MINORENNE COSTRETTA A CHIEDERE L’ELEMOSINA: MALTRATTAMENTI O RIDUZIONE IN SERVITÙ?
Cassazione, sez. V, 28 settembre 2012, n. 37638
- Commette il reato di riduzione in schiavitù colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto ridotto in schiavitù o in condizione analoga, senza che la sua mozione culturale o di costume escluda l’elemento psicologico del reato; e, sotto un diverso profilo, che in tema di riduzione e mantenimento in servitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambini in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuativa e costretti all’accattonaggio, non è Invocabile da parte degli autori delle condotte la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto, per richiamo alle consuetudini delle popolazioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, atteso che la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 disp. prel. c.c..
- Più specificamente, in ordine alla prospettata possibilità di qualificare la condotta del ricorrente ai sensi dell’art. 572, c.p., anche in questo caso le osservazioni difensive, disattese dalla corte di assise di appello, non possono condividersi.
- Ed invero le condotte legalmente predeterminate che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ed implicano per loro natura il maltrattamento del soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi, in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in, che può, invece, ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali
Cassazione, sez. V Penale, 28 settembre 2012, n. 37638
(Pres. Teresi – Rel. Guardiano)
Ritenuto in fatto
Con sentenza pronunciata in data 11.2.2009 la corte di assise di Cosenza condannava L.V. alla pena di anni otto mesi sei di reclusione, per i reati di cui agli artt. 110, 600, c.p. (capo a); 110, 61, n. 2, 572, c.p. (capo b), commessi in danno della minore A. F., unificati sotto il vincolo della continuazione, ritenuta, per il capo a), la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 600 sexies, co. 2, c.p. e con la concessione in suo favore delle circostanze attenuanti genetiche, oltre al pagamento delle spese processuali ed all’applicazione nei suoi confronti delle pene accessorie di cui agli artt. 600 septies, cpv. e 32, co. 3, c.p., dichiarando, infine, il L. interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.
Con sentenza del 15.3.2011, la corte di assise di appello di Catanzaro riformava parzialmente la sentenza della corte di assise di Cosenza, in quanto, da un lato riteneva la condotta di cui al capo b) assorbita nel delitto di cui al capo a), dall’altro, valutando le circostanze attenuanti generiche già riconosciute dal giudice di primo grado prevalenti sulla circostanza aggravante di cui all’art. 600 sexies, co. 2, c.p., riduceva ulteriormente l’entità del trattamento sanzionatorio, rideterminando la pena inflitta al L. in anni sei di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
Ha proposto ricorso l’imputato a mezzo del suo difensore eccependo la erronea applicazione della legge penale, in quanto i risultati cui è pervenuta l’istruttoria dibattimentale non consentirebbero di ricondurre la condotta posta in essere dall’imputato al paradigma normativo di cui all’art. 660, c.p., di cui difetterebbero gli elementi costitutivi, sia sotto il profilo dell’esercizio da parte del L. di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà nei confronti della minore, sia sotto il profilo della riduzione e del mantenimento della A. F. in uno stato di soggezione continuativa, costringendola all’accattonaggio. Ciò in quanto l’unica rilevante fonte di accusa a carico del L. , la suddetta A. F., deve ritenersi inattendibile, avendo più volte ritrattato le sue originarie accuse, da ultimo nella sua escussione testimoniale avvenuta in videoconferenza per rogatoria internazionale, mentre gli altri testi, le cui dichiarazioni sono state poste a fondamento dell’impianto accusatorio, si sono basati sul racconto della minore e, quindi, in quanto viziate dalla inattendibilità della fonte diretta di conoscenza, non possono considerarsi a loro volta attendibili.
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, giusto il disposto dell’art. 606, co. 3, c.p.p..
Come è noto la novella codicistica introdotta dall’art. 8, L. 20 febbraio 2006, n. 46, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane un giudizio di legittimità (cfr. Cass., sez. IV, 28.9.2007, n. 35683, Servidei, rv. 237652), in cui le questioni proposte dal ricorrente non possono trovare ingresso.
Si tratta, infatti, di censure che hanno costituito argomenti già sollevati innanzi alla corte di assise di appello di Catanzaro e che sono stati disattesi da quest’ultima con motivazione approfondita ed immune da vizi o da evidenti errori di applicazione delle regole della logica ovvero da incongruenze che vanifichino o rendano manifestamente incongrua la motivazione adottata, risolvendosi, le censure in questione, in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preclusa in sede di giudizio di cassazione, pur dopo la novella codicistica introdotta dall’art. 8, L. 20 febbraio 2006, n. 46 (cfr. Cass., sez. I, 16.11.-28.12.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.-3.11.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass., sez. III, 27.9.-9.11.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).
Ed invero la corte territoriale, richiamando integralmente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di primo grado, ha evidenziato come la minore di nazionalità rumena A. F., in un lungo arco di tempo antecedente al 23.12.2004, sia stata sistematicamente e continuativamente costretta alla pratica umiliante dell’elemosina, lungo il corso (OMISSIS) e nelle immediate vicinanze, finalizzata alla raccolta di somme di denaro, dalla stessa minore consegnate a fine giornata ai genitori, secondo gli ordini da essi stabiliti, in forza dello stato di soggezione permanente in cui si trovava, essendo obbligata a dedicarsi all’accattonaggio dalla mattina alla sera, dietro la minaccia e l’uso materiale della violenza nei suoi confronti da parte dell’attuale ricorrente, il quale, da un lato, abusava della posizione di potere che rivestiva sulla Fiorentina in quanto convivente della madre L.N. dall’altro approfittava della condizione di evidente inferiorità, fisica e psichica, della persona offesa, che, all’epoca dei fatti aveva appena dieci anni (cfr. pag. 5 dell’impugnata sentenza di secondo grado). A tale conclusione la corte territoriale giungeva, dopo avere valutato positivamente le deposizioni dei numerosi testi escussi, con particolare riferimento a quelle di suor N.L. , suor A. e della neuropsichiatra infantile, Dott.ssa M.P..M. , destinatane delle confidenze della piccola A.F., una volta sottratta quest’ultima alla famiglia di origine.
La corte di assise di appello di Catanzaro condivideva, peraltro, il giudizio della corte di assise di Cosenza sulla mancanza di genuinità della ritrattazione effettuata dalla A.F., sentita nel corso dell’istruttoria dibattimentale in videoconferenza dalla XXXXXXX, le cui dichiarazioni rese nella immediatezza del suo ricovero presso una “casa famiglia” di Cosenza, dovevano, di conseguenza, secondo i giudici di secondo grado, ritenersi pienamente attendibili nel ricostruire lo stato permanente di asservimento e di sfruttamento in cui era stata ridotta dal L. , che, a forza di violenze, consistenti in reiterate percosse, e minacce, le aveva imposto di praticare l’accattonaggio per le strade di Cosenza (cfr. pag. 6 dell’impugnata sentenza di secondo grado).
Ugualmente condivisibile ed argomentato è il percorso logico-giuridico seguito dalla corte di assise di appello nel ricondurre la condotta del L. al paradigma normativo di cui all’art. 600, c.p., avendo i giudici di secondo grado correttamente evidenziato come la persona offesa sia stata ridotta a una condizione del tutto assimilabile alla servitù e sottoposta a doveri di obbedienza, mediante l’impiego di maltrattamenti, l’abuso di autorità e l’approfittamento di una situazione di inferiorità, fisica e psichica.
Al riguardo si osserva che la previsione di cui all’art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (cfr. Cassazione penale, sez. V, 15.12.2005, n. 4012, rv. 233600; Cass., sez. III, 27.5.2010, n. 24269, K., rv. 247704).
Quest’ultima fattispecie configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa finalizzata a costringere la vittima a svolgere date prestazioni, può essere ottenuto dall’agente alternativamente o congiuntamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero attraverso l’approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità ovvero ancora mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. Ne deriva che, perché sussista la costrizione ad una delle condotte specificamente previste dall’art. 600, co. 1, c.p., nei confronti di un soggetto che si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica – in tutta evidenza connaturale nella condizione di una minorenne di appena dieci anni di età come la A.F., rispetto ad un uomo adulto come il L. ovvero in una situazione di necessità, è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore, laddove l’uso della violenza p della minaccia, dell’inganno o dell’abuso di autorità, può accompagnarsi o meno al suddetto approfittamento, di cui, anzi, come nel caso in esame, rappresenta il sintomo più evidente, mentre assume il connotato di modalità necessaria della condotta finalizzata alla riduzione o al mantenimento dello stato di soggezione, solo nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità. Né appare fondato il rilievo difensivo, secondo il quale, in considerazione delle millenarie tradizioni culturali dei popoli di etnia rom, cui appartengono i protagonisti di questa triste vicenda, per le quali l’accattonaggio assume il valore di un vero e proprio sistema di vita, la condotta del ricorrente andrebbe ricondotta al paradigma normativo di cui all’art. 572, c.p..
In relazione a questo delicato tema, va, innanzitutto, chiarito che la giurisprudenza di legittimità da tempo ha escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accattonaggio.
È stato così affermato che commette il reato di riduzione in schiavitù colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto ridotto in schiavitù o in condizione analoga, senza che la sua mozione culturale o di costume escluda l’elemento psicologico del reato (cfr. Cass., sez. V, 15.4.2010, n. 18072, S. e altro, ry. 247149); e, sotto un diverso profilo, che in tema di riduzione e mantenimento in servitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bambini in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuativa e costretti all’accattonaggio, non è Invocabile da parte degli autori delle condotte la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto, per richiamo alle consuetudini delle popolazioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, atteso che la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 disp. prel. c.c. (Cass., sez. III, 26.10.2006, n. 2841, D.).
Più specificamente, in ordine alla prospettata possibilità di qualificare la condotta del ricorrente ai sensi dell’art. 572, c.p., anche in questo caso le osservazioni difensive, disattese dalla corte di assise di appello, non possono condividersi.
Ed invero le condotte legalmente predeterminate che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ed implicano per loro natura il maltrattamento del soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi, in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia (cfr. Cass., sez. VI, 12.12.2006, n. 1090, L.N.), che può, invece, ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali (cfr. Cass., sez. V, 17.9.2008, n. 44516, V., rv. 242208).
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse di L.V. va, dunque, dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 615, co. 2, c.p.p., con condanna del ricorrente, giusto il disposto dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, in favore della cassa delle ammende, di una somma a titolo di sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in Euro 1000,00, tenuto conto della evidente inammissibilità del ricorso, circostanza facilmente evitabile dal ricorrente che, quindi, non può ritenersi immune da colpa nella determinazione della suddetta inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti il rito.