Falso testamentario tra norme penali e norme civili Cassazione, sez. V, 14 giugno 2012, n. 23613

 

FALSO TESTAMENTARIO TRA NORME PENALI E NORME CIVILI

Cassazione, sez. V, 14 giugno 2012, n. 23613

 

L’art. 491 c.p. configura una mera circostanza aggravante del reato descritto nell’art. 485 c.p., al quale deve dunque guardarsi per definire il contenuto della fattispecie punita. Ed in proposito è agevole rilevare come una delle condotte considerate da quest’ultima disposizione sia per l’appunto anche quella di chi formi integralmente una scrittura privata falsa e cioè proprio quella contestata all’imputata. Né dal testo dell’art. 491 c.p. è possibile ricavare alcuna indicazione idonea a far presumere che il legislatore abbia voluto ridurre la portata precettiva della norma incriminatrice a solo alcune delle condotte da quest’ultima prese in considerazione e ciò a tacere dell’irrazionalità che una scelta di tal genere rivelerebbe.

Atteso che l’art. 485 c.p. presenta un autonomo e definito contenuto precettivo – che non mutua certamente dalla norma civilistica implicitamente richiamata – è allora evidente che il senso della disposizione aggravante è quello di applicare il più grave trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 476 c.p. qualora oggetto di contraffazione sia una scrittura che presenti apparentemente i requisiti formali di un testamento olografo (e cioè sembri integralmente redatto, datato e sottoscritto dal testatore) e che venga utilizzata come tale, atteso che l’insidiosità di una tale condotta è pari (se non addirittura maggiore) a quella di chi aggiunga ad un testamento genuino parti inedite ovvero alteri le disposizioni autografe del testatore.

 

 

Cassazione, sez. V, 14 giugno 2012, n. 23613

(Pres. Marasca – Re. Pistorelli)

 

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza dell’8 marzo 2001 la Corte d’Appello di Salerno confermava la condanna alla pena di giustizia di P.L. per il reato di cui agli artt. 485 e 491 c.p. in relazione alla falsificazione di alcune schede testamentarie, apparentemente a firma della madre dell’imputata, esibite al notaio depositario di un precedente testamento della stessa all’atto della sua pubblicazione e con le quali, in un caso, la defunta dichiarava di confermare i contenuti del testamento medesimo – con il quale la P. era stata beneficiata a scapito della sorella della quota disponibile dell’asse ereditario – e nell’altro manifestava l’intenzione di devolvere ogni suo bene alla figlia.

2. Avverso la sentenza propone ricorso il difensore dell’imputata articolando quattro motivi di ricorso attraverso i quali ripropone questioni già disattese dai giudici d’appello.

2.1 Con il primo motivo vengono dedotti la violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizi motivazionali del provvedimento impugnato in relazione alla riconosciuta valenza probatoria delle conclusioni del consulente tecnico della parte civile e alla contestuale svalutazione di quelle del consulente del pubblico ministero, nonché alla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rese dal teste A. .

In particolare il ricorrente lamenta, per un verso, che la decisiva rilevanza attribuita agli accertamenti grafologici dalla motivazione della sentenza denuncia in realtà l’insufficienza e contraddittorietà dell’apparato giustificativo posto a sostegno dell’affermazione di responsabilità, atteso che tali accertamenti comportano il dispiegamento di una scienza non esatta e, dunque, quando, come nel caso di specie, la loro valutazione ad opera di esperti diversi riveli esiti contrastanti, non potrebbero essere ritenuti sufficienti a fondare la prova di colpevolezza; per l’altro che l’attribuzione all’imputata dell’autoria delle scritture oggetto del reato in contestazione effettuata dal consulente di parte sarebbe stata acriticamente recepita dalla Corte territoriale, nonostante l’incertezza in proposito dimostrata sul punto da quello della pubblica accusa avrebbe imposto una diversa valutazione e nonostante il senso degli scritti sospettati di falsità – in ultima analisi confermativo dell’originario testamento la cui genuinità non è in dubbio – evidenzierebbe l’assenza di alcun interesse in capo all’imputata al loro confezionamento, tanto più che la motivazione sul punto resa dai giudici d’appello sarebbe viziata da un vero e proprio travisamento della prova, atteso che i medesimi avrebbero concluso per la maggior affidabilità del giudizio espresso dal primo consulente sulla base dell’errato – in quanto contrastante con le risultanze processuali – presupposto che questi abbia potuto disporre per il confronto di una base di saggi della grafia dell’imputata qualitativamente e quantitativamente superiore a quella utilizzata dall’altro consulente. Non di meno ingiustificata sarebbe anche l’affermata inattendibilità della teste A. , che ha affermato di aver visto la defunta E. vergare effettivamente le scritture sospettate di falsità, atteso che in ultima istanza tale giudizio ancora una volta si fonderebbe esclusivamente sul presunto contrasto di tale dichiarazione con gli esiti della consulenza grafologica di parte e non dimostrerebbe di aver tenuto conto del fatto – che invece il ricorrente ritiene decisivo in proposito – che la stessa a sua volta non vantava alcun interesse a favorire la P. ai danni della sorella.

