PRESUPPOSTI DEL GIUDIZIO ABBREVIATO CONDIZIONATO E IRREVOCABILITÀ DELL’ORDINANZA DI AMMISSIONE A TALE RITO
Marilda Immacolata Croce (praticante avvocato penalista)
SOMMARIO:
1)La Massima; 2)La questione decisa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione; 3) La disciplina normativa; 4) Gli orientamenti giurisprudenziali
1) La massima
Il Supremo Consesso della Corte Penale, con la sentenza n. 41461 del 2012, afferma che l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria non è revocabile nel caso in cui la condizione alla quale il rito è stato subordinato si riveli non utilizzabile per circostanze imprevedibili o sopraggiunte.
2) La questione decisa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione
La Corte suprema di Cassazione a Sezioni Unite in data 19 luglio 2012 ha pronunciato la sentenza con la quale ha risolto la questione in punto di diritto ad essa devoluta, dalla VI Sezione penale, con ordinanza del 30 marzo 2012, esistendo un contrasto giurisprudenziale sulla possibilità di revocare l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, qualora la condizione, alla quale il rito è subordinato, si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte.
L’imputato avanza richiesta di giudizio abbreviato ed il giudice, in prima battuta, rigetta la richiesta di definire il processo all’udienza preliminare.
Lo stesso imputato, a norma dell’art. 438, comma 6, c.p.p., ripropone la domanda di ammissione al giudizio abbreviato, secondo i termini previsti dal comma 2 della citata norma; la richiesta questa volta viene condizionata all’integrazione probatoria consistente nell’audizione di un teste, il quale, durante le indagini preliminari, aveva reso dichiarazioni che erano state acquisite nel verbale di sommarie informazioni.
Il giudice dispone con ordinanza l’ammissione al rito alternativo condizionato.
In udienza il difensore dell’imputato rende edotto il giudice dell’avvenuta impossibilità di procedere all’integrazione probatoria determinata da circostanze sopravvenute e imprevedibili, in quanto il teste era divenuto irreperibile, quindi domandava al giudice di proseguire il processo nelle forme del rito ordinario.
3) La disciplina normativa
Il Libro VI del codice di procedura penale raggruppa i c.d. procedimenti speciali previsti dalla legge delega, l. n. 81 del 16 febbraio 1987, i quali si pongono in un rapporto di alternatività rispetto allo schema del procedimento ordinario tendendo da un lato a semplificare i meccanismi processuali, dall’altro ad abbreviare la durata del processo attraverso forme di definizione anticipata rispetto alle forme del giudizio dibattimentale.
Il rito abbreviato è disciplinato dagli artt. 438 e ss. del codice di rito e risponde ad esigenze di economia processuale, poiché permette al giudice del processo di decidere allo stato degli atti, id est sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, oltre ad eventuale integrazione, ed è un rito premiale nei confronti dell’imputato il quale può beneficiare di una riduzione di un terzo di pena che altrimenti gli sarebbe applicata.
La richiesta di accesso al rito di cui si discorre può essere avanzata solo successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio operata dal Pubblico Ministero e alla trasmissione al giudice delle indagini preliminari del fascicolo con gli atti di cui all’art. 416, comma 2, c.p.p.; esercitata l’azione penale da parte del Pubblico Ministero, l’imputato può scegliere tale rito alternativo mediante richiesta, effettuata personalmente o a mezzo di procuratore speciale, oralmente ovvero per iscritto, sino al momento antecedente alle conclusioni delle parti in udienza preliminare; nei casi di procedimento con citazione diretta a giudizio, ex artt. 550-552 c.p.p., la scelta del rito può avvenire fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
Il giudizio abbreviato si instaura ogniqualvolta l’imputato manifesta la volontà di essere giudicato allo stato degli atti ovvero all’esito di una integrazione probatoria che si reputa necessaria ai fini della decisione; all’imputato si apre una duplice possibilità: scegliere sic et simpliciter il giudizio abbreviato oppure subordinare la richiesta all’ammissione di alcuni mezzi di prova.
