Infiltrazioni e liquidazione del danno (anche in via equitativa) Cassazione, sez. III, 5 giugno 2012, n. 8992

 

INFILTRAZIONI E LIQUIDAZIONE DEL DANNO (ANCHE IN VIA EQUITATIVA)

Cassazione, sez. III, 5 giugno 2012, n. 8992

 

Il danno da infiltrazioni può essere quantificato rapportando la spesa sostenuta ai parametri dell’equo canone dovuto per un appartamento di dimensioni equivalenti a quello inabitabile. Il giudice di merito, quindi, considerando tutti detti elementi, ha ritenuto eccessiva, in relazione all’equo canone ed all’effettivo mercato delle locazioni abitative, la spesa effettivamente sostenuta dal danneggiato. Lo stesso criterio è stato adottato anche per le spese di locomozione, invocate dal danneggiato a seguito degli spostamenti dovuti all’indisponibilità dell’alloggio.

Per la Cassazione “la determinazione di dette voci di danno non è avvenuta ex art. 1226 c.c., bensì in base agli arti 1223, 2056 e 2058, secondo comma, c.c. a seguito di congrua e corretta valutazione delle risultanze istruttorie acquisite agli atti e sulla base di una ricostruzione “per differenza” del danno o interesse da risarcire, tenendo conto del carattere “patrimoniale” del danno risarcibile. (Cass. n. 9740/2002; v. anche Cass. n. 3352/1989)”.

La funzione tipica del risarcimento, qualunque ne sia la forma, è di porre il patrimonio del danneggiato nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato, se il fatto dannoso non si fosse prodotto (Cass. 16.12.1988 n. 6856; Cass. 18.7.1989 n. 3352); ciò può avvenire o mediante il pagamento di una somma pari alla diminuzione di valore subita dal bene leso, ovvero – quando sia possibile – restituendo al bene stesso il valore che esso aveva precedentemente alla lesione: alla prima modalità corrisponde la tecnica del risarcimento per equivalente; alla seconda quella del risarcimento in forma specifica.

Corollario di detta funzione del risarcimento è che il danneggiato non può trarre vantaggio dal danno subito: ovvero esso non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dallo stesso (Cass. 9.4.1980 n. 2281; Cass. 7.10.1961 n. 2047). Su tale criterio si fonda la regola della compensatio lucri cum damno, per la quale nella valutazione quantitativa del danno vanno detratti gli eventuali vantaggi che il fatto dannoso abbia procurato al danneggiato come conseguenza diretta ed immediata.

La corte conclude affermando che “qualora la riparazione del pregiudizio subito vada oltre la ricostituzione della situazione anteriore e produca un vantaggio economico al danneggiato, il giudice deve tenerne conto, corrispondentemente riducendo la misura del risarcimento”. [L.D’Apollo]

 

 

Cassazione, sez. III, 5 giugno 2012, n. 8992

(Pres. Massera – Rel. Giacalone)

 

In fatto e in diritto

1. G..M. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Messina, il Condominio (omissis) di detta città e F..P. , deducendo di avere più volte richiesto, senza alcun esito, l’esecuzione dei lavori di ripristino e di impermeabilizzazione della terrazza di copertura dello stabile condominiale, dalla quale provenivano ingenti infiltrazioni di umidità al suo sottostante appartamento, che avevano cagionato il deterioramento e il crollo degli intonaci dei soffitti, nonché vari danni alla carta da parati e agli arredi; di avere proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. per le medesime motivazioni, nel quale procedimento era intervenuto il P. , altro condomino, contestando la domanda; che il Pretore, espletata c.t.u., aveva ordinato al condominio l’esecuzione di varie opere. Chiedeva pertanto che, confermato il provvedimento cautelare, il convenuto fosse condannato a risarcirgli i danni, consistenti nelle spese di ripristino dell’appartamento e in quelle, sostenute per essere stato costretto ad abbandonarlo, in quanto ormai inabitabile, e a trasferirsi in altro alloggio assunto in locazione. Si costituivano in giudizio i convenuti, che contestavano la domanda. Il condominio chiedeva inoltre di chiamare in causa, a propria garanzia, L.N. e A..R. , titolari di imprese che avevano eseguito alcuni lavori nella terrazza condominiale, assumendo che la cattiva esecuzione di tali lavori aveva rappresentato la reale causa dei danni. Questi ultimi, si costituivano in giudizio e contestavano la domanda. Il Tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno nei confronti del condominio e rigettava la domanda di garanzia dallo stesso proposta. 2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata in data 15.2.2006, la Corte d’Appello di Messina ha rigettato l’appello principale del Condominio ed accolto parzialmente quello del M. , osservando, per quanto qui rileva:

2.a. la deduzione del Condominio – di essersi sempre dichiarato pronto ad eseguire i lavori di cui all’ordinanza cautelare e di non avervi provveduto unicamente per la mancata disponibilità del M. (ammesso che fosse fondata in fatto, del che non vi era prova) era palesemente infondata in diritto. Infatti, in caso di mancata cooperazione del creditore che renda impossibile l’adempimento, l’ordinamento appresta al debitore: uno specifico strumento che gli consente di sottrarsi alle conseguenze negative dell’inadempimento attraverso la costituzione in mora del creditore, consistente (vertendosi in ipotesi di obbligo di fare) nell’intimazione di cui all’art. 1217 c.c.. È vero che l’art. 1220 c.c. riconnette effetti più limitati (tali dai escludere comunque la mora debendi) all’offerta non formale; tuttavia essa, per essere efficace, deve presentare i requisiti della serietà, tempestività e completezza, il che implica che non é all’uopo sufficiente (come nella specie) la mera e generica enunciazione della disponibilità ad adempiere, ma è necessaria la specifica indicazione delle modalità e dei tempi dell’attuazione della prestazione dovuta. Né, d altro canto, avrebbe potuto attribuirsi rilievo alla circostanza che il creditore omise di attivare la procedura esecutiva. Altrimenti, si finirebbe, assurdamente, per porre a carico del creditore, anziché del debitore inadempiente, le conseguenze dannose dell’inadempimento: mentre é evidente che il mancato esercizio di una facoltà processuale non può costituire fonte di responsabilità per il suo titolare, né, tanto meno, può avere l’effetto di esentare il debitore dalla responsabilità per la mancata esecuzione della prestazione dovuta. Una volta intervenuta l’ordinanza cautelare, i lavori furono eseguiti con sufficiente sollecitudine, dato che, dopo vari incontri e trattative con l’impresa e la stipula del contratto, essi ebbero inizio nell’ottobre 1997 e furono ultimati nel settembre. 1998.