2.2 Con il secondo motivo si lamentano violazione della legge processuale e carenze motivazionali in relazione al rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzata con l’atto d’appello e ad oggetto l’assunzione del consulente grafologico della difesa e la disposizione di una perizia grafologica sull’attribuibilità all’imputata della grafia delle due schede testamentarie.

2.3 Con il terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione delle norme penali sul falso testamentario e di quelle civili presupposte dalle prime, nonché vizi motivazionali del provvedimento impugnato sull’identica questione sollevata con i motivi d’appello. In proposito viene contestata la considerazione delle scritture oggetto del reato come dei testamenti olografi e la conseguente qualificazione della loro integrale falsificazione anche ai sensi dell’art. 491 c.p. piuttosto che dei solo art. 485 del medesimo codice. In particolare il ricorrente osserva che ai sensi dell’art. 602 c.c. perché un documento possa essere classificato come testamento non deve guardarsi tanto al suo contenuto, come ritenuto dalla Corte territoriale, quanto piuttosto alla sua effettiva provenienza dal de cuius. Conseguentemente un atto, pur apparentemente contenente le ultime volontà di quest’ultimo, se integralmente e clandestinamente formato da un soggetto terzo non può essere qualificato come “testamento”, nel senso accolto dalla norma penale contestata, ma costituisce una mera scrittura privata falsa. Da ciò discende per il ricorrente che il reato eventualmente attribuibile all’imputata sia al più quello previsto dal solo art. 485 c.p., perseguibile esclusivamente a querela della persona offesa e improcedibile nel caso di specie, atteso che la stessa è intervenuta tardivamente (essendo stata presentata il 26 luglio 2006) in quanto la sorella dell’imputata ha avuto contezza dell’utilizzo delle scritture false all’atto della loro pubblicazione da parte del notaio il 26 febbraio del 2006.

2.4 Con il quarto motivo il ricorrente, infine, lamenta violazione della legge penale e carenze motivazionali della sentenza in merito al rigetto della richiesta di ritenere le pur concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante di cui all’art. 491 c.p..

Considerato in diritto

1. Il ricorso è parzialmente fondato e merita dunque accoglimento nei limiti di seguito esposti.

2. Pregiudiziale è peraltro l’esame del terzo motivo di ricorso che è invece manifestamente infondato. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la giurisprudenza di legittimità non dubita affatto della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 491 c.p. anche nel caso di contraffazione integrale di un testamento olografo e cioè di formazione di un atto totalmente falso che assuma forma e contenuto apparenti di atto dispositivo di ultima volontà di taluno (Sez. 5 n. 37238 del 9 luglio 2010, Chieregato, rv 248647; Sez. 5 n. 247/96 del 30 novembre 1995, Geraci, rv 203527; Sez. 2 n. 2826/84 del 24 ottobre 1983, Scalone, rv 163365). In proposito, infatti, il ricorrente non considera come la norma richiamata configuri una mera circostanza aggravante del reato descritto nell’art. 485 c.p., al quale deve dunque guardarsi per definire il contenuto della fattispecie punita. Ed in proposito è agevole rilevare come una delle condotte considerate da quest’ultima disposizione sia per l’appunto anche quella di chi formi integralmente una scrittura privata falsa e cioè proprio quella contestata all’imputata. Né dal testo dell’art. 491 c.p. è possibile ricavare alcuna indicazione idonea a far presumere che il legislatore abbia voluto ridurre la portata precettiva della norma incriminatrice a solo alcune delle condotte da quest’ultima prese in considerazione e ciò a tacere dell’irrazionalità che una scelta di tal genere rivelerebbe.

In realtà non v’è dubbio che la nozione di testamento olografo richiamata dalla norma aggravante o dall’art. 493 bis c.p. debba essere ricavata dall’art. 602 c.c., ma il significato del rinvio deve essere ricostruito alla luce del contesto normativo in cui la nozione viene richiamata. Atteso che, come ricordato, l’art. 485 c.p. presenta un autonomo e definito contenuto precettivo – che non mutua certamente dalla norma civilistica implicitamente richiamata – è allora evidente che il senso della disposizione aggravante è quello di applicare il più grave trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 476 c.p. qualora oggetto di contraffazione sia una scrittura che presenti apparentemente i requisiti formali di un testamento olografo (e cioè sembri integralmente redatto, datato e sottoscritto dal testatore) e che venga utilizzata come tale, atteso che l’insidiosità di una tale condotta è pari (se non addirittura maggiore) a quella di chi aggiunga ad un testamento genuino parti inedite ovvero alteri le disposizioni autografe del testatore.