Nel primo caso, definito processualmente abbreviato secco, è esclusa la configurabilità di un vaglio da parte dell’organo giudicante sull’istanza di accesso al rito e, conseguentemente, la possibilità di rigetto della medesima.
Nella seconda ipotesi, di giudizio abbreviato cosiddetto condizionato, il giudice compie una duplice valutazione: una attinente alla necessità, ai fini della decisione, dell’integrazione probatoria; l’altra avendo riguardo alla compatibilità della stessa con le finalità di economia processuale che sottendono al rito tenendo altresì conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.
Di fronte al rito abbreviato condizionato in essere, il Pubblico Ministero potrà chiedere ed ottenere l’ammissione di prova contraria.
In caso di rigetto, da parte del giudice, della richiesta condizionata la stessa potrà essere riproposta sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
Il materiale sulla base del quale il giudice è chiamato a decidere il rito è, generalmente, costituito da tutti gli elementi probatori raccolti durante la fase delle indagini preliminari (art. 419, comma 3, c.p.p.); dagli atti scaturiti dalle varie forme di integrazione probatoria a seguito di iniziativa dell’imputato, del Pubblico Ministero, dello stesso giudice (quando ritiene di non poter decidere allo stato degli atti) e, in aggiunta, dal materiale conseguente all’eventuale integrazione probatoria.
Per quanto attiene alle modalità di svolgimento del rito si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare; la sede del procedimento è la camera di consiglio e, salvo che tutti gli imputati ne facciano richiesta, il giudizio si svolge in pubblica udienza.
Qualora per effetto dell’attività di integrazione probatoria il magistrato del Pubblico Ministero proceda a nuove contestazioni, ai sensi dell’art. 423 del codice di rito, all’imputato è data la possibilità di scegliere tra il giudizio abbreviato e la prosecuzione del processo con le forme del rito ordinario nelle forme di cui all’art. 438, comma 5, c.p.p.; in quest’ultimo caso nel prosieguo non potrà più chiedere il rito speciale mentre, in caso contrario, potrà avanzare richiesta di nuove prove, anche superando quelli che sono i limiti fissati dall’art. 438, comma 5, c.p.p., relativamente alle nuove contestazioni ed il Pubblico Ministero le correlate prove contrarie.
Giova precisare che la volontà di rinunciare al rito deflattivo di cui si discorre deve essere manifestata in maniera espressa, seguendo le forme previste dall’art. 438, comma 3, c.p.p., al contrario la richiesta di prosecuzione non è subordinata ad alcuna formalità ben potendo desumersi dal mero silenzio dell’imputato.
Esaurita la discussione la sentenza emessa nel procedimento in esame ha il valore di una sentenza dibattimentale di primo grado; è stabilito nell’art. 442, comma 1, codice di rito, che il giudice, terminata la discussione, provvede a norma degli artt. 592 e ss. c.p.p.
La l. n. 46 del 2006, sulla scorta di quanto disposto per il procedimento ordinario, aveva eliminato la possibilità di proporre appello da parte del Pubblico Ministero e dell’imputato per le sentenze di proscioglimento in abbreviato; la Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi sulla legittimità di tale parte della riforma ed è addivenuta a dichiarala illegittima nella parte in cui esclude che il Pubblico Ministero possa proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento emesse a conclusione del rito. Resta ferma l’impossibilità per l’imputato di proporre appello per le sole sentenze di proscioglimento potendo solo proporre ricorso per Cassazione.
Come innanzi accennato, il giudizio abbreviato ha carattere premiale in quanto in caso di sentenza di condanna il giudice riduce di un terzo (misura da ritenersi fissa) la pena determinata in concreto ossia a seguito di un bilanciamento delle eventuali circostanze e l’aumento per la continuazione.
