13.— Il Giudice di pace di Recco, con ordinanza del 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale «dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e art. 16 D.M. n. 180/10, da soli ed anche in combinato disposto, nelle parti e per il motivo che creano ostacoli all’esercizio dell’azione, che eliminano la tutela giudiziaria per i meno abbienti, che ledono il principio di ragionevole durata del processo e che creano disparità di trattamento per situazioni analoghe».
In punto di fatto, il rimettente riferisce che deve pronunziare in «una controversia non priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione che tuttavia in quanto basata su risultanze documentali sarebbe stata decisa in quindici giorni».
Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che le disposizioni indicate siano in contrasto con l’art. 24 Cost. «in relazione ai tempi del processo», in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ciò ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi obbligatori di conciliazione, prevedenti termini di espletamento più brevi: 30 giorni in materia di subfornitura e telecomunicazione, 60 giorni in materia di lavoro e contratti agrari, 90 giorni in tema di diritto d’autore; nonché in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, sottolineando come «tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima».
Dette disposizioni sarebbero, altresì, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina dei costi della mediazione introdurrebbe una disparità di trattamento tra meno abbienti ed abbienti; infatti, sebbene sia stato previsto il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la disparità di trattamento, comunque, rimarrebbe in relazione a quei soggetti che, pur non rientrando tra coloro che possono beneficiare del patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate per cui, dopo aver già sostenuto un costo per una causa, un ulteriore costo per una mediazione dall’esito incerto diverrebbe insostenibile e finirebbe per costituire un deterrente dall’agire in giudizio.
Ad avviso del rimettente, ancora, sussisterebbe il contrasto con l’art. 111 Cost. sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’esperimento della mediazione dilaterebbe i tempi di esso senza che ciò sia giustificato da esigenze specifiche ed anche perché l’esperimento obbligatorio della mediazione dovrebbe effettuarsi non solo con riferimento alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del processo.
Dette disposizioni, infine, violerebbero l’art. 3 Cost., per irragionevolezza della previsione della obbligatorietà della mediazione avente ad oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, dal momento che, nel procedimento avanti al detto giudice, è già previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione.
14.— Con atto depositato in data 3 aprile 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La difesa dello Stato, dopo avere riassunto il quadro normativo di riferimento, si sofferma sulle censure del rimettente, ponendo in rilievo come l’elemento che caratterizza la mediazione sia dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti o ragioni.
Per quanto attiene alle doglianze concernenti l’onerosità della mediazione, la difesa dello Stato invoca la sentenza di questa Corte n. 114 del 2004, la quale richiama principi già illustrati nelle pronunce n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001, ribadendo le argomentazioni precedentemente svolte.
In ogni caso, l’Avvocatura rileva che la mediazione non può definirsi «onerosa» per le parti se raffrontata con il costo di un giudizio ordinario e con la speditezza nell’esercizio dell’azione; si tratterebbe, peraltro, di costi estremamente contenuti soprattutto se si considera che il procedimento consente di realizzare un ben maggiore risparmio ed, inoltre, che è gratuito per i cittadini i quali possono usufruire del patrocinio a spese dello Stato.
15.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con ordinanza del 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, in ordine alle controversie nelle materie ivi indicate, e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, in relazione all’art. 3 Cost.
In punto di fatto, il rimettente premette di essere investito del procedimento civile promosso al fine di accertare il diritto ad ottenere la restituzione di due libri concessi in comodato e nel quale la convenuta ha eccepito, in via preliminare, la improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.
Ciò posto, il rimettente riferisce che la controversia riguarda un contratto di comodato, sicché rientra nelle ipotesi previste dall’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed in relazione alle quali il previo esperimento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità; che la proposizione della domanda è successiva all’entrata in vigore della predetta disposizione ed, inoltre, che il convenuto ha tempestivamente sollevato l’improcedibilità della domanda stessa.
In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente osserva come l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, concependo il procedimento di mediazione come condizione di procedibilità, rischierebbe di compromettere l’effettività della tutela giudiziale; né si potrebbe argomentare che non vi è preclusione ad accedere alla giustizia dal momento che, una volta attivato il procedimento di mediazione e trascorso il termine di quattro mesi, l’accesso alla giustizia sarebbe possibile, in quanto «è cosa ovvia» che dopo il procedimento di mediazione la parte possa adire il giudice perché «nel nostro sistema è impensabile che non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale».
Il giudice a quo prosegue osservando come l’art. 60 della legge delega, con la formula «senza precludere l’accesso alla giustizia», farebbe riferimento alla necessità che la mediazione non condizioni il diritto di azione e che quindi non sia costruita come condizione di procedibilità. Né la brevità del termine potrebbe indurre a conclusioni diverse, visto che detto termine era già stato fissato nella legge delega ed in particolare alla lettera q) del comma 3 dell’art. 60.
Ad avviso del rimettente, dunque, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, nelle ipotesi di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, violerebbe l’art. 60 della legge delega n. 69 del 2009.
Inoltre, il giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., in quanto se il tentativo obbligatorio di conciliazione ha un costo e questo costo non è meramente simbolico, come appunto previsto dalla disposizione indicata, ciò significa che l’esercizio della funzione giurisdizionale è subordinato al pagamento di una somma di denaro.
Vi sarebbe, dunque, il contrasto con i principi affermati nella sentenza n. 67 del 1960 di questa Corte, nella quale è stato stabilito che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, il quale deve trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali.
Il giudice rimettente richiama, poi, il noto orientamento della giurisprudenza costituzionale che distingue tra oneri «razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», da ritenere consentiti, e quelli che, invece, «tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette» i quali, conducendo al risultato «di precludere od ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale», incorrono «nella sanzione dell’incostituzionalità» (sono richiamate le sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001).
Secondo il rimettente, dunque, l’art. 5 del d.lgs. si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. e con «tutti i parametri di costituzionalità», in quanto prevede un esborso che non può essere ricondotto né al tributo giudiziario, né alla cauzione; che non è di modestissima, né di modesta, entità; che non va allo Stato, bensì ad un organismo che potrebbe avere anche natura privata. Si tratterebbe, poi, di un esborso che non potrebbe considerarsi nemmeno «razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», poiché questi esborsi sarebbero da rinvenire solo nelle cauzioni e nei tributi giudiziari, non in altre cause di pagamento.
Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, concernente i criteri di determinazione dell’indennità, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto»; ciò sarebbe in violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice».
Le dette disposizioni, inoltre, si porrebbero in contrasto anche con gli artt. 76 e 77 Cost. in quanto violerebbero i principi e criteri direttivi di cui alla lettera a) del comma 3 dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo nell’esercizio della delega doveva prevedere «che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia».