La sentenza sul caso Seveso e l’illecito istantaneo con effetti permanenti Cassazione, Sez. III, 22 aprile 2013, n. 9711 (G. Marasciuolo)

 

LA SENTENZA SUL CASO SEVESO E L’ILLECITO ISTANTANEO CON EFFETTI PERMANENTI

Cassazione, Sez. III, 22 aprile 2013, n. 9711

 

Gennaro Marasciuolo

 

In tema di illecito istantaneo con effetti permanenti, la condotta lesiva si esaurisce in un fatto quod unico actu perfecitur, un fatto destinato, cioè, ad esaurirsi in una dimensione unitaria di concreta realizzazione, a prescindere dall’eventuale diacronia dei relativi effetti, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ad esso conseguente non può che iniziare a decorrere dal momento del fatto. (massima non ufficiale)

 

Il caso Seveso.

Nell’aprile 2005, oltre mille abitanti di Seveso hanno convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Monza, la società proprietaria del reattore chimico esploso nel luglio 1976, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della mancata bonifica della c.d. “zona B”, colpita dagli effetti inquinanti.

Secondo la tesi degli attori, la società convenuta, non provvedendo alla bonifica della zona contaminata, avrebbe determinato, nei loro riguardi, dei danni di carattere permanente. Essi, infatti, avrebbero subito un danno morale riveniente dalla necessità di sottoporsi a continui controlli sanitari.

Il carattere permanente dell’illecito, inoltre, sempre secondo l’ermeneutica attorea, avrebbe fatto slittare il dies a quo del termine prescrizionale dal 1976, al 2003, anno di pubblicazione della c.d. “analisi di rischio”, che aveva definitivamente chiarito quali erano stati gli effetti dannosi della mancata bonifica.

L’opinione della Suprema Corte.

La Corte di Cassazione, confermando quanto disposto dai giudici di merito, ha ritenuto che la fattispecie era stata correttamente sussunta nel c.d. illecito istantaneo con effetti permanenti, con la conseguenza che il diritto al risarcimento dei danni subiti dagli abitanti di Seveso era da ritenersi prescritto, perché avente origine nell’evento verificatosi nel 1976, nonostante i ricorrenti avessero avuto conoscenza della sussistenza dei danni connessi alla mancata bonifica, soltanto nel 2003.

La condotta lesiva, dunque, si era già esaurita al momento della contaminazione, indipendentemente dalla persistenza dei suoi effetti. I danni di natura non patrimoniale lamentati dagli attori non potevano considerarsi, quindi, la manifestazione di una nuova ed autonoma lesione, rispetto a quelle manifestatesi a seguito dell’azione responsabile, bensì un mero sviluppo e aggravamento del danno già insorto.

Qualora, invece, si fosse trattato di un illecito permanente, la Suprema Corte sarebbe pervenuta a conclusioni differenti.

Nel caso di illecito permanente, infatti, poichè sia la verificazione della condotta, che il conseguente evento lesivo si protraggono nel tempo, il termine di prescrizione decorre dal giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della condotta dannosa. Conseguentemente, il diritto al risarcimento sorge in modo continuo, via via che il danno si produce e in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica (Cass. 24 agosto 2007, n. 17985, conf. a Cassazione civile, sez. II, 21/11/2007, n. 24258).

Ciò che caratterizza l’illecito permanente è dunque:

a) la continuità della condotta del responsabile, che non si esaurisce in un solo istante, ma perdura per un certo lasso di tempo;

b) il protrarsi dell’offesa, che deve essere il frutto di un comportamento volontario dell’autore, prosegue senza interruzione;

c) la possibilità per il responsabile di porre fine alla situazione dannosa.

La condotta colpevole e, quindi, responsabile della società proprietaria del reattore chimico, invece, è terminata nel momento stesso in cui il reattore è esploso. Quanto accaduto successivamente, vale a dire, l’inquinamento delle zone limitrofe e la relativa mancata bonifica, rappresenta, invece, solo uno degli effetti di carattere permanente conseguenti all’esplosione, di talchè, la corretta sussunzione del caso Seveso nella fattispecie astratta dell’illecito istantaneo con effetti permanenti.

 

 

Cassazione, Sez. III, 22 aprile 2013, n. 9711

 

Svolgimento del processo

Nell’aprile del 2005 oltre mille abitanti della cittadina di Seveso convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Monza, la s.p.a. xx, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della mancata bonifica della cd. “zona B” colpita dagli effetti inquinanti de disastro ambientale verificatosi il 10 luglio del 1976, quando il reattore chimico della fabbrica convenuta era esploso diffondendo in tutti il circostante territorio una ingente quantità di diossina.