La pena finale, risultante dalla riduzione per il rito, può essere inferiore al minimo e superiore al massimo edittale del reato e mai inferiore al minimo e superiore al massimo della specie di pena da infliggere: il massimo della specie deve ritenersi la pena estrema dalla quale procedere alla riduzione.
Il legislatore rende la premialità un presupposto operativo dei riti alternativi rendendoli sicuramente più appetibili per cui parte della dottrina parla di “riti collaborativi nonché negoziali”; tali riti, pur discostandosi dal paradigma del rito ordinario risultano pienamente conformi agli intangibili principi costituzionali della sovranità della giurisdizione in materia penale e della obbligatorietà dell’azione penale.
È necessario ora approfondire l’aspetto “condizionato” del rito abbreviato.
L’art. 438, comma 5, del codice di rito, disciplina l’ipotesi in cui l’imputato subordini la richiesta di giudizio abbreviato “ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione”. In simile circostanza, il giudice non ha più l’obbligo di disporre il giudizio abbreviato poiché il rito può essere adottato solo nel momento in cui il giudice ritenga l’integrazione probatoria richiesta come effettivamente necessaria ai fini della decisione, nonché compatibile con l’esigenze di economia processuale tenendo, altresì, conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.
Diversamente dalla struttura del giudizio abbreviato semplice, in questa seconda forma si richiede un’istanza complessa che comporta un controllo di ammissibilità del giudice altrettanto complesso ed impegnativo: infatti in caso di richiesta semplice il giudice limita il suo controllo alla mera forma dell’atto di parte; ex adverso qualora l’imputato avanzi richiesta complessa il giudice valuta la fondatezza- utilità della domanda.
Stante l’indirizzo metodologico adottato dalla dottrina nell’interpretare i requisiti della necessarietà e compatibilità della prova, si è giunti ad affermare il loro carattere non già di condizioni di ammissibilità, bensì di limiti all’ammissibilità: il riconoscimento del diritto al rito ed alla prova può essere negato sempreché la richiesta superi i limiti della praticabilità della prova in quel contesto.
Quanto al primo dei presupposti richiesti dall’art. 438, comma 5, c.p.p., secondo parte di dottrina il concetto di necessarietà ricomprende sia il nesso di pertinenza che deve collegare la reclamata integrazione probatoria con i fatti da provare ai fini della decisione di merito (art. 187, comma 1, c.p.p.), sia l’idea di non superfluità della prova richiesta secondo i canoni dell’art. 190, comma 1, c.p.p.
Altri autori, facendo leva sul piano semantico, attribuiscono al termine necessario il significato, più restrittivo, di non manifesta superfluità o irrilevanza.
Costante giurisprudenza di legittimità, in tema di integrazione probatoria dell’imputato, esclude l’ammissibilità di una richiesta istruttoria che tende a sostituire ovvero ripetere il contenuto del materiale già in atti, dovendo avere, invece, carattere compensativo e di completamento rispetto agli atti raccolti dall’organo dell’accusa.
Relativamente al secondo presupposto, ossia l’esigenza di economia, la dottrina lo considera requisito di assoluta vaghezza ed elasticità, tanto che è stato ritenuto passibile di arbìtri. A differenza di quanto avviene nel giudizio abbreviato semplice, al giudice è riconosciuto un ambito di discrezionalità nella valutazione della necessità della integrazione probatoria sollecitata dall’imputato e della compatibilità con le ragioni di economia processuale.
E’ stato sostenuto che il diritto alla prova, così delineato, sia subordinato all’opinione personalissima del giudice in considerazione del fatto che ciascun magistrato ha una propria idea in merito ai tempi di espletamento del rito speciale; idea, tra l’altro, condizionata dal carico di lavoro dell’ufficio presso il quale opera. La mancanza di parametri oggettivi, idonei ad assicurare un trattamento uniforme ai vari casi, ai quali ancorare l’esigenza economica potrebbe esporre gli imputati ad irragionevoli sperequazioni dettate dalle diverse circoscrizioni giudiziarie.