2.b. Era infondato anche il secondo motivo, con cui il condominio si doleva della, quantificazione del danno operata dal primo giudice, con particolare riferimento all’importo liquidato in conseguenza dell’assunzione in locazione di altro immobile in altra zona della città. L’appellante si doleva, innanzitutto, che il danno fosse stato riconosciuto per tutto il periodo durante il quale il M. non godette del suo appartamento, mentre esso avrebbe dovuto essere limitato al tempo necessario per l’esecuzione dei lavori, nonché del criterio di determinazione adottato dal c.t.u. e condiviso dal pruno giudice. Quanto al primo profilo, esso appariva fondato sulla considerazione (innanzi confutata) che il M. avrebbe dovuto attivarsi per conseguire l’esecuzione delle opere di ripristino: laddove l’adempimento è comportamento dovuto dal debitore che, ove non vi provveda, resta tenuto a tenere indenne il creditore di tutte le conseguenze negative causalmente riconducibili a tale comportamento e da non evitabili facendo uso dell’ordinaria diligenza. Il concorso del fatto colposo del debitore (art. 1227 c.c.) presuppone non solo che egli non si sia attivato per ridurre le conseguenze dannose dell’illecito, ma anche che il comportamento all’uopo richiesto possa considerarsi esigibile in funzione del criterio dell’ordinaria) diligenza: situazione pacificamente non ricorrente allorquando esso comporti per il creditore notevoli rischi o spese. Nella specie, non solo il ripristino dell’intera terrazza costituiva un’opera costosa, ma anche l’immutazione dello stato dei luoghi antecedente alla conclusione del giudizio avrebbe potuto comportare conseguenze negative. Quanto al secondo profilo, l’operato del primo giudice appariva, in linea di massima, condivisibile ed esente da censure. Il primo c.t.u., ing. F. , aveva quantificato il danno assumendo come parametro il canone mensile (L. 800.00) concretamente corrisposto dal M. a seguito dell’assunzione in locazione di altro immobile, come risultante dal contratto prodotto in atti. A seguito dei rilievi mossi dal condominio a tale criterio (fondati sull’esatta considerazione che doveva ritenersi rimborsabile solo quel che dal M. era stato li giustificatamene pagato, e non, quindi, importi manifestamente eccessivi), era stato disposto un ulteriore accertamento peritale: il nuovo c.t.u., geom. V. , aveva quantificato il danno assumendo, come parametro, l’equo canone riferibile ad un appartamento di dimensioni equivalenti a quello divenuto inabitabile. È evidente che la quantificazione effettuata in base a questo secondo criterio (che è quella recepita dal primo giudice) ha carattere equitativo (in quanto non corrispondente all’effettiva deminutio patrimonii subita) e prescinde dalla puntuale prova del quantum: essa quindi comporta che si possa legittimamente tenere conto di voci presuntive, quale la maggiorazione prevista dalla legge per appartamenti mobiliati (e pacifico che il M. lasciò gran parte degli arredi nella sua originaria abitazione), l’aggiornamento del canone e gli oneri condominiali, potendosi ritenere, in base all’id quod plerunque accidit, che il locatore medio faccia richiesta di esse; nonché la maggiore spesa sostenuta per l’utilizzo di mezzi di locomozione, conseguente alla sostituzione di un’abitazione ubicata in zona centrale con una sita in zona periferica.

2.c. Deduce ulteriormente l’appellante che, nella liquidazione del danno, si sarebbe dovuto tenere conto, in compensazione,, della quota di spesa di ripristino della terrazza, della quale il M. era proprietario esclusivo. Orbene, le spese di manutenzione della terrazza erano a carico esclusivo del condominio e la ripartizione di esse fra i condomini costituiva attività interna dell’amministratore, da effettuarsi a mente dell’art. 1126 c.c. e delle tabelle millesimali. È evidentemente possibile; procedere a parziale compensazione dei rispettivi crediti: ciò tuttavia presuppone che entrambi siano liquidi o di facile e pronta liquidazione, laddove l’eventuale credito del condominio è allo stato indeterminabile (non disponendo la Corte dei dati di fatto all’uopo necessari).Circa la decorrenza degli interessi legali sulle somme liquidate, l’appellante denuncia una contraddizione del primo giudice, che in motivazione avrebbe indicato la data dell’1.3.98, in dispositivo, invece, quella dell’1.3.91. La contraddizione è inesistente, dato che la data indicata è solo la seconda: la pronuncia era corretta in diritto, facendo decorrere gli interessi dalla data di proposizione della domanda.

2.d. Col primo motivo di appello incidentale, il M. lamenta, sotto vari profili, l’insufficiente liquidazione del risarcimento riconosciutogli, non essendosi tenuto conto delle somme da lui concretamente erogate per la locazione; che la somma riconosciutagli non era stata corredata degli interessi legali progressivamente maturati; che non gli era stata riconosciuta la somma di L. 11.727.937 (indicata dal c.t.u. F. ) per interventi di ripristino omessi nel suo appartamento né le spese di reimmissione nel proprio appartamento; che non si era, tenuto conto che il suo nucleo familiare era composta da cinque persone, disponeva di due autovetture e quindi le reali spese di locomozione erano ben superiori a quelle liquidate; che non erano stati riconosciuti danni indiretti e riflessi patiti dal suo nucleo familiare. In ordine al primo e al penultimo profilo la Corte territoriale ha ribadito che si è proceduto a liquidazione equitativa, provvedendo a determinare il danno nella misura ritenuta astrattamente appropriata alla situazione concreta. Le doglianze in questione erano quindi inconferenti rispetto a tale modalità di liquidazione, essendosi ritenuta condivisibilmente eccessiva, in relazione all’equo canone e all’effettivo mercato delle locazioni abitative, la spesa realmente sostenuta dal danneggiato (come tale non addebitabile nella sua interezza al danneggiale). A tale criterio la Corte si era uniformata anche in relazione alle spese di locomozione (ragguagliate a quattro percorsi giornalieri, da considerarsi adeguati anche in presenza di due autovetture). Appariva infondata in fatto la seconda doglianza, perché il primo giudice aveva liquidato le somme dovute a titolo risarcitorio in importo già aggiornato sino al deposito della c.t.u. e riconosciuto gli interessi legali dall’1.3.1991 al soddisfo. Pertanto con l’appello incidentale era stato richiesto quanto già riconosciuto nella sentenza impugnata. Meritavano, invece, parziale accoglimento la terza e la quarta censura: il c.t.u. D. , che aveva puntualmente esaminato l’appartamento dopo i lavori di manutenzione della terrazza e di ripristino dello stesso, aveva indicato la somma di lire cinque milioni (Euro 2582,00) allo stesso spettante a titolo di lavori non eseguiti e di spese di trasloco interno. Tale somma, alla quale il giudice di primi grado non aveva fatto cenno, andava riconosciuta; mentre non competevano le spese di reimmissione nell’immobile, enunciate genericamente e non documentate, né i danni indiretti e riflessi, non avendo l’istante ottemperato all’onere di specifica allegazione, non avendone fornito la prova, ma neanche specificato la natura.

