanze processuali, senza ricorrere alla rimessione al precedente grado di giudizio.

Secondo il disposto dell’art. 354 c.p.c., comma 2, il giudice d’appello rimette la causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sull’estinzione del processo a norma e nelle forme dell’art. 308 c.p.c.. Quest’ultima norma prevede al comma 2 che il collegio, in sede di reclamo proposto ai sensi dell’art. 178 c.p.c., avverso l’ordinanza d’estinzione assunta dal giudice istruttore, provvede con sentenza se respinge il reclamo e con ordinanza non impugnabile se l’accoglie. Dal testo dell’art. 178, comma 2, applicabile in questo processo, si desume che è soggetta a reclamo l’ordinanza del giudice istruttore purché non operi come giudice monocratico. In quest’ultimo caso, il provvedimento definisce il giudizio e siccome determina la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale attinente al processo (art. 279 cod. proc. civ., comma 2, n. 2), ha natura di sentenza, quale che sia la forma adottata. Secondo esegesi che si condivide e s’intende ora ribadire (cfr. Cass. nn. 2151/1992, 15253/2005, 14592/2007, 18242/2008), esclusa l’esperibilità del reclamo ai sensi dell’art. 308 c.p.c., la parte che si ritiene pregiudicata da tale ultimo provvedimento può impugnarlo con gli ordinari mezzi d’impugnazione (Cass. 27 giugno 2007 nm 14592; 17 maggio 2007 n. 11434; 18 gennaio 2005 n. 950; 28 aprile 2004 n. 8092), e, nell’alveo di tale procedimento, è ammessa a formulare l’istanza di rimessione al primo giudice. L’ipotesi rientra, infatti, nell’assetto normativo risultante dal combinato disposto delle disposizioni richiamate, in quanto il provvedimento dichiarativo dell’estinzione, non reclamabile sol perché emesso da giudice monocratico, rientra comunque nell’archetipo tratteggiato dall’art. 308 c.p.c..

3.3.2. Diversamente accade nel caso, qual è quello di specie, in cui la decisione sia stata assunta dal tribunale in composizione monocratica ma dopo che la causa, precisate le conclusioni, sia stata trattenuta per la decisione ai sensi dell’art. 189 c.p.c. La sentenza che, pronunciando l’estinzione, definisce il giudizio chiude quella fase processuale ai sensi dell’art. 307 c.p.c., e; quindi non è omologabile al provvedimento adottato nel caso contemplato dall’art. 308 c.p.c., in cui il tribunale, in composizione unica, prende atto della causa d’estinzione e pronuncia relativa ordinanza (v. Cass. n. 1434/2008, cfr. Cass. n. 4470/1995). Non può perciò mutuarne la disciplina né in via estensiva né in via analogica. Il disposto dell’art. 354 c.p.c., elenca tassativamente i casi di rimessione al precedente grado di giudizio, che rappresentano numerus clausus, ed è dunque norma di stretta interpretazione. Il corollario comporta che, nel caso in discussione, la rimessione degli atti al primo giudice non poteva essere disposta e il giudice di appello, investito dell’impugnazione avverso la sentenza, ritenendola illegittima, annullata la pronuncia d’estinzione, (ben poteva e) doveva trattenere la causa per la trattazione del merito. Devoluta alla cognizione del giudice superiore la questione di rito, a loro avviso erroneamente risolta nella sentenza appellata, come si è riferito, gli appellanti comunque manifestarono ritualmente il loro interesse alla definizione delle questioni riguardanti la vicenda sostanziale controversa, secondo il modello tipico dell’impugnazione, come emerge dalle conclusioni riportate nell’impugnata sentenza. Chiusa la fase rescindente con la correzione e l’integrazione della motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla dichiarata improseguibiltà del processo nei confronti delle parti diverse dal Q. , la Corte d’appello ha correttamente deciso la controversia nel merito. Di qui l’insussistenza dei vizi denunciati, dato che la sentenza impugnata si rivela in armonia con il principio secondo cui In tema di estinzione del processo quando il giudice istruttore nel corso del giudizio a cognizione piena opera come giudice monocratico, il provvedimento con cui dichiara che il processo si è estinto non è soggetto a reclamo e, siccome determina la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale attinente al processo, ha natura di sentenza, anche se emesso in forma di ordinanza, impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione. Ne consegue che la parte è ammessa a formulare al giudice di appello istanza di rimessione al primo giudice, ai sensi dell’art. 354, secondo comma, cod. proc. civ. ravvivandosi l’ipotesi di cui all’art. 308, secondo comma, cod. proc. civ.. Diversamente deve ritenersi quando l’estinzione sia stata deliberata dal tribunale in composizione monocratica solo dopo che la causa, precisate le conclusioni, sia stata trattenuta in decisione, ai sensi dell’art. 189 cod. proc. civ.: in tal caso, il giudice di appello ove non la ritenga sussistente, non può rimettere la causa al giudice di primo grado -non ricorrendo l’ipotesi contemplata dall’art. 308, secondo comma, cod. proc. civ., richiamato dall’art. 354 secondo comma, cod. proc. civ. ma deve trattenere la causa e deciderla nel merito” (Cass. n. 22917/2010). 3.IV. Violazione e falsa applicazione degli ari 115 – 116 c.p.c. – 2967 cc Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia e precisamente in ordine: a) alla valutazione delle prove; b) alla richiamata irrilevanza dell’escussione del teste S..D.B. ; in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3-5. La sentenza impugnata risulterebbe chiaramente errata e illegittima, avendo la Corte territoriale violato le norme e i principi di diritto in materia di valutazione delle prove. Affermare che “non potrebbe giungersi all’accertamento della responsabilità dell’A. attraverso l’escussione dell’unico teste non sentito in primo grado, in quanto i capitoli di prova che lo stesso dovrebbe confermare sono tutti diretti ad imputare l’illegittima levata del protesto al Q. e non all’A. …. costituisce dichiarazione apodittica non sorretta da una motivazione adeguata e sufficiente e non si presenterebbe immune da vizi logici ed errori di diritto. Vero che il giudice,ai sensi dell’art. 116 c.p.c., deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, ma è altrettanto vero che tale norma non esime il giudice dal valutare le risultanze probatorie effettivamente emerse nel corso dell’istruttoria, soprattutto quando la prova è stata già ammessa in quanto rilevante ai fini del decidere dal primo giudice. L’escussione del teste S..D.B. , persona questa vicina al Q. , avrebbe potuto chiarire i rapporti tra le parti e in particolare con l’A. , nonché i fatti che hanno portato alla levata del protesto illegittimo in danno del ricorrente. La Corte di Cassazione più volte ha ribadito che “viola l’art. 116 c.p.c. il giudice, il quale dopo comunque che ci sia stata un provvedimento giudiziale ammissivo dei mezzi di prova, pervenga immediatamente alla conclusione negativa di rilevanza delle risultanze della prova, poiché tale giudizio si risolve in un’affermazione apodittica, non preceduta da alcuna sostanziale valutazione della prova medesima (Cass. 14/7/76 n. 2724)”.