3. È invece fondato il primo motivo di ricorso, il cui accoglimento assorbe gli ulteriori e residui motivi.

La motivazione del provvedimento impugnato, infatti, muove dal convergente giudizio espresso dai consulenti grafologici sulla non attribuibilità alla defunta della grafia delle due schede testamentarie per poi affidarsi esclusivamente alle conclusioni rilasciate da quello della parte civile per identificare nell’imputata l’autrice delle medesime, giudizio che invece l’altro consulente aveva ritenuto di non poter formulare, riscontrando solo alcune similarità tra le grafie poste a confronto. E la Corte territoriale ancora la sua valutazione sostanzialmente al fatto che il primo consulente avrebbe identificato,

accanto a similarità calligrafiche (individuate anche dall’altro consulente, ma come detto non giudicate risolutive), anche coincidenze grafonomiche in grado di evidenziare caratteristiche distintive delle due scritture tali da ricondurne la paternità alla stessa persona e cioè alla P. in quanto certa autrice dei saggi di confronto, nonché al rilievo secondo cui quelli esaminati dallo stesso consulente sarebbero stati in numero maggiore.

Tale motivazione non può ritenersi adeguata sotto diversi profili. Innanzi tutto è contraddittorio e manifestamente illogico l’aver preferito il responso del consulente di parte civile dopo aver affermato che questi ha svolto il suo accertamento su un numero di saggi grafici maggiore pur riscontrando, dal punto di vista calligrafico, le medesime somiglianze identificate da quello del pubblico ministero, giacché non viene spiegato per quale ragione il più ampio orizzonte d’indagine sarebbe effettivamente presupposto della ritenuta superiore affidabilità della prima consulenza, ma soprattutto se nella seconda le coincidenze grafonomiche non siano state invece rilevate ovvero siano state ritenute non significative o addirittura inesistenti. Sulla base del volume dell’informazione riversata nella sentenza non appare in definitiva coerente il risultato probatorio ricavato dai giudici d’appello, tanto più che gli stessi non hanno spiegato per quali ragioni si sarebbe determinata tale disomogeneità sull’oggetto dell’indagine dei due consulenti (invero contestata dalla difesa) e perché non è stato ritenuto necessario sanarla. Ancora la Corte territoriale non spiega se il consulente del pubblico ministero è stato ritenuto non attendibile, atteso che il provvedimento impugnato si limita ad accantonare le sue conclusioni, sancendone apoditticamente la sostanziale irrilevanza.

In realtà la mancanza di tali spiegazioni rende priva di adeguata giustificazione l’elezione della prima consulenza a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputata. Ciò non comporta – come invece adombrato dal Procuratore Generale – l’inidoneità assoluta dell’accertamento grafologico a fondare il giudizio di attribuibilità dell’atto falso ad un determinato soggetto, ma più semplicemente che, tenuto conto della natura di tale accertamento – fortemente condizionato dalla valutazione soggettiva di colui che vi procede, piuttosto che da leggi scientifiche universali – il giudice è tenuto a fornire autonoma, accurata e rigorosa giustificazione delle ragioni per cui, in presenza di pareri discordanti, una valutazione sia preferibile a quella di segno difforme, che nel caso di specie, come evidenziato, difetta ovvero appare logicamente viziata.

Va altresì rilevato che mentre le altre prove valutate dalla Corte territoriale logicamente confermano la concorde opinione dei due consulenti circa l’impossibilità di attribuire alla defunta l’autoria delle schede testamentarie, la loro ponderazione non è in grado di colmare le illustrate lacune del tessuto argomentativo del provvedimento impugnato.

Ed in proposito va osservato infine che i giudici d’appello sembrano aver in realtà tratto una ulteriore conferma alle conclusioni assunte dal consulente della parte civile dal fatto che l’imputata, in quanto beneficiaria delle disposizioni testamentarie in contestazione, vantava essa sola un interesse al loro confezionamento. Ma anche in questo caso la motivazione appare censurabile sul piano logico, in quanto la stessa Corte territoriale ammette che i falsi testamentari non avrebbero sostanzialmente alterato il contenuto della successione ereditaria così come definita nell’ultimo testamento originale depositato dalla defunta presso il notaio e dunque non si comprende in cosa sarebbe consistito l’evocato vantaggio nella misura in cui la sua enucleazione dovrebbe concorrere a formare la prova della responsabilità dell’imputata.

La sentenza deve dunque essere annullata con rinvio per nuovo esame dei punti individuati in precedenza alla Corte d’Appello di Napoli, la quale si atterrà ai principi affermati.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli per nuovo esame.

 

 

 

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