3. Il Condominio propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi.

3.1. Violazione degli art. 1217, 1220 e 1227 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. Violazione di legge e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. 1.a. Tra le questioni dibattute in punto responsabilità, il condominio aveva evidenziato come la condotta tenuta dal M. avesse, da un lato, impedito l’esecuzione del provvedimento cautelare del 16.07.1991, dall’altro, concorso ad aggravare il danno derivato nel tempo al suo appartamento che, se le riparazioni indicate dal c.t.u. Do. ed illustrate nell’ordinanza di accoglimento della domanda d’urgenza fossero state consentite non si sarebbe pervenuti alla sentenza di condanna, almeno nella misura del condannatorio finale. La Corte territoriale ha rigettato la doglianza, sul presupposto che mancasse la prova dell’assunto e, comunque, non ricorressero le condizioni della mora del creditore. Entrambe le affermazioni sarebbero inesatte. Sotto il primo profilo, sarebbe evidentemente sfuggita ai giudici del merito tutta la documentazione epistolare, dalla quale era emersa la disponibilità fattiva del condominio ad eseguire il provvedimento cautelare, l’incarico ad un’impresa per l’esecuzione dei lavori ed il rifiuto pretestuoso del danneggiato. La prova della mora credendi sarebbe stata, quindi, agli atti. Si sarebbe trattato di circostanze idonee a fornire la prova, di fatti decisivi, in quanto atti ad orientare il giudice del merito verso una decisione diversa da quella della sentenza impugnata. 1.b. Ha sostenuto, il giudice a quo, che la disponibilità ad adempiere la prestazione ex art. 1220 c.c. deve risultare seria, tempestiva e completa, con la specificazione delle modalità e dei tempi di attuazione della prestazione dovuta, non essendo sufficiente, la mera enunciazione della disponibilità medesima all’esecuzione della prestazione. Pertanto, ammesso pure che il condominio avesse manifestato interesse ad eseguire i lavori del cautelare pretorile, tuttavia, lo stesso non poteva ritenersi sollevato dalla prestazione per fatto imputabile al creditore. Per contro, il condominio sostiene di non comprendere come la condotta da esso posta in essere, esplicitata con motivata manifestazione di volontà (verbale assemblea 09.08.1991); con la indicazione specifica delle modalità di esecuzione (preventivo di spesa ed assunzione di oneri connessi da parte dell’impresa D.T.A. ) e con la richiesta di accesso per la esecuzione della prestazione (nota amministratore del 10.08.1991, più volte reiterata) avesse potuto essere ritenuta inidonea a liberare il debitore dalla mora. Il ragionamento della Corte territoriale presenterebbe un insanabile contrasto tra le circostanze esaminate e la soluzione giuridica adottata, tale da far ritenere che quelle circostanze, se considerate, avrebbero condotto ad altro risultato (Cass. 1, 3.01.1999 n. 2271, Cass. 04.0 3.2000 n. 2464). Occorreva, quindi, verificare se in concreto, l’offerta non formale dell’obbligato rivestisse, a meno, l’idoneità ad escludere (o limitare) gli effetti della mora sul debitore (Cass. 06.12.2000 n. 15505).

3.2. Violazione dell’art. 1226 c.c. in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c. – violazione di legge e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. È ius receptum nel nostro ordinamento che l’onere della prova del danno subito incombe sul danneggiato e che al risarcimento dei datimi in via equitativa si passa dar luogo solo quando, in presenza di un danno ontologicamente certo nella sua verificazione, risulti oltre modo difficile la prova del suo ammontare. Nella specie, era stata censurata la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva in via equitativa, riconosciuto al M. un maggior rimborso delle spese di locazione, asseritamente affrontate nel periodo in cui si è dichiarato costretto ad abbandonare la sua abitazione in misura pari al 30% in considerazione del fatto che egli era stato costretto a prendere in affitto un immobile arredato (art. 12 l. 392/1978); allo stesso modo, si era impugnato il capo della sentenza che riconosceva all’attore il diritto al rimborso degli aumenti ISTAT sul canone di locazione per il periodo di allontanamento dalla casa di abitazione. La Corte territoriale ha ritenuto esatta la pronuncia in quanto ammissibile che si fosse tenuto conto di voci presuntive quali la maggiorazione prevista per le locazioni di appartamenti ammobiliati ricorrendo ai criteri di equità voluti dall’art. 1226 c.c.; per ciò che riguarda invece, gli aumenti ISTAT sul canone di locazione, ha precisato che “secondo l’id quod plerunque accidit, si può ritenere che il locatore medio ne faccia richiesta”. L’errore sarebbe macroscopico perché inopportuno si appalesava il richiamo all’art. 1226 c.c. e non conferente appariva il ricorso a presunzioni. In primo luogo, perché il criterio sussidiario indicato dall’art. 1226 c.c. deve afferire al momento della quantificazione del danno, dopo che il giudice abbia effettuato l’indagine positiva della sua verificazione. Nel nostro caso, nonostante la contestazione, detta verifica non sarebbe stata effettuata, neppure per presunzione, il che, da solo, avrebbe dovuto escludere il ricorso all’ipotesi risarcitoria sussidiaria di cui all’art. 1226 c.c.. In secondo luogo, perché, in mancanza di qualsiasi riscontro (il c.t.u. non si era mai recato sul posto, né effettuato una ricognizione, neppure documentale, del mobilio dell’appartamento), era stata riconosciuta la misura massima della maggiorazione prevista dall’art. 12 l. 392/1978: la Corte di Messina avrebbe usato dell’art. 1226 c.c. con modalità esattamente inverse, dando per acquisito il dato della maggiorazione del 30% del canoni per gli immobili arredati ed ha ritenuto, invece ed in via presuntiva, che la locazione afferisse ad un appartamento interamente ammobiliato. In ultimo, perché il giudice a quo, immotivatamente ed apoditticamente pronunciando, avrebbe posto a base della decisione l’affermazione secondo cui sarebbe risultato “pacifico che il M. lasciò gran parte degli arredi nella sua abitazione”. A parte la circostanza che, sul punto, il danneggiato aveva interposto gravame incidentale, lamentando la mancata liquidazione delle spese di rientro a casa (con il che implicitamente confessando di aver effettuato un trasloco); mentre nessuna prova avrebbe fornito l’attore in ordine a detta pretesa (peraltro facilmente dimostrabile) e, soprattutto nessun elemento neppure induttivo avrebbe giustificato l’applicazione della misura massima della maggiorazione di cui all’art. 12 l. 392/1978. Ancora, basterebbe rileggere la descrizione dei locali e degli arredi risultante dalla c.t.u. D. in sede di esecuzione specifica dei lavori, per convenire come, in tutto il periodo in contestazione, gli arredi utili rimasti in casa M. sarebbero stati ben poca cosa. Per ciò che attiene, invece, agli adeguamenti ISTAT, il principio indicato dalla Corte di Messina, secondo il quale la richiesta di adeguamento da parte del locatore medio costituirebbe la regola, contrasta con la norma (art. 24 l. 392/1978) che impone la necessità di prova scritta della richiesta. Se, conformemente alla giurisprudenza, per conseguire il diritto all’adeguamento, il locatore deve provare di avere formulato richiesta scritta ex art. 24 legge cit.,. non avrebbe parimenti potuto assurgere a prova, neppure in via sussidiaria, il regime delle presunzioni.

3.3. Violazione degli artt. 1224 e 1282 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. Violazione di legge, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Violazione dell’art. 156 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.. La sentenza di primo grado aveva statuito che il condominio dovesse corrispondere all’attore la somma complessiva di Euro 45.947,03 a titolo di risarcimento dei danni come dettagliati in parte motiva, oltre interessi legali sulla detta somma dal 01.03.1991 al soddisfo. Il Condominio aveva impugnato detto capo di sentenza lamentandone l’erroneità, dal momento che, a leggere il dispositivo del titolo impugnato, la produzione degli interessi risultava calcolata con decorrenza dal 01.03.1991 e sull’intero capitale risultante dalla sommatoria di tutte le voci risarcitorie: al contrario, la decorrenza degli interessi doveva essere correlata si dalla data della domanda (non risultando, nello specifico, alcun diverso atto di costituzione in mora che potesse consentire di collocare la insorgenza del fenomeno pregiudizievole per parte attrice al 01.03.1991), ma andava specificata con riferimento alla maturazione di ogni singola voce di credito. Peraltro, il ricorrente aveva ipotizzato, che più che di un errore dovesse essersi trattato di una svista, giacche, in motivazione, il Tribunale aveva correttamente individuato la decorrenza degli interessi dalle singole voci di danno. Il motivo di censura è chiaro: la somma finale di Euro 45.947,03 costituiva la risultante di una serie di voci risarcitorie aventi tra loro diversa causale e diversa origine temporale e comprendeva, tra gli altri, gli importi risarcitori riconosciuti per mancato uso dell’alloggio nel periodo 01.07.1991/28.02.1998 (canoni di locazione mensili e ricevute di pagamento per oneri condominiali, per complessive Lire 73.322.258 di cui Lire 67.546.258 per canoni e Lire. 5.776.000 per oneri condominiali. Pertanto, l’aver indicato genericamente la decorrenza degli interessi dalla data del 01.03.1991 (al più, dal 07.05.1991, data di deposito del ricorso ex art. 700 c.p.c.) e soprattutto il non aver tenuto conto che gli interessi sui canoni di locazione andavano corrisposti con riferimento alle scadenze delle singole mensilità in avanti, costituirebbe error in indicando, fonte di un onere risarcitorio ingiustificato ed illegittimo a carico del condominio ricorrente. Che l’errore fosse evidente sarebbe dimostrato anche dalla posizione processuale assunta da parte attrice, che, dopo aver precisato che sulle somme da liquidare in suo favore dovessero essere calcolati gli interessi per ogni singola annualità e ad aver proposto specifico gravame incidentale, nelle more ha notificato un atto di precetto limitando l’intimazione sulla decorrenza degli interessi al 28.02.1998 e riservandosi di agire per la differenza. Statuendo sul punto, invece, la Corte di Messina ha affermato che la pronuncia era corretta in diritto, avendo, il Tribunale, fatto decorrere gli interessi sul capitale di cui al condannatorio dalla data di proposizione della domanda. Il condominio lamenta che l’insanabile contrasto tra la motivazione ed il dispositivo della sentenza di primo grado, tempestivamente denunciato con l’atto di appello, avrebbe dovuto essere ritenuto idoneo a produrre la sanzione di nullità della sentenza comminata dagli artt. 156 e seguenti c.p.c.. In secondo luogo, lamenta insufficienza di una motivazione idonea a far comprendere l’ubi consistam del processo logico seguito dal giudice dell’appello: questi avrebbe ridotto la censura ad una mera contraddizione, sul presupposto che la doglianza fosse limitata a sottolineare un contrasto tra la motivazione (che indicava la decorrenza degli interessi dal 28.02.1998, data di quantificazione del credito risarcitorio da parte del c.t.u.) ed il dispositivo che, invece, collocava la decorrenza degli interessi dal 01.03.1991. Ma, soprattutto, perché la Corte territoriale sarebbe incorsa in tutta evidenza in una violazione di legge: costituendo sanzione per l’inadempimento di un’obbligazione, gli interessi non possono che decorrere dalla data in cui il diritto corrispondente, di cui costituiscono accessorio, viene ad esistenza. Sicché non avrebbero potuto produrre interessi dal dì della domanda i canoni di locazione che l’attore avrebbe versato negli anni successivi o le quote condominiali asseritamente corrisposte in unica soluzione allo scadere del rapporto locatizio (Cass. n. 11695/1990).