Secondo la prospettazione degli attori, la condotta omissiva della s.p.a. xx – che avrebbe dovuto provvedere alla bonifica della zona contaminata in qualità di responsabile del predetto evento -, coniugata con il carattere permanente del danno conseguente al disastro del 1976, aveva senz’atro perpetuato una situazione dlesiva delle loro delle posizioni soggettive, cagionandogi un indiscutibile danno morale conseguente (tra l’altro) ai continui controlli sanitari cui erano obbligati a sottoporsi.

La mancata bonifica del sito, configurabile (anche) come illecito penale ex art. 51 bis del D.Lgs. 22/1997, legittimava, in definitiva, una richiesta risarcitoria, alla luce di quanto affermato da Cass. ss.uu. 2515/2002 e 4648/2002.

Il giudice di primo grado, previa declaratoria di nullità della domanda di alcuni degli attori per difetto di procura, respinse la domanda per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere, escludendo tout court la predicabilità, nella specie, di un danno autonomo e diverso rispetto a quello lamentato (e risarcito) nel 1976.

La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo ritenne infondato.

Il collegio meneghino, con sentenza del settembre 2010, premesso che, nel prospettare l’esistenza di danni non patrimoniali risarcibili, gli appellanti ne avevano ricondotto la genesi non (direttamente) al disastro del 1976, bensì all’ulteriore illecito consistito nell’avere la s.p.a. xx omesso di bonificare l’area, benché obbligatavi ai sensi dell’art.17 del D.lgs. 22/97 – illecito definito, nell’atto di impugnazione, di natura permanente, nel senso che l’effetto dannoso consistito nell’inquinamento (danno evento) e le conseguenze dannose derivanti dall’inquinamento stesso (id est il lamentato danno non patrimoniale identificabile nel patema d’animo e nelle restrizioni di vita connaturate all’inquinamento stesso) sarebbero state destinate a cessare solo al momento della concreta realizzazione della ricordata bonifica, onde il dies a quo della relativa prescrizione non avrebbe potuto correttamente individuarsi se non al momento in cui si era acquisita la conoscenza degli effetti dannosi di tale inerzia, e cioè nell’anno 2003, con la pubblicazione della cd. “analisi di rischio” –  ritenne a sua volta prescritto il diritto vantato dagli appellanti, vertendosi, nella specie, in tema di illecito istantaneo ad effetti permanenti.

La sentenza è stata impugnata dai soccombenti con ricorso per cassazione articolato in un unico, complesso motivo di doglianza.

Resiste con controricorso la

Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo ed unico motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2935, 2947, 2043 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c..

Il motivo si articola in tre distinte, ancorché logicamente connesse, doglianze.

1. Lamenta la difesa di parte ricorrente che la corte territoriale non avrebbe fatto buon governo dei principi che regolano la prescrizione, errando, in particolare, nel non ritenere che il fatto generatore del danno fosse la mancata bonifica e non la vicenda del 1976, e nel non aver ritenuto “fatto nuovo” l’analisi di rischio pubblicata nell’anno 2003, ricognitiva di una ancora intollerabile situazione di inquinamento atmosferico nelle zone colpite dall’esplosione del reattore                       . Avrebbe, in particolare, errato il giudice territoriale nel ritenere che i capitoli di prova articolati confermassero la riconducibilità dell’evento di danno al 1976 e non alla scoperta del permanere dell’inquinamento nel 2003, deducendone (altrettanto erroneamente) che il fatto contestato avesse le caratteristiche dell’illecito istantaneo con effetti permanenti. Di converso, i capitoli di prova 13.15 avevano riguardo non soltanto il periodo post 1976, bensì anche un periodo successivo (f. 26 del ricorso), così che la loro ammissione avrebbe dimostrato proprio lo iato logico e giuridico tra l’esplosione del 1976 e la mancata bonifica accertata nel 2003.

1.1 La doglianza appare – a prescindere dai suoi non marginali profili di inammissibilità in rito, attesa la  mancata individuazione della concreta violazione delle norme indicate – infondata nel merito.

1.2 Dalla lettura del contenuto dei capitoli di prova indicati, difatti, emerge la correttezza del decisum del giudice di appello, che li ritiene – con interpretazione scevra da vizi logico-giuridici, e perciò solo sottratta al controllo di legittimità – irredimibilmente funzionali proprio a collegare i danni lamentati come attuali all’evento del 1976, in evidente e condivisibile dissonanza con la lettura che, oggi, strumentalmente, parte ricorrente propone, in parte qua, al collegio.