Dato utile è ricavabile da una pronuncia della Corte Costituzionale, la quale ha avuto modo di precisare come la compatibilità dell’integrazione probatoria richiesta dall’imputato debba essere valutata con riferimento al dispiego di tempo che richiederebbe il giudizio dibattimentale, e non a quello di un giudizio allo “stato degli atti”: detta valutazione dovrà calibrarsi a seconda della complessità del fatto – reato su cui verte il giudizio e sulla dell’estensione dell’oggetto della prova.
Avendo ora riguardo a quella che è l’ordinanza ammissiva al rito, si deve distinguere il caso in cui la richiesta è presentata senza alcuna condizione da quello in cui la medesima venga condizionata e, in tal caso, soffermarsi sui poteri di ammissione o di diniego del giudice.
L’art. 438, comma 4, c.p.p. (come modificato dalla legge c.d. Carotti) stabilisce che: “sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato”. La previsione de qua, in sostanza, sancisce che, una volta richiesto il giudizio ex art. 438 c.p.p., al giudice non resta che l’obbligo di disporlo, a nulla rilevando che la questione sia o meno decidibile allo stato degli atti; del resto lo stesso limite dello “stato degli atti”, alla luce di quelli che sono stati i moniti da parte della Corte Costituzionale, è adesso superabile per il tramite dell’integrazione probatoria di cui all’art. 441, comma 5, c.p.p.
Scomparso, altresì, il presupposto del consenso del Pubblico Ministero, il rito è scelto dall’imputato mediante una propria unilaterale dichiarazione di volontà, a fronte della quale la pronuncia dell’ordinanza ammissiva costituisce “atto dovuto”.
Quanto affermato porta a definire il rito di cui si discorre quale diritto incondizionato dall’imputato alla definizione del processo a suo carico allo stato degli atti, situazione, questa, riconosciuta dal dettato normativo dell’art. 111, comma 5, Cost. a condizione di intendere il consenso dell’imputato come volontà inerente alla formazione della prova e, di conseguenza, all’uso giudiziale degli atti di indagine.
La richiesta condizionata di ammissione al giudizio abbreviato, di cui al comma 5 dell’art. 438 del codice di rito, come più volte ribadito, concede la facoltà di subordinare la richiesta stessa ad un’integrazione probatoria, avente carattere di necessarietà, ai fini della decisione: l’imputato, muovendosi in tal senso, rinuncia alle garanzie tipiche del dibattimento, purché abbia la certezza che le prove da lui precipuamente richieste verranno assunte nel procedimento speciale.
Il giudice è tenuto a compiere una valutazione circa l’ammissibilità delle prove tenendo conto, quali linee guida, degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero, della documentazione relativa alle indagini preliminari, svolte successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio, nonché delle prove, eventualmente, assunte nel corso dell’udienza preliminare. La richiesta può essere rigettata qualora l’integrazione probatoria sollecitata dall’imputato travalichi quei limiti – presupposti della necessità e della compatibilità di cui si è già detto.
Quanto affermato determina in capo all’imputato l’onere di formulare richiesta in modo specifico ed analitico indicando: gli atti istruttori richiesti, le circostanze di fatto sulle quali la prova integrativa deve vertere, i requisiti essenziali per consentire al giudice di valutare l’esistenza delle condizioni di ammissibilità ed al Pubblico Ministero di chiedere l’ammissione a prova contraria.
Data l’ampia trattazione circa i requisiti previsti dall’art. 438, comma 5, c.p.p., i quali orientano la scelta del giudice tra la pronuncia di ordinanza ammissiva o di rigetto del rito, appare opportuno solo ricordare che, per giustificare l’ammissione del rito, non è sufficiente che le prove richieste risultino rilevanti nella prospettiva di ricostruzione dei fatti sostenuta dall’imputato, ma è necessario anche che tale prospettiva appartenga ad ambiti probatori già avviati, pure se non integralmente percorsi, dalle indagini preliminari.