3.4. Violazione dell’art. 1242 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. Violazione di legge e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. L’attore di primo grado, anch’egli insoddisfatto della pronuncia del Tribunale, aveva proposto appello lamentando, tra l’altro, la mancata liquidazione di somme sborsate per lavori di ripristino non eseguiti. La Corte, rilevando l’omessa pronuncia del Tribunale sul punto, ha accolto la pretesa nella misura di Euro 2.582,00 (già Lire 5.000.000} oltre interessi, argomentando che il c.t.u. aveva riconosciuto a credito dell’attore il suddetto importo per lavori non eseguiti dall’impresa e per lo spostamento interno del mobilio durante la esecuzione delle opere di ripristino. Il ricorrente lamenta una poco attenta disamina delle risultanze processuali. Risulta, invero, dalla relazione finale di consulenza D. redatta in occasione del ripristino dell’appartamento M. che, per espressa convenzione tra le parti, i lavori in questione non fossero eseguiti, al fine di essere parzialmente compensati con la quota di rifacimento della terrazza spettante a parte attrice. Il mancato esame di detti rilievi, peraltro sottolineati sia in primo grado che in sede di appello, costituirebbe vizio procedimentale censurabile in sede di legittimità.

4. Il M. resiste con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso principale, e propone ricorso incidentale sulla base di due motivi.

4.1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 1223 e 2056 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c.. Con riferimento alla componente di danno costituita dal “mancato uso dell’alloggio”, la sentenza di primo grado aveva proceduto alla relativa quantificazione non già rapportando il danno al concreto esborso che il M. dovette affrontare al fine del reperimento di altro alloggio (danno non solo assolutamente certo nella sua verificazione, ma anche documentato nel suo preciso ammontare), bensì facendo ricorso, a seguito dei rilievi mossi dal Condominio, al “criterio equitativo” ed individuando nei cd. “equo canone” un parametro conferente con tale criterio. Sul punto era stato interposto dal M. specifico motivo di appello incidentale (riportato in ricorso), deducendo di non comprendere perché non si fosse rimborsato quanto effettivamente sborsato. La Corte territoriale riteneva inconferenti tali censure rispetto alla determinazione equitativa effettuata. Il M. contesta tale ratio decidendi: a. in primis, difetterebbe l’imprescindibile presupposto applicativo dell’art. 1226 c.c., consistente nell’impossibilità di provare il danno nel suo preciso ammontare, avendo egli puntualmente e ritualmente documentato tutte le spese sostenute a causa dell’inabitabilità dell’immobile e dunque determinato precisamente il danno sofferto: il danno non solo sarebbe stato certo nell’an, ma altresì nel quantum, con conseguente preclusione della liquidazione equitativa. La quale, pur rappresentando in sé, e cioè nel momento in cui il giudice la effettua, un esempio tipico di discrezionalità vincolata giudiziale, non dipende affatto, quanto al suo presupposto, da una scelta discrezionale del giudice, essendo invece quel presupposto puntualmente tipizzato e specificato dal legislatore e per l’appunto dall’art. 1226 c.c. che risulterebbe nella specie patentemente violato. Afferma la Corte di Appello che il ricorso alla valutazione equitativa sarebbe stato funzionale ad una determinazione del danno in “misura astrattamente appropriata alla situazione concreta”, essendosi ritenuta “eccessiva” la spesa realmente sostenuta dal M. . Questi si chiede chi e come abbia provato nei precedenti gradi che le somme da lui corrisposte a titolo di canone erano “eccessive” in relazione all’equo canone. E soprattutto: chi e come abbia provato che in una situazione di emergenza (qual’era indubitabilmente quella in cui costui si trovò, dovendo rapidamente sloggiare dal proprio appartamento) egli avrebbe potuto trovare un immobile ad equo canone. Sarebbe una petizione di principio – disobbediente sia rispetto al canone di logicità di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), sia ed ancora una volta rispetto al dettato dell’art. 1226 c.c. (art. 360 n. 3) — affermare che il risarcimento richiesto dal M. , e corrispondente alle spese che la stessa Corte d’Appello afferma “realmente” da questi sostenute, fosse “eccessivo rispetto all’equo canone”. L’equo canone sarebbe stato nella specie assunto, dalla Corte d’Appello, come criterio di valutazione equitativa del danno. Ma ciò non era possibile, perché il danno, lungi dall’essere indeterminabile nel suo preciso ammontare, era stato invece puntualmente determinato. Nell’ambito di un giudizio di diritto come quello ricorrente nella specie, piuttosto che di equità sostitutiva ex artt. 113-114 c.p.,c. (ben altra cosa è codesta rispetto alla c.d. “equità integrativa” ex art. 1226 c.c.), il giudice non potrebbe puramente e semplicemente affermare che un risarcimento non è dovuto perché è eccessiva e cioè non corrispondente al suo criterio di equità. Potrebbe bensì affermare, e perciò doverosamente accertare e motivare, che quel danno non è provato nel suo preciso ammontare, ovvero che quel danno non è riconducibile, secondo un plausibile nesso eziologico, alla condotta dannosa. Ma la Corte d’Appello non afferma né l’una né l’altra cosa: si sarebbe limitata erroneamente a ricorrere all’equità integrativa ex art. 1226 c.c. in assoluta carenza del presupposto applicativo della stessa e cioè, in buona sostanza, avrebbe emesso un giudizio di equità sostitutiva (in punto di riduzione del risarcimento) in una causa che andava decisa secondo diritto. Non vi sarebbe dubbio – e sarebbe risultato pacifico nei gradi di merito – che la necessità per il M. di reperire un nuovo alloggio dipese dall’oramai acclarata responsabilità del Condominio in ordine alla mancata esecuzione dei lavori di ripristino ed impermeabilizzazione della terrazza sovrastante l’appartamento dello stesso M. . Vi sarebbe stato dunque un danno immediatamente e direttamente derivante dall’illecito ascrivibile al Condominio, che avrebbe dovuto essere interamente ristorato in base ai noti e pacifici principi che regolano la materia del risarcimento dei danni per responsabilità extracontrattuale. I giudici di appello non avrebbero neppure fornito adeguata motivazione (se non quella apparente dell’eccessività delle somme corrisposte dal M. ) del perché, pur in presenza di un danno provato nel suo preciso ammontare, ed immediatamente e direttamente riconducibile alla condotta dannosa (profilo questo del resto mai contestato in sede di merito) abbiano inteso discostarsi dalle risultanze processuali e adottare una liquidazione “equitativa fortemente pregiudizievole per il danneggiato.

4.2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (omessa pronuncia) in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.. Specifico motivo di impugnazione incidentale in appello era stato svolto dal M. con riferimento ad altra e distinta voce di danno, totalmente ignorata dal giudice di prime cure, nonostante esplicita domanda in tal senso, e cioè con riferimento al “danno da deprezzamento dell’immobile”. Secondo quanto dedotto a p. 8 della “comparsa di costituzione in appello con appello incidentale”: “nulla è stato riferito dal c.t.u. V. né conseguentemente in sentenza circa i danni indiretti e riflessi subiti dalla famiglia M. per la mancata fruizione e per il deprezzamento dell’immobile. In merito ci si riporta alle conclusioni di cui ai nn. 3.2, 3.3. 3.4 della comparsa conclusionale [di primo grado]”. In quella sede (p. 16 comparsa conclusionale M. in primo grado), la difesa del M. , confortata dalla consulenza di parte redatta dall’ing. De. (contenente, al punto 3, p. 3, specifica valutazione della voce di danno costituita dal “deprezzamento dell’immobile in seguito agli interventi strutturali”) deduceva testualmente quanto segue: “nulla è stato riconosciuto per il deprezzamento dell’immobile per il danno strutturale. Infatti, a causa di quanto verificatosi, sebbene il solaio dell’immobile sia stato ristrutturato, non v’è dubbio che la situazione odierna non sia la stessa di quella precedente al danno. [….] per quest’ultima valutazione (deprezzamento dell’immobile) si è precisato che in una libera contrattazione di vendita nella comparazione di due immobili dello stesso pregio, certamente quello dell’attore sebbene ristrutturato, avrebbe un valore inferiore a causa dei lavori di ristrutturazione eseguiti. Tale deprezzamento è stato determinato in L. 65.000.000, calcolando il 10% del valore dell’immobile…”. Il giudice di primo grado aveva del tutto taciuto incorrendo in una prima ed evidente omissione di pronuncia. Nonostante la Corte di Appello fosse stata chiamata, attraverso specifico motivo di gravame, a pronunciarsi su tale autonoma e distinta voce di danno, così rimediando alla omessa pronuncia del Tribunale, nulla era dato leggere in proposito nella sentenza impugnata, censurato pertanto anche sotto questo ulteriore profilo e per violazione dell’art. 112 c.p.c.. Nell’elencare i motivi di doglianza fatti valere dal M. con l’impugnazione incidentale, la Corte di appello avrebbe “dimenticato” totalmente lo specifico motivo di censura relativo al “danno da deprezzamento dell’immobile” (cfr. sentenza impugnata p. 15: “in particolare il M. lamenta: che non si era tenuto conto delle somme da lui concretamente erogate per la locazione; che la somma riconosciutagli non era stata corredata degli interessi legali progressivamente maturati; che non gli era stata riconosciuta la somma – di L. 11. 727.937 (indicata dal c.t.u. F. ) per interventi di ripristino omessi nei suo appartamento né le spese di reimmissione nel proprio appartamento; che non si era tenuto conto che il suo nucleo familiare era composto da cinque persone, disponeva di due autovetture e quindi le reali spese di locomozione erano ben superiori a quelle liquidate; che non erano stati riconosciuti danni indiretti e riflessi patiti dal suo nucleo familiare”). Né avrebbe potuto fondatamente sostenersi che con tale ultima locuzione (danni indiretti e riflessi patiti dal suo nucleo familiare”), la Corte avesse inteso riferirsi anche alla voce di danno in questione (deprezzamento dell’immobile). Il danno da deprezzamento dell’immobile, da lui ritualmente lamentato sia in primo che in secondo grado, sarebbe un danno diretto patito dal proprietario dell’immobile (e non certo, dal suo nucleo..familiare). Con la espressione sopra riportata, la Corte d’Appello non potrebbe essersi riferita alla voce di danno in questione, e dunque non a tale voce potrebbe riferirsi la conclusione attinta dai giudici di appello secondo cui il danno sarebbe sfornito di prova. La Corte d’Appello avrebbe, già nel procedere all’elencazione dei motivi di doglianza svolti dal M. e delle corrispondenti voci di danno su cui essa era chiamata a pronunciarsi, dimenticato la specifica voce in questione.

5. La pronuncia riguarda i ricorsi riuniti, essendo stati proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c).

5.1. Il primo motivo del ricorso principale é privo di pregio.

Non sussiste la lamentata violazione di legge e non è stato idoneamente prospettato il dedotto vizio motivazionale. Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di risarcimento dei danni, l’accertamento per l’applicabilità della disciplina dell’art. 1227 c.c., comma 2, che esclude il risarcimento con riguardo ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, integra un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito, e sottratta al sindacato di legittimità se assistita – come nella specie – da motivazione congrua (Cass. 5 luglio 2007 n. 15231; S.U. 28 maggio 2007 n. 12348; 14 ottobre 2004 n. 20283; 13 settembre 2004 n. 18352; 4 febbraio 2004 n. 2063).

Del pari, a norma dell’art. 1220 cod. civ., il debitore non può essere considerato in mora se ha fatto un’offerta non formale, purché tempestiva, seria e completa, e manchino, per il creditore, legittimi motivi di rifiuto; l’indagine circa la sussistenza o meno di tali elementi e riservata al giudice di merito, il cui accertamento e insindacabile in sede di legittimità, se, come nell’ipotesi, adeguatamente motivato. La Corte territoriale ha ritenuto che non fosse sufficiente la mera e generica enunciazione della disponibilità ad adempiere, essendo necessaria la specifica indicazione delle modalità e dei tempi di esecuzione della prestazione dovuta.