Il resistente deduce che l’avversa censura contiene eccezioni inammissibili: il ricorrente vorrebbe introdurre un’ulteriore disamina nelle questioni di merito che non possono interessare il Giudice della legittimità. Ribadisce che il ricorrente chiede ancora una volta, nei confronti del Q. . 1. all’autorità giudiziaria civile (1 grado):… di accertarne la responsabilità nell’elevazione del protesto, con conseguente condanna al risarcimento dei danni conseguenti alla levata di protesto (v. atto di citazione), quantificati in ben Euro. 20.658,28; 2. All’autorità penale chiede la stessa cosa: risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’illecita levata di protesto (quantificati, questa volta, in Euro.5.000,00, v. atto di costituzione di parte civile); ove si legge ancora, testualmente: “Il pregiudizio lamentato è costituito dalla condotta del Q. il quale ha negoziato il titolo in questione provocando così la levata di protesto in capo al C. …”. Il C. insiste due volte nel chiedere il ristoro dei danni provocati dalla (presunta) illecita levata di protesto. Sarebbe palese la duplicazione della domanda di risarcimento: Si fa notare, poi, che il Q. è stato assolto con formula piena, in sede penale, per non aver commesso il fatto.

3.4.1. Neanche questa censura coglie nel segno. Infatti, si deve ribadire che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione in appello di una prova testimoniale ha l’onere di indicare specificamente le circostanze formanti oggetto della prova medesima, affinché la Corte di Cassazione possa esercitare il controllo circa il carattere decisivo dei fatti che si assumono trascurati dal giudice di merito; infatti, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il giudice di legittimità deve essere in grado di compiere tale controllo sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza dover colmare le eventuali lacune con indagini integrative; parimenti è necessario che il ricorrente alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire ex actis alla Corte di verificare la veridicità dell’asserzione (Cass. n. 9748/2010; 10357/2005; 19138/2004; 11895/2003; v. anche Cass. n. 19715/2010, ord.; 5479/2006). Nella specie, si rivela inammissibile il motivo per difetto di autosufficienza della relativa censura, essendosi il ricorrente limitato a indicare il teste e genericamente i temi sui quali doveva vertere la dedotta prova testimoniale, non consentendo così a questa Corte Cass. di verificare, sulla base del solo ricorso, la correttezza del giudizio di irrilevanza espresso su di essa dal giudice a quo. Ne deriva il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza tra le parti costituite; nulla per le medesime nei rapporti con quelle che non hanno svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Q. , delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 1.600,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

 

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