In questi termini, la richiesta condizionata non vanifica l’attività istruttoria sino a quel momento espletata; non travolge l’efficacia probatoria degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero e della documentazione relativa all’attività di indagine svolta da questi o dal difensore dopo la richiesta di rinvio a giudizio, tanto meno l’efficacia delle prove assunte in corso d’udienza.
Ammettere l’integrazione probatoria significa, per il giudice, ammettere, obbligatoriamente, tutte le prove indicate risultanti necessarie; l’imputato non può vedersi negata l’assunzione della prova ammessa altrimenti il rito risulterebbe incardinato contro la sua volontà.
Così intesa, l’ordinanza che ammette il rito è anche provvedimento ammissivo della prova richiesta non potendo essere ammessa la domanda condizionata solo in relazione ad alcune delle prove richieste dall’imputato; siffatto provvedimento risulterebbe abnorme in quanto si pone al di fuori dei poteri che la legge accorda al giudice e lede il diritto della difesa.
4) Gli orientamenti giurisprudenziali
Una volta ammesso il giudizio abbreviato condizionato, vi è un’ulteriore conseguenza: qualora l’assunzione della prova richiesta e ammessa divenga impossibile per cause imprevedibili e sopraggiunte (si pensi a titolo esemplificativo alle ipotesi di irreperibilità, morte improvvisa ovvero mutamento dei luoghi da ispezionare) il giudice non ha il potere di revocare l’ordinanza di ammissione.
Tale ultima considerazione costituisce il presupposto logico – giuridico condiviso dai giudici del Collegio nella sentenza n. 41461 del 2012.
In precedenza, parte della dottrina, suffragata da sporadiche pronunce giurisprudenziali aveva, ex adverso, ritenuto che nell’ottica del rispetto della scelta difensiva ab origine adottata, la revocabilità della richiesta in caso di impossibilità oggettiva ad assumere la prova postulasse un ritorno alle forme ordinarie.
Giova approfondire il problema della revocabilità della domanda di giudizio abbreviato; prima della modifica ad opera della legge Carotti la giurisprudenza, investita sul punto, propendeva per il ritenere che, intervenuto l’accordo con il Pubblico Ministero, il richiedente non potesse più revocare la richiesta. La dottrina, al contrario, pareva più possibilista ed in ogni caso, nulla quaestio nel caso in cui la revoca fosse intervenuta prima che la pubblica accusa avesse potuto esprimere il proprio parere.
L’estromissione dell’organo pubblico dall’avvio del procedimento speciale, ha portato taluni autori a prospettare un diritto di revoca della richiesta in tutti i casi in cui si riveli impossibile l’integrazione probatoria alla quale l’imputato abbia condizionato la propria disponibilità alla definizione del giudizio mediante rito speciale.
L’abnormità della revoca della ordinanza di ammissione del rito è la soluzione alla quale le Sezioni Unite sono addivenute seguendo un percorso logico che muove i suoi passi dal quesito che può essere così sintetizzato: quid iuris nel caso in cui circostanze sopravvenute ed imprevedibili non permettono l’integrazione della prova la quale rappresenta la “condizione” per la quale è stata avanzata richiesta di giudizio abbreviato? Esiste un diritto di retrocessione, oppure in capo al giudice esiste il potere di revoca ex officio?
In prima battuta vengono presi in considerazione l’art. 438, comma 5,c.p.p. e l’art. 441 bis, c.p.p, dai quali viene desunta quella che costituisce la premessa generale a quanto giungono ad affermare i giudici della Suprema Corte: “disposto il rito con la condizione chiesta dall’imputato, non risulta possibile una sorta di retroattiva perdita di efficacia dell’atto di impulso nella circostanza in cui la prova non venga assunta per cause indipendenti dalla volontà del giudice”.