I ricorrenti, invece, sotto la parvenza della denuncia d’inesistenti violazioni di legge o vizi di motivazione, in realtà hanno sollecitato una rivalutazione del materiale probatorio nel senso da essi auspicato, così introducendo, nel giudizio di legittimità, un’inammissibile istanza di riesame del merito della causa. In particolare, quanto al dedotto vizio motivazionale, la censura si rivela formulata in violazione del canone di autosufficienza del ricorso per cassazione, non avendo specificato se e come siano state puntualmente rappresentate ai giudici di merito le risultanze di causa di cui si assume che sarebbe stata omessa i inadeguatamente effettuata la valutazione. Senza contare che nella trattazione del motivo non vengono neanche spiegate le ragioni che sarebbero alla base della lamentata contraddizione della motivazione.

5.2. Il secondo motivo del ricorso principale va trattato congiuntamente al primo di quello incidentale, avendo entrambi ad oggetto la determinazione del risarcimento del danno da mancata disponibilità del’immobile per il tempo necessario ai lavori di ripristino dello stesso.

5.2.1. Le censure di entrambe le parti si rivelano infondate. Ambedue muovono dalla premessa che il giudice del merito avrebbe violato l’art. 1226 c.c., perché avrebbe determinato “equitativamente” la voce di danno relativa alla mancata disponibilità dell’alloggio. In realtà, ad un’attenta lettura della sentenza impugnata, si rivela insussistente lo stesso presupposto delle censure, non dirette verso l’effettiva ratio decidendi.

5.2.2. Questa, infatti, non consiste nella determinazione giudiziale dell’ammontare del risarcimento per impossibilità della prova nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c., operante anche nella responsabilità extracontrattuale ex art. 2056 c.c.), ma in una determinazione che ha tenuto adeguatamente conto degli elementi acquisiti agli atti. Il danneggiato, infatti, ha fornito gli elementi probatori ed i dati di fatto in suo possesso, al fine della precisa quantificazione del risarcimento; il danneggiante ha dedotto che doveva ritenersi rimborsabile solo quanto dal M. “giustificatamente” pagato e non, quindi, importi manifestamente eccessivi; il Tribunale ha disposto nuovo accertamento peritale che ha quantificato il danno rapportandolo all’equo canone dovuto per un appartamento di dimensioni equivalenti a quello inabitabile. Il giudice di merito, quindi, considerando tutti detti elementi, ha ritenuto eccessiva, in relazione all’equo canone ed all’effettivo mercato delle locazioni abitative, la spesa effettivamente sostenuta dal danneggiato. Lo stesso criterio è stato adottato anche per le spese di locomozione, invocate dal danneggiato a seguito degli spostamenti dovuti all’indisponibilità dell’alloggio.

5.2.3. Ne deriva che, diversamente da come configurata dalla Corte territoriale, la determinazione di dette voci di danno non è avvenuta ex art. 1226 c.c., bensì in base agli arti 1223, 2056 e 2058, secondo comma, c.c. a seguito di congrua e corretta valutazione delle risultanze istruttorie acquisite agli atti e sulla base di una ricostruzione “per differenza” del danno o interesse da risarcire, tenendo conto del carattere “patrimoniale” del danno risarcibile. (Cass. n. 9740/2002; v. anche Cass. n. 3352/1989). Si deve, infatti, ribadire che funzione tipica del risarcimento, qualunque ne sia la forma, è di porre il patrimonio del danneggiato nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato, se il fatto dannoso non si fosse prodotto (Cass. 16.12.1988 n. 6856; Cass. 18.7.1989 n. 3352); ciò può avvenire o mediante il pagamento di una somma pari alla diminuzione di valore subita dal bene leso, ovvero – quando sia possibile – restituendo al bene stesso il valore che esso aveva precedentemente alla lesione: alla prima modalità corrisponde la tecnica del risarcimento per equivalente; alla seconda quella del risarcimento in forma specifica.

Corollario di detta funzione del risarcimento è che esso non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dallo stesso (Cass. 9.4.1980 n. 2281; Cass. 7.10.1961 n. 2047). Su tale criterio si fonda la regola della compensatio lucri cum damno, per la quale nella valutazione quantitativa del danno vanno detratti gli eventuali vantaggi che il fatto dannoso abbia procurato al danneggiato come conseguenza diretta ed immediata.

5.2.4. Pertanto, qualora la riparazione del pregiudizio subito vada oltre la ricostituzione della situazione anteriore e produca un vantaggio economico al danneggiato, il giudice deve tenerne conto, corrispondentemente riducendo la misura del risarcimento (Cass. 14 giugno 2001 n. 8062; 4 marzo 1983 n. 1636). Senza contare che, in materia di risarcimento del danno, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché in forma specifica come domandato dall’attore e la valutazione di cui all’art. 2058, secondo comma, cod. civ. è insindacabile in sede di legittimità risolvendosi in un giudizio di fatto (Cass. 17 febbraio 2004 n. 3004).

5.2.5. Sulla base di tali considerazioni (e così dovendosi intendere integrata e corretta la motivazione della sentenza impugnata, ex art. 384 c.p.c., essendo conforme a diritto il dispositivo sul punto), non si rivelano neanche configurabili le violazioni dell’art. 1226 c.c. lamentate da ambo le parti e non sussistono i vizi motivazionali rispettivamente dedotti: il danneggiato non può fondatamente invocare che non sarebbe stato tenuto conto di quanto provato e documentato circa gli effettivi esborsi, perché la quantificazione è stata motivatamente ritenuta eccessiva ed è correttamente avvenuta con riferimento ai “dati del mercato immobiliare, opportunamente portati a conoscenza del giudice” (in tal senso, proprio escludendo che in tali ipotesi si tratti di liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., v. Cass. 3327/2002; 1799/1995; 3090/1988). Da parte sua il danneggiante non può fondatamente invocare che detto danno sia stato rapportato anche all’adeguamento monetario del canone, agli oneri condominiali ed agli aumenti per locazione di immobili arredati, posto che il parametro adottato dal giudice di merito è stato quello dell’equivalenza all’alloggio resosi inabitabile e che il giudice stesso ha congruamente motivato circa la verosimiglianza della richiesta delle predette maggiorazioni da parte di un locatore medio (e, si aggiunge, senza che risultino addotte specifiche dimostrazioni – e non semplici argomentazioni – contrarie in sede di merito da parte del Condominio ricorrente).

