5.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata.
Ad avviso dell’esponente la legge delega, nell’indicare che la mediazione non avrebbe dovuto precludere l’accesso alla giustizia, intendeva far riferimento non alla possibilità di adire il giudice dopo la mediazione, «cosa scontata e ovvia», bensì alla necessità che essa non condizionasse il diritto di azione e, quindi, non fosse costruita come condizione di procedibilità. Si osserva come sia circostanza del tutto evidente che, dopo il procedimento di mediazione, la parte possa adire il giudice, poiché sarebbe impensabile che nell’ordinamento, dopo una condizione di procedibilità, non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale.
Né, in senso contrario, potrebbe obiettarsi che il problema non si pone in considerazione della brevità del termine di quattro mesi, cosicché la condizione di procedibilità sarebbe compensata dal termine breve fissato nell’art. 6 del d.lgs. n. 28 del 2010; il termine di quattro mesi era già stato fissato nella lettera q) del comma 3, dell’art. 60 della legge delega, la quale al tempo stesso richiedeva che la mediazione fosse tale da non precludere l’accesso alla giustizia.
Per quanto concerne l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’AIAF osserva come l’art. 24 Cost. non possa dirsi rispettato, in quanto la figura del mediatore non è stata conformata in modo da garantire alle parti una adeguata informazione.
6.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, è intervenuto nel presente giudizio di costituzionalità il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, interveniente ad adiuvandum nel giudizio a quo, il quale nel ribadire e far proprie le argomentazioni formulate dal TAR rimettente, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.
7.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Unione Nazionale delle Camere Civili la quale, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle del TAR, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.
8.— Con atto depositato in data 17 gennaio 2012, si sono costituiti nel presente giudizio il Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate.
I detti ministri rilevano come la mediazione obbligatoria sia prevista e ammessa dalla direttiva comunitaria, alla quale dà attuazione il d.lgs. n. 28 del 2010 in forza della delega di cui all’art. 60 della legge n. 69 del 2009, norma che richiama espressamente tale normativa comunitaria; deve, pertanto, escludersi che il legislatore sia incorso nel denunciato vizio di eccesso di delega.
A tal fine è evocata la sentenza n. 276 del 2000 in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro.
In detta occasione la Corte costituzionale affermò l’insussistenza del vizio di eccesso di delega, benché la legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), non prevedesse l’obbligatorietà della conciliazione. La Corte costituzionale affermò, altresì, l’assenza di contrasto con l’art. 24 Cost. in virtù del principio per cui «la tutela del diritto di azione non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti». In quel caso, osservano i resistenti nel giudizio a quo, la Corte individuò tali «interessi generali» sia nell’evitare che l’incremento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provocasse un sovraccarico dell’apparato giudiziario, sia nel favorire «la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quelle conseguite attraverso il processo».
Ciò posto, la difesa dello Stato ritiene che «gli interessi generali» devono ritenersi perseguiti anche dalla norma in esame, specialmente con riferimento al secondo di detti «interessi», ove si consideri che l’elemento che caratterizza la mediazione è dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti e ragioni.
Anche per quanto concerne la violazione dell’art. 24 Cost., l’Avvocatura osserva come detta censura sveli un approccio non corretto all’istituto in esame.
La mediazione ed il processo ordinario di cognizione, ad avviso dell’esponente, si muovono su piani completamente diversi che non interferiscono tra loro (se non sotto il profilo della disciplina delle spese giudiziali e degli argomenti di prova che il giudice può desumere dalla mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione) ed è errato confondere il piano del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost. (così come dal diritto sovranazionale), con il piano della mediazione che non è «rinuncia alla giurisdizione», ma semplicemente un modo attraverso il quale le parti, in presenza di una lite insorta o che sta per insorgere, risolvono la stessa cercando un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi. Ne consegue che imporre il tentativo di conciliazione non significa né rinunciare alla giurisdizione, né ostacolarla: le parti non sono tenute ad accordarsi, mentre i tempi contenuti entro i quali il tentativo di conciliazione deve svolgersi non possono pacificamente rappresentare un ostacolo alla giurisdizione.