La prima delle due norme fa salva, anche nelle ipotesi di giudizio abbreviato condizionato, la utilizzabilità ai fini della prova degli atti di cui all’art. 442, comma 1 bis, c.p.p. Pertanto, come si è già avuto modo di specificare in tema di caratteristiche dell’attività di integrazione probatoria, quest’ultima “oltre a non mutare la natura e le caratteristiche proprie del giudizio abbreviato, non esplica la sua influenza sulle acquisizioni già esistenti” non avendo carattere sostitutivo, ma di mero arricchimento di quanto già acquisito.
Da ciò si è affermato come “il mancato conseguimento del risultato probatorio dedotto in condizione non compromette, quindi, il valore del consenso prestato dall’imputato alla piena utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero”.
La seconda norma indica quelle che sono le tassative ipotesi di revoca del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato.
La tassatività delle ipotesi è stata oggetto di recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto l’ordinanza di revoca del provvedimento di ammissione dell’imputato al rito speciale quale atto abnorme, qualora pronunciata al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 441 bis c.p.p., che comporta l’abnormità, altresì, di tutti gli atti conseguenti.
Il problema della revocabilità della ordinanza ammissiva si pone solo in rapporto alle previsioni normative, in virtù delle quali si prevede espressamente un’ipotesi di revoca obbligatoria dell’ordinanza su richiesta dell’imputato (ex art. 441 bis, cp.p.p.) nel caso di nuove contestazioni.
Con la norma di cui si discorre, il legislatore ha ampliato le garanzie riconosciute all’imputato nell’ambito di siffatto giudizio, segnatamente nel caso in cui il Pubblico Ministero, disponga un’integrazione probatoria ai sensi degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, c.p.p., proceda alla modifica dell’imputazione attraverso: la contestazione del fatto diverso, di un’imputazione connessa a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b) c.p.p., di una circostanza aggravante.
Il ricorso alla revoca è subordinato alla sussistenza di due condizioni: la definizione del giudizio abbreviato deve essere preceduta da una richiesta di integrazione probatoria ad impulso dell’imputato (art. 438, comma 5, c.p.p.) ovvero di ufficio dal giudice (art. 441, comma 5, c.p.p.); è necessario che il Pubblico Ministero, a seguito dell’attività istruttoria, proceda a nuove contestazioni dovendosi escludere il caso di contestazione all’imputato di un fatto nuovo per il quale la disciplina del 441 bis è inconferente.
L’art. 441 bis del codice di rito non ricomprende l’ipotesi in cui vi è un’impossibilità oggettiva ad assumere l’integrazione probatoria; precedente giurisprudenza, seppur non abbia affrontato la questione della retrocessione del rito alle forme ordinarie in caso di impossibilità ovvero superfluità della prova, ha ritenuto abnorme il provvedimento con il quale il G.U.P. ha revocato, unilateralmente, l’ordinanza ammissiva del rito stesso adducendo presunte difficoltà nell’ottenere la comparizione del testimone.
Occorre ora soffermarsi sull’incidenza dei fatti “imprevedibili e sopravvenuti” sui presupposti costituenti l’oggetto della condizione dedotta dall’imputato.
Alla domanda condizionata di rito abbreviato si riconosce struttura composita poiché essa comprende: una richiesta principale, funzionale ad introdurre il rito, ed una accessoria, volta all’ammissione di determinati mezzi di prova. L’accoglimento della richiesta accessoria determina “il mantenimento in vita” della richiesta principale in quanto il giudice o ammette le prove specificatamente indicate o rigetta in toto la richiesta.
Da quanto appena affermato ne consegue una risposta negativa da parte delle Sezioni Unite le quale ha ritenuto che “il mancato conseguimento del risultato probatorio dedotto in condizione non compromette il valore del consenso prestato dall’imputato alla piena utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero”. Si ritiene, in altri termini, che la volontà di accedere al rito condizionato non venga compromessa dal venir meno della condizione apposta alla richiesta; ciò trova conferma sia nella legge Carotti, nella parte in cui fa venir meno l’obbligo del consenso da parte del Pubblico Ministero, trasformando la richiesta di rito abbreviato da “negozio processuale” a “atto unilaterale a contenuto negoziale dell’imputato”, sia nel vincolo di subordinazione della richiesta principale a quella accessoria.