5.3. Anche il terzo motivo del ricorso principale non merita accoglimento. Esso, infatti, si rivela inammissibile sotto ogni profilo. Non è riferibile alla sentenza impugnata, nella parte in cui deduce un’asserita nullità della sentenza di primo grado, dovendosi ribadire il principio per cui col ricorso in cassazione si impugna solo la sentenza di appello, la quale costituisce l’unico oggetto del giudizio di legittimità (Cass. n. 9993/03; n. 8265/02; n. 8852/01; n. 3986/1999; n. 5083/1998) e non anche la sentenza di primo grado, avverso la quale ultima possono sollevarsi censure solo nella misura in cui le relative argomentazioni siano state fatte proprie dai Giudici di secondo grado.

5.3.1. Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, come rispetto a quello della diversa decorrenza che avrebbe dovuto riconoscersi agli interessi sulle singoli componenti, concorrenti a determinare il risarcimento, la censura risulta formulata in violazione del canone di autosufficienza del ricorso per cassazione. Non viene, infatti, specificato nel ricorso per cassazione se ed in quali termini dette questioni siano state prospettate in appello e specialmente se abbiano formato oggetto di specifico motivo di gravame.

5.3.2. Si deve, al riguardo, ribadire che, in tema di ricorso per cassazione, gli elementi dedotti con il ricorso, che non siano rilevabili d’ufficio, assumono rilievo in quanto siano stati ritualmente acquisiti nel dibattito processuale nella loro materiale consistenza, nella loro pregressa deduzione e nella loro processuale rilevanza, quale potenzialità probatoria che consenta di giungere ad una diversa soluzione, ed in sede di legittimità siano rievocati in modo autosufficiente (Cass. n. 1707/2009).

5.3.3. Invero, sia rispetto all’assunta violazione dell’art. 156 c.p.c., sia in relazione all’addotta erronea interpretazione degli artt. 1224 e 1282 c.p.c., il condominio ricorrente propone in sede di legittimità questioni che non risultano specificamente trattate nella sentenza impugnata, sicché aveva l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (tra le tante, v. Cass. n. 22540/2006; 12992/2010, in motivazione).

5.3.4. Senza contare, peraltro, che il motivo non si rivela adeguatamente specifico, né compiutamente riferibile alla sentenza impugnata, perché non da conto dell’effettiva decisione resa dalla Corte territoriale sui punti oggetto dell’odierna censura, non indicando e non contestando specificamente le ragioni che hanno indotto i giudici di secondo grado a confermare la determinazione del risarcimento in un importo globale, non scindibile quindi in singole componenti, aventi diverse e rispettive decorrenze, data la mancata autonomia di dette componenti. Invero, quando – come nella specie – è denunziata violazione e falsa applicazione della legge e non risultano adeguatamente indicate anche le argomentazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le medesime o con l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione. Non è infatti sufficiente un’affermazione apodittica (nella specie, la semplice e generica invocazione di una diversa decorrenza degli interessi su determinate voci di danno, senza alcun idoneo aggancio al contenuto dell’impugnata sentenza) e non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata (Cass. 31 maggio 2006 n. 12984; 16 gennaio 2007 n. 828; nonché Cass. 18 aprile 2007 n. 9245 e 16 luglio 2007 n. 15768, in motivazione). Proprio con riguardo agli accessori (in quelle ipotesi, alla rivalutazione monetaria, con affermazioni riportabili anche agli interessi) dei crediti risarcitori ed ai fini dell’ammissibilità dei motivi di ricorso, questa Corte ha affermato che, poiché l’interesse processuale all’impugnazione deve essere concreto e non teorico e va provato dal ricorrente, questi deve necessariamente indicare quali accessori avrebbero dovuto essere correttamente riconosciuti, solo così potendo dimostrare che quelli liquidati dal giudice siano quantitativamente inferiori e, quindi, far risaltare il suo interesse alla censura (argomento desumibile da Cass. n. 376 del 2005 e n. 14115 del 2011, in motivazione).

5.4. Il quarto motivo del ricorso principale è manifestamente inammissibile, dovendosi ribadire che la decisione del giudice di secondo grado che non esamini e non decida un motivo di censura della sentenza del giudice di primo grado è impugnabile per cassazione – non già per violazione di legge e omessa o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia – come nella specie avvenuto – e neppure per motivazione per relationem resa in modo difforme da quello consentito, bensì per omessa pronuncia su un motivo di gravame. Ne consegue, quindi, che, se il vizio è denunciato ai sensi dell’art. 360 n. 3 o n. 5 cod. proc. civ. anziché dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. in relazione all’art. 112 dello stesso codice di rito – trattandosi di denuncia di violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato – il mezzo si rivela inammissibile Cass. n. 12952/07; v. anche Cass. 26598 e 25825/09; 24856, 3190 e 1701/06; 9707/03; 9159/02).

5.5. Il secondo motivo del ricorso incidentale del M. è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione. Esso lamenta l’omessa pronuncia su un asserito specifico motivo di appello, ma nel riferirlo, si limita a riportare quanto dedotto a p. 8 della “comparsa di costituzione con appello incidentale”, in cui si attribuisce al c.t.u. V. una certa omissione circa i danni da deprezzamento dell’immobile e ci si riporta ad alcune conclusioni di cui alla comparsa conclusionale di primo grado (poi riprodotte per estratto nel ricorso per cassazione), ma senza precisare né quale sia la statuizione della sentenza di primo grado impugnata, né quali siano gli esatti termini del mezzo proposto al giudice di appello.

5.5.1. Si deve, invece, ribadire che non rispetta il principio di autosufficienza il ricorso per cassazione che, denunciando l’omessa pronuncia da parte del giudice di secondo grado, sulle doglianze mosse in appello per relationem alle ragioni esposte davanti al Tribunale, non espone quelle specifiche circostanze di merito che avrebbero portato all’accoglimento del gravame, e così impedisce al giudice di legittimità una completa cognizione dell’oggetto, sul quale, peraltro, ove non fossero necessari ulteriori accertamenti, potrebbe decidere nel merito, pur trattandosi di error in procedendo; né al principio di autosufficienza può ottemperarsi per relationem, mediante il richiamo ad altri atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi di giudizio (Cass. n. 26693/2006; v. anche Cass. n. 5087/2010, secondo cui a parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni).

6. Vanno, pertanto, respinti i ricorsi riuniti. Le spese del presente giudizio possono essere compensate, stante la reciproca soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi riuniti. Compensa le spese.

 

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