Quanto al timore che i diritti «siano definitivamente conformati», l’Avvocatura precisa che il mediatore, sentite le diverse prospettazioni del conflitto, ha il compito di avviare il dialogo che la conflittualità può avere impedito e ciò allo scopo di aiutare a trovare un accordo che non costituisce accertamento della verità, ma individuazione di un punto di equilibrio soddisfacente per entrambe le parti.
La circostanza, poi, che l’accordo sia anche titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale non può indurre a concludere che detto accordo non possa essere equiparato, come si è ora fatto, a qualsiasi altro contratto o negozio. L’accordo è titolo esecutivo così come lo sono la cambiale, l’assegno bancario, gli altri titoli stragiudiziali che non presuppongono necessariamente un accertamento di verità.
Quanto alla questione di legittimità costituzionale che attiene all’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’Avvocatura osserva, in via preliminare, che la censura deve ritenersi superata per effetto dell’entrata in vigore del decreto del Ministro della giustizia 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante modifica al decreto del Ministro della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché sull’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010), il quale ha modificato il decreto n. 180 del 2010, per cui gli atti devono essere rimessi al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale.
In ogni caso, l’Avvocatura afferma che se anche non fosse stato introdotto il correttivo citato la censura sarebbe comunque infondata. Premesso che la norma denunciata [recte: art. 18 del d.m. n. 180 del 2010] prevede per il mediatore «un percorso formativo non inferiore a cinquanta ore» e un percorso di aggiornamento «non inferiore a diciotto ore», modulando l’iter formativo in modo da assicurare «elevati livelli di formazione», si osserva come l’accordo al quale mira la mediazione sia una sistemazione negoziale, che può anche avere la veste di una transazione, con la quale le parti dettano una regola per disciplinare il loro rapporto e con la quale superano il conflitto a prescindere dal riconoscimento di torti e ragioni.
Al mediatore, quindi, non sarebbe richiesto di pronunciarsi sulla fondatezza di una pretesa in forza di una norma da applicare; costui potrà formulare una proposta, ma saranno, poi, le parti a realizzare l’atto dispositivo espressione della loro autonomia negoziale. Al mediatore non sarebbe richiesta necessariamente una specifica preparazione tecnico-giuridica, così come è lasciata alla libera determinazione delle parti la stipulazione di contratti in materia di diritti disponibili, per la cui conclusione non è richiesta alcuna assistenza tecnica.
Ad avviso dell’Avvocatura, infine, «professionalità dell’organismo» (efficiente organizzazione e servizio) e «competenza del mediatore» sono aspetti del tutto diversi che non possono essere confusi, come invece sembra fare il rimettente.
9.— Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile; nonché questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010.
Con provvedimento del 4 ottobre 2012 la discussione del presente giudizio, già prevista per la camera di consiglio del 24 ottobre 2012, è stata anticipata all’udienza del 23 ottobre 2012.
In punto di fatto il rimettente espone di essere investito di una controversia in tema di servitù prediali.
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver rilevato la mancata instaurazione del procedimento di mediazione e dopo aver analiticamente riportato le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dall’attrice, solleva il dubbio di costituzionalità nei termini di seguito indicati.
Per quanto attiene alla questione dedotta con riferimento all’art. 2653, cod. civ., il rimettente osserva che le domande giudiziali concernenti i diritti reali possono essere trascritte, ai sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ. La sentenza pronunciata contro il convenuto indicato nella trascrizione ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno formulato una domanda diretta all’accertamento dell’esistenza, in favore del loro fondo ed a carico di quello dei convenuti, di una servitù di passaggio, nonché all’accertamento della violazione del diritto a loro spettante in base ad essa ed alla eliminazione degli effetti del denunciato abuso. Si tratterebbe, dunque, di un’azione rientrante nell’art. 1079 cod. civ., in relazione alla quale, a sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ., è richiesta la trascrizione.