Il supremo Consesso sottolinea come ad essere subordinata sia la domanda, non già l’ordinanza di ammissione la quale non può subire una perdita di efficacia retroattiva, infatti, “il vincolo di subordinazione insito nella richiesta dell’imputato deve ritenersi utilmente assolto con l’instaurazione del rito e l’ammissione delle prove sollecitate dalla difesa; il relativo atto di impulso processuale non può essere influenzato dalle vicende correlate al distinto e successivo momento della effettiva assunzione della prova […] e non può subire (l’ordinanza) una retroattiva perdita di efficacia quando, per qualunque motivo, la prova non venga concretamente assunta”.
Avanzare richiesta condizionata non garantisce all’imputato il controllo sul contenuto della decisione che il G.U.P. emetterà a conclusione del procedimento, ed anzi può sostenersi che lo stesso imputato, nel momento in cui formula la domanda, accetta con consapevolezza l’eventualità che la prova non possa essere più assunta per cause che ben potrebbero determinarsi anche durante lo svolgimento del giudizio ordinario (a titolo esemplificativo si pensi alla sopravvenuta irreperibilità di un teste, all’esercizio della facoltà di non rispondere di cui si avvalga l’imputato di reato connesso ex art. 210 c.p.p., alla morte di un teste) non ritenendosi possibile discorrere di lesione del diritto di difesa.
Si può concludere affermando che “le vicende concernenti l’effettiva acquisizione della prova dopo la rituale instaurazione del rito condizionato sono ininfluenti rispetto alla stabilità del giudizio, l’eventuale retrocessione del processo deve ritenersi non consentita e, quindi, illegittima, pur se sollecitata dallo stesso imputato”.
Siffatta considerazione trova ulteriore avallo nell’orientamento che, già in precedenza, aveva contraddistinto la questione relativa alla revocabilità del provvedimento introduttivo del rito abbreviato.
La tesi contraria a qualsiasi ipotesi di revoca dell’ordinanza ammissiva è stata mantenuta costante nel tempo, anche a seguito della l. n. 479 del 1999 con la quale è possibile che il giudice pervenga ad una revoca ma solo nei casi espressamente previsti dal codice di rito.
La non retrocedibilità, come già evidenziato, trova fondamento nella mancata previsione, salvo che nell’ipotesi disciplinata dall’art. 441 bis, del potere del giudice di disporre la revoca del provvedimento introduttivo del rito. Le Sezioni Unite richiamano il canone ermeneutico ubi lex voluit dixit con il quale si riafferma la volontà del legislatore di escludere quelle ipotesi di revoca non espressamente previste dal citato art. 441 bis, norma di carattere eccezionale e, dunque, non suscettibile di generalizzazione o di interpretazione analogica.
Affermare che la revoca dell’ordinanza del giudizio abbreviato già ammesso non è, in linea di principio, consentita in quanto considerato atto abnorme, così come non riconoscere un diritto di retrocessione, ha sollevato dubbi di compatibilità non solo a livello costituzionale, con quelli che sono i principi generali di difesa dell’imputato e quei principi generali del rito abbreviato, ma anche a livello europeo.
In primis, deve essere preso in considerazione il diritto di difesa così da poter affermare una sua compatibilità o meno con la pronuncia della Corte.
Relativamente al processo penale, l’art 24. Cost., si preoccupa di attribuire all’imputato una tutela giudiziaria a salvaguardia della propria posizione di libertà messa a repentaglio dalle pretese punitive dell’accusa; da tempo la Corte Costituzionale ha sottolineato come, con tale norma, si tutela l’interesse dell’imputato “ad ottenere il riconoscimento della completa innocenza, che si deve considerare il bene della vita costituente l’ultimo vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale”.
La norma ha efficacia generale pertanto, diversamente da quanto accade per le norme costituzionali dotate di efficacia diretta, non detta puntuali regole di comportamento bensì necessita di un successivo intervento legislativo atto a dare concretezza: ciò che può cogliersi dalla norma in questione sono elementi minimi ed irreversibili di legalità nei quali si riflette il fine etico e politico cui il principio deve tendere.
Il carattere indeterminato del diritto di difesa, così come enucleato nell’art. 24 Cost., se raffrontato al caso in concreto, oggetto di disamina da parte della Corte di cassazione, non porta ad alcun suo pregiudizio in quanto il carattere dell’inattuabilità della prova – testimonianza permarrebbe anche qualora dovesse disporsi una retrocessione del processo, con conseguente celebrazione del rito ordinario.
Altra norma a venire in considerazione è l’art. 111 Cost., in particolare il comma 5 la quale viene messa a confronto con l’inequivoco dettato normativo dell’art. 438, comma 5, c.p.p. dalla quale è lapalissiano che “nel momento in cui formula richiesta di giudizio abbreviato, sia pure condizionata, l’imputato – come contropartita ad una riduzione di pena nel caso di condanna – accetta l’utilizzabilità, ai fini della decisione di merito, dell’intero materiale probatorio raccolto nelle indagini preliminari fuori dal contraddittorio tra le parti, senza alcuna eccezione”.
Simile affermazione permette di escludere ogni eventuale contrasto tra la disciplina del rito abbreviato ed i principi del giusto processo: infatti, si ritiene insussistente una violazione della norma costituzionale, poiché implicito, nella richiesta di giudizio abbreviato, il consenso all’utilizzazione di quegli atti costituendo una legittima ipotesi di deroga al principio di formazione della prova in contraddittorio ex art. 111, comma 5, Cost.
Inconsistente è stata ritenuta la violazione dell’art. 3 Cost.; palese è la diversità di presupposti e disciplina del rito ordinario e del rito abbreviato: nel primo sono presenti garanzie dibattimentali, nel secondo si rinuncia ad esse in cambio di uno sconto di pena.
A parere del Collegio la soluzione interpretativa prospettata ben si armonizza, altresì, con quelli che sono i principi espressi dalla Corte Europea dei Diritto dell’Uomo; sulla scorta di quanto già affermato dall’organo europeo”la domanda di accesso al giudizio abbreviato rappresenta, infatti, l’espressione di una scelta consapevole e ponderata caratterizzata dalla volontaria accettazione della riduzione delle garanzie conseguente all’adesione al rito speciale in cambio di una consistente riduzione di pena in caso di condanna” atteso che “gli innegabili vantaggi insiti nella procedura chiesta dall’imputato” determinano per contro, “un’attenuazione delle garanzie processuali offerte dal diritto interno, quali, in particolare, la pubblicità del dibattimento, la possibilità di chiedere la produzione di elementi di prova e di ottenere la convocazione di testimoni”.
Anche alla luce della nota sentenza “Scoppola” la Corte europea ha osservato che la rinuncia al rito ordinario, espressa dalla scelta di adire il rito abbreviato, deve essere “spontanea ed inequivoca” affinché possa considerarsi valida e legittima; giacché, secondo costante nomofilattica, la richiesta di giudizio abbreviato costituisce “atto dispositivo personalissimo”.
Tali innegabili vantaggi giustificano l’attenuazione delle garanzie processuali ed al contempo sottolineano la compatibilità della disciplina contenuta negli artt. 438 e ss. del codice di rito con i dettami della Convenzione.
Sulla base delle considerazioni svolte la Corte di cassazione afferma il seguente principio “l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria non è revocabile nel caso in cui la condizione alla quale il rito è stato subordinato si rilevi non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte”.