2. Con ulteriore censura, le parti ricorrenti lamentano un cattivo uso, da parte della corte territoriale, dei principi di diritto in tema di discrimine tra fatto illecito con effetti permanenti e illecito permanente. Sostengono, in particolare, che la situazione di disagio e perturbamento conseguente all’evento del 1976 si sarebbe attenuata con il passare del tempo, mentre soltanto nel 2003 si sarebbe acquisita la conoscenza del nuovo evento di danno, rappresentato dalla mancata bonifica del territorio.

2.1 La censura è infondata.

2.2. La corte di appello di Milano, nel confermare la decisione di primo grado, ha chiaramente e condivisibilmente specificato, da un canto, che, vertendosi in tema di illecito istantaneo con effetti permanenti (come in tutte le ipotesi di danno da inquinamento: ex multis, Cass. 1156 del 1995, nonché,

implicitamente, Cass. 17985 del 2007), la condotta lesiva si esauriva, nella specie, in un fatto quod unico actu perfecitur, un fatto destinato, cioè, ad esaurirsi in una dimensione unitaria (sul piano logico e sostanzialmente cronologico) di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia dei relativi effetti, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ad esso conseguente non poteva che iniziare a decorrere dal momento del fatto (rectius, della concreta percezione o percepibilità di esso):

le lamentate lesioni dell’integrità psichica sub specie di un danno morale da patema d’animo non costituivano, pertanto, manifestazioni di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile, bensì un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto (in termini, Cass. ss.uu. n. 580 del 2008, predicativa di un principio di diritto perfettamente

consonante con quello applicato dal giudice territoriale, quello, cioè della permanenza del danno e non del fatto, mentre all’illecito permanente si ricollega non il danno permanente ma il danno plurimo, destinato a rinnovarsi continuamente nel tempo – mentre quanto si afferma nella sentenza 5831 del 2007 di questa corte evocata dai ricorrenti attiene a fattispecie del tutto disomogenea e niente affatto sovrapponibile a quella odierna); dall’altro, spiegando esaustivamente che, pur volendo attribuire ai lamentati danni

non patrimoniali una nuova ed autonoma considerazione giuridica alla stregua della normativa (D.lgs. 22/97) impositiva dell’obbligo di bonifica in capo all’autore dell’illecito, per lo stesso fatto-evento non si sarebbe comunque potuti essere chiamati a rispondere due volte sul piano della responsabilità civile, pena la irredimibile erosione dell’ineludibile principio (e dell’ineludibile esigenza) di certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici; dall’altro ancora, escludendo in fatto (ff. 19-20 della motivazione) che tale obbligo fosse mai sorto o che non fosse stato comunque abolito dalla successiva legislazione in materia ambientale (D.lgs. 152/2006).

3. Su tale ultimo aspetto – che riguarda una ratio decidendi comunque esposta ad abundantiam ed in via ipotetico-residuale dalla corte meneghina – si appunta il terzo profilo di doglianza di parte ricorrente, che lamenta una pretesa erroneità della relativa statuizione, sulla scorta di una sentenza di questa Corte resa in sede penale (Cass. n. 1783 del 2000).

3.1 Al di là della sua evidente inammissibilità (riferendosi la doglianza ad una ratio decidendi comunque autonoma ed ulteriore rispetto a quella che ha condotto al rigetto dell’appello, onde il suo eventuale accoglimento non avrebbe alcun positivo effetto sulle sorti dell’odierno ricorso), essa appare anche infondata nel merito, poiché nella vicenda in esame non si sarebbe, in ipotesi, realizzato alcun nuovo

evento di danno, bensì un nuovo intervento normativo rispetto ad una fattispecie già verificatasi (e conclusasi) nel 1976, rispetto alla quale già una sentenza penale passata in giudicato aveva valutato e sanzionato i fatti – onde l’impossibilità di un nuovo giudizio ai fini dell’applicazione di una sanzione penale -; mentre l’area di applicazione della norma incriminatrice (il più volte citato art. 51 bis del D.lgs del 1997) si estendeva all’inquinamento (o al pericolo di inquinamento) cagionato dopo l’entrata in vigore della

norma stessa, con conseguente inapplicabilità (per voce della stessa cassazione penale poc’anzi citata) ad episodi di inquinamento antecedenti a tale data.

Il ricorso va pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue – giusta il principio della soccombenza – come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi E. 6500, di cui E. 200 per spese.

Così deciso in Roma, li 16.11.2012

 

 

 

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