Il Tribunale osserva, altresì, come la mancata trascrizione della domanda giudiziale, a prescindere dalla trascrizione del titolo costitutivo della servitù, importerebbe l’inopponibilità della sentenza nei confronti di chi acquisti il fondo servente nel corso del processo e che abbia trascritto il suo titolo «senza che possa rilevare che a suo tempo sia stato regolarmente trascritto l’atto costitutivo della servitù, con la conseguenza che il terzo acquirente è legittimato a proporre contro la detta sentenza pronunciata in giudizio, a cui è rimasto estraneo, l’opposizione di terzo ex art. 404 cod. proc. civ.» (è evocata la sentenza della Corte di cassazione del 23 maggio 1991, n. 5852).
Ciò posto, il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva che non è possibile trascrivere la domanda di mediazione in quanto l’art. 2653 cod. civ. contiene un elenco tassativo ed ha riguardo, unicamente, alle domande giudiziali; né sarebbe possibile trascrivere il verbale di mediazione, essendo prevista unicamente la possibilità di trascrivere l’accordo conclusivo, previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a tanto autorizzato.
Da ciò conseguirebbe, ad avviso del Collegio, che per i diritti reali la mediazione dovrebbe essere sempre doppiata dal giudizio ordinario, nella forma tradizionale o nelle forme dell’art. 702-bis cod. proc. civ., atteso che, in caso contrario, l’attore vittorioso non potrebbe comunque trascrivere direttamente né il verbale di avvenuta positiva mediazione, se non previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a ciò abilitato, né soprattutto giovarsi dell’effetto cosiddetto prenotativo della domanda di mediazione, non trascrivibile.
Da ciò conseguirebbe, inoltre, che l’attore dovrebbe presentare istanza di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda, iniziare comunque un giudizio trascrivendo la domanda giudiziale, ed a prescindere dall’esito della mediazione, chiedere una pronunzia giurisdizionale di merito; ciò perché non potrebbe né trascrivere direttamente il verbale di mediazione, né soprattutto giovarsi dell’effetto prenotativo della domanda, in quanto tale effetto sarebbe limitato ai casi in cui la trascrizione della domanda stessa sia seguita dalla pronuncia di una sentenza o di un provvedimento giurisdizionale analogo alla stessa, come appunto l’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter cod. proc. civ.
La conseguenza in questi casi sarebbe che il soggetto procedente si troverebbe costretto a sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza in ogni caso potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione.
Il rimettente, poi, si sofferma sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. per avere essi previsto una mediazione obbligatoria di tipo oneroso. Il carattere oneroso, quale risultante dal combinato disposto delle norme indicate, contrasterebbe con l’art. 24 Cost. in quanto condizionerebbe al pagamento di una somma di denaro l’accesso al giudice.
La conclusione, secondo cui la previsione della mediazione obbligatoria onerosa sia in contrasto con l’art. 24 Cost., troverebbe conferma nel principio espresso nella sentenza n. 67 del 1960, secondo cui la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato del procedimento, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali.
Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la censura rivolta nei confronti dell’art. 5 del d.lgs. citato e dell’art. 16 del d.m., là dove prevedono «che il solo convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione» in quanto introducono una disparità di trattamento tra attore e convenuto, atteso che per l’attore non è prevista la possibilità di rinunciare ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio, sia delle spese di mediazione.
Il rimettente, infine, ritiene la sussistenza di un altro profilo di illegittimità dell’art. 5 del d.lgs. nella parte in cui prevede la mediazione obbligatoria solo per alcuni gruppi di materie e non per altre, sia pure caratterizzate dalla disponibilità dei diritti sottostanti.
Sarebbe il caso della mediazione immobiliare, sottratta alle materie per le quali è prevista la mediazione obbligatoria o, con riferimento al caso di specie, alla domanda volta a dichiarare la nullità o pronunciare l’annullamento di un contratto costitutivo di servitù.
Tale domanda, non rientrando nei blocchi di materie di cui all’art. 5 del d.lgs. citato, potrebbe essere direttamente azionata in giudizio, attenendo ad un contratto per il quale non è prevista la mediazione obbligatoria (questa, infatti, è prevista solo per i contratti assicurativi, bancari e finanziari); al contrario, la domanda di accertamento o declaratoria di servitù, involgendo diritti reali, rientrerebbe appieno nelle materie soggette a mediazione obbligatoria. Il rimettente ritiene che tale differenziazione non sia giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa.