L’ART. 588 C.C. COME NORMA GENERALE SULL’INTERPRETAZIONE
Ettore William Di Mauro
Breve indagine compiuta attraverso una rilettura di V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, in Riv. Dir. Civ., I, 2012.
Premessa
Con il termine successione si designa il fenomeno per cui un soggetto subentra ad un altro nella titolarità di uno o più diritti o rapporti giuridici (anche passivi, come i debiti).
La morte dell’individuo determina il sorgere di una esigenza: che il patrimonio non resti privo di titolare, onde evitare una pericolosa precarietà nella titolarità e gestione dei beni del defunto e un’incertezza sulle sorti dei rapporti obbligatori, la cui continuazione deve essere garantita anche nel caso di morte di uno dei soggetti del rapporto.
Ma l’individuazione della necessità di non lasciare “libero” il patrimonio del defunto lascia aperto il problema del modo con cui provvedervi, dal momento che il suo soddisfacimento potrebbe avvenire con soluzioni tra loro profondamente diverse e tra le quali ciascun ordinamento è chiamato a scegliere in base a valutazioni di carattere eminentemente politico[2].
Abbandonata l’idea che il patrimonio ereditario configura una autonoma rilevanza giuridica e, quindi, come complesso di rapporti unitariamente disciplinato dal legislatore[3], si deve evidenziare come l’eredità non sia assoggettata ad un regolamento tipico ed unitario, ma ad una varietà di regimi in funzione di un’ampia casistica, cosicché molto più utile di una definizione unitaria ed aprioristica dell’eredità come universitas, di sapore puramente classificatorio e dogmatico, appare l’esame analitico delle varie fattispecie ipotizzate dal legislatore in relazione alle situazioni in cui può venirsi a trovare in concreto il patrimonio del de cuius dopo l’apertura della successione[4].
Quando la successione è regolata per testamento implica l’interpretazione della dichiarazione del testatore, la quale non di rado si presenta ambigua e lascia margine al dubbio se il testatore abbia voluto disporre un’attribuzione a titolo di vera e propria istituzione di erede o un lascito di uno o più beni determinati, a titolo di legato.
La lettura di schede testamentarie olografe confezionate senza una precisa consapevolezza giuridica del problema istitutivo e sorrette soltanto da ansia di giustizia o ragioni di vendetta, in uno con la convinzione e la consapevolezza che non si tratta di testi fuggevoli e occasionali, ma di quelli più comuni e frequenti, dimostra con tutta evidenza la criticità della questione giuridica trattata[5].
I problemi, poi, diventano ancora più complessi quando le attribuzioni fatte del testatore siano, cumulativamente o alternativamente tra loro, oggettivamente e/o soggettivamente parziali[6].
Il compito dell’interprete sarà più semplice quando al chiamato siano attribuiti tutti i beni del testatore, ovvero una quota del complessivo patrimonio ereditario, intesa come una frazione dell’intero (art. 588, comma 1, c.c.).
Le difficoltà sorgono, invece, quando la disposizione contenga “l’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni”: perché ciò “non esclude che la successione sia a titolo universale a condizione che risulti “che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio” (art. 588, comma 2,c.c.).
In questa seconda ipotesi occorrerà dimostrare che il testatore, nel disporre dei singoli beni, abbia tenuto presente l’universalità del suo patrimonio, ed abbia inteso assegnare e dividere i singoli cespiti, tra i suoi eredi, come quota del tutto. Pertanto occorrerà verificare quale sia stata la reale intenzione del testatore.
Ovviamente l’interpretazione della volontà del testatore, al fine di determinare la qualifica da attribuire al chiamato in certas res, se di erede o legatario, pone spesso delle gravi difficoltà.
Tuttavia, già all’interno dell’art. 588 c.c. è possibile trovare elementi ermeneutici che aiutino l’interprete a ricavare l’intima volontà del testatore.
La funzione interpretativa dell’art. 588 c.c.
Ad una lettura più attenta della disposizione in esame sembra potersi ammettere che l’art. 588 c.c. contenga una norma interpretativa.
Tuttavia, non una norma di interpretazione, ossia una regola che fissa il significato da attribuire a talune espressioni usate dal testatore[7], ma una norma sull’interpretazione generale, ossia una regola che segna taluni criteri in base ai quali è possibile attribuire il significato giuridico alla disposizione scritta dal testatore[8].
Ciò che muta rispetto all’interpretazione della legge e all’interpretazione del contratto, non è tanto la dinamica del difficile rapporto testo contesto[9], tra dato letterale e dato funzionale, quanto, la prospettiva attraverso la quale si deve svolgere l’indagine[10], cioè nella consapevolezza che quel testo ha, a differenza degli altri, il tratto della definitiva e assoluta irripetibilità.
Il comma 1 dell’art. 588 c.c., al pari di quanto l’art. 1362 c.c. non faccia per il contratto e l’art. 12 prel. per la legge, risolve il rapporto tra testo e contesto, segnando all’interprete il percorso che deve compiere per rendere chiare le parole scritte sul testamento[11].
Al fine di ridurre le disposizioni testamentarie nel genere di quelle a titolo universale o a titolo particolare occorre verificare se esse comprendano o meno, l’universalità o una quota dei beni ereditari, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore[12].
Nel comma 1 dell’art. 588 c.c. il legislatore, riferendosi espressamente anche alla denominazione, ha inteso limitare l’influenza non soltanto del linguaggio comune, bensì anche di quello tecnico, compiendo una scelta diversa da quella contenuta nell’art. 12 prel. Nell’una autorizza l’interprete a prescindere dal significato della denominazione usata dal testatore, nell’altra impone all’interprete di non attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole[13].
Tale impostazione normativa suggerisce di condurre colui che tenti l’interpretazione del testamento, prescindendo dal significato primario e letterale delle parole comuni (espressioni) e dal significato proprio delle parole tecniche (denominazioni).
Il testo, però, non può essere privo di qualunque rilievo. Il legislatore, infatti, sembra escludere non la rilevanza, ma il valore determinante. Denominazioni ed espressioni non sono concludenti: rispetto alle prime è possibile predicare un significato opposto o diverso da quello proprio, rispetto alle seconde un qualunque significato secondario.
Per superare la “concludenza” del testo, occorre avere riguardo al contenuto della disposizione testamentaria[14]. Con la precisazione che la parola “contenuto” viene utilizzata in questo caso nel duplice senso di cui essa è capace, sicché occorre non soltanto verificare l’oggetto della disposizione testamentaria, quanto e soprattutto far riferimento a ciò che, in termini obiettivi, essa specificatamente contenga, essendo determinante il suo comprendere l’universalità o una quota dei beni del testatore[15].
Infine non può essere priva di rilievo la tecnica di costruzione della fattispecie. La quale, mentre definisce in positivo e in relazione al suo contenuto la disposizione a titolo universale, affida, la disposizione a titolo particolare al tratto residuale e a giudizio di carattere puramente negativo[16].
La residualità della seconda finisce per comprimere l’area delle prime, assorbendo al suo interno non soltanto quelle che sicuramente non lo sono, ma anche quelle rispetto alle quali non vi è conferma che lo siano. Conseguentemente, l’interprete che si interroghi sulla idoneità della disposizione testamentaria a offrire al suo destinatario l’universalità o una quota dei beni ereditari, sappia che soltanto la risposta positiva comporterà la riconducibilità di essa alle disposizioni a titolo universale, mentre tanto quella negativa quanto quella dubbia farà rifluire la medesima nella residuale categoria del legato[17].
Il risultato raggiunto è che il comma 1 dell’art. 588 c.c. contiene una norma generale sull’interpretazione del testamento. La quale, nel negare rilevanza concludente alle espressioni e denominazioni e nel negare rilevanza concludente alla tecnica logica-linguistica, assegna valore ermeneutico determinante e concludente al suo contenuto o, più esattamente, al suo comprendere o escludere l’universalità o una quota dei beni del testatore.
Il comma 2 dell’art. 588 c.c. non esclude che il testatore abbia inteso assegnare quel bene o quel complesso di beni come quota del proprio patrimonio[18], ossia che la disposizione possa essere qualificata a titolo universale e non necessariamente a titolo particolare, come si potrebbe ipotizzare a prima vista, finisce con l’avere fondamentale rilevanza nella parte e per il modo in cui autorizza l’interprete a compiere tale valutazione[19].
Pertanto il comma 2 dell’art. 588 c.c. designa il percorso interpretativo da seguire, precisando che il lascito di beni determinati va inteso come disposizione a titolo universale quando risulta che il testatore intese lasciare quei beni come quota del patrimonio[20].
Se poi si tengono in conto le peculiarità che caratterizzano l’interpretazione del testamento e il singolare punto di rilevanza ermeneutica e la unicità e irripetibilità del testo, non vi è dubbio che, a fini conservativi, non si possa non aprire l’indagine interpretativa al materiale extratestuale. In mancanza del quale, la comprensione del testo potrebbe essere compromessa, mentre l’uso del quale, senza violare il formalismo testamentario, può consentire di ricostruire l’intenzione del testatore, anche al fine di individuare la disciplina da applicare al caso.
Dunque, determinante è l’intenzione del testatore[21].
La quale non è il fine dell’attività interpretativa, né può risolversi in una mera indagine psicologica o intimistico-soggettivistica. Essa è, piuttosto, un autentico e indispensabile strumento di interpretazione, che consente di selezionare tra i plausibili e possibili significati di cui il testo è capace quello più coerente con la mens testatoris e la cui denominazione è offerta dalla valutazione del comportamento del testatore. Occorre valutare il contesto, ossia gli atti, i fatti e i documenti dai quali è possibile trarre e determinare l’intenzione del testatore.
L’interpretazione del testamento è, dunque, l’interpretazione delle parole scritte nella scheda testamentaria. Pertanto, colui che ne voglia intendere il significato e stabilirne la riconducibilità alle disposizioni a titolo universale o a titolo particolare, indipendentemente dalle denominazioni e dalle espressioni usate dal testatore e dalla tecnica logico-linguistica di cui quegli si è valso, dovrà indagare se con quella disposizione il testatore ha inteso comprendere l’universalità o una quota dei beni del testatore. Rilevante l’intenzione del testatore, la quale, ridotta a strumento interpretativo, può essere determinata valutando il contesto, che così, acquista, rilievo nell’attività esegetica[22].
[1] Breve indagine compiuta attraverso una rilettura di V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, in Riv. Dir. Civ., I, 2012.
[2] A. Torrente, Manuale di Diritto privato20, Milano 2012, pp. 1235 e ss.
[3] È infatti discusso se la nozione di patrimonio ereditario, oltre ad un valore descrittivo, abbia anche una precisa rilevanza giuridica. Di parere affermativo sono quanti condividono la tradizionale concezione dell’eredità come universitas, ossia come complesso di rapporti unitariamente disciplinato dal legislatore a partire dal momento dell’apertura della successione. Indubbiamente il patrimonio ereditario non è mai suscettibile di essere considerato atomisticamente quale un semplice coacervo di rapporti privi di connessione tra loro, essendo numerose le norme che postulano un trattamento unitario del patrimonio ereditario. Tuttavia non sembra che la formula dell’eredità come universitas sia idonea ad assumere qualche rilievo pratico, al di là di una generica indicazione dell’esigenza di una disciplina che tenga conto, pur nel periodo di vacanza che fa seguito all’apertura della successione, dell’appartenenza di ciascun rapporto giuridico ereditario ad un intero complesso.
[4] A. Torrente, Manuale di Diritto privato20, op. cit., p. 1242
[5] Sul punto di particolare importanza è G. Bonilini, Institutio e x re certa e acquisto, per virtù espansiva, dei beni non contemplati nel testamento, in Tratt. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano 2009, pp. 239 e ss.
[6] V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op. cit., pp. 53 e ss.
[7] Come ad esempio sono le norme sull’interpretazione della legge ex art. 12 prel. e le norme sull’interpretazione dei contratti artt. 1362-1371 c.c.
[8] F. Ziccardi, Le norme interpretative speciali, Milano 1972, pp. 98 e ss. L’autore considera la norma ex art. 588 c.c. come speciale anche se usa tale espressione solo per designare norme diverse dalle generali e prive della attitudine di espandere il proprio ambito di applicazione oltre gli istituti per la cui disciplina sono previste. La loro applicazione può concorrere con le norme generali, dipendendo esclusivamente dalla presenza degli elementi di fattispecie. Di diverso avviso è V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op. cit., p. 55, il quale esprime dei dubbi sulla possibilità che tale regola possa considerarsi norma speciale. Non tanto in ragione del suo contenuto o della sua collocazione, quanto perché è difficile recuperare il tratto di specialità. In questa direzione non aiuta il suo confronto con le norme sull’interpretazione del contratto, dal momento che non sembra possibile istituire tra le due materie un qualunque rapporto genus-species, difettando una disciplina rispetto alla quale sia possibile predicare la specialità dell’una e la generalità dell’altra. Il tratto della generalità sembrerebbe confermato, inoltre, dal suo contenuto. Come tutte le norme sull’interpretazione della legge e degli atti giuridici, essa finisce col dividere il significato della forma rappresentativa tra il suo senso letterale e quello funzionale.
[9] L’impianto è di N. Irti, Testo e contesto, Padova 1997.
[10] Sulla rilevanza ermeneutica, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1960, p. 370.
[11] La superabilità del dato letterale sembra, nell’art. 588 c.c., ancora più forte che in altre disposizioni normative.
[12] V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op. cit., p. 57. L’autore non crede che possa essere trascurabile la circostanza che il legislatore, nel segnarne la misura della rilevanza, usi, unitamente, le parole “espressione” e “denominazione”. L’ultima descrive qualcosa di più e di diverso della prima: non un semplice e qualunque significato, bensì un nome che identifica e specifica la cosa denominata. Altro generico riferimento all’espressione, ossia all’indefinito vocabolo o alla impersonale locuzione a cui il testatore affida il suo pensiero, altro una denominazione, ossia un’espressione propria, recante un preciso e univoco significato scientifico. Infine per un’analisi sul raffronto dei testi v. C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, I, Milano 1952, pp. 364 e ss.
[13] La ragione della diversità è evidente: nel primo caso, l’autore del testo è il legislatore, ossia un soggetto che dovrebbe conoscere pienamente il significato tecnico delle parole e un’adeguata capacità critica per scegliere ciascuna denominazione; nella materia testamentaria, invece, non soltanto manca una presunzione di tale conoscenza e consapevolezza nell’autore, ma, addirittura, ne esiste, guardando il tenore letterale della disposizione, una uguale e contraria.
[14] G. Amadio, L’oggetto della disposizione testamentaria, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, I, Padova 1994, p. 899.
[15] V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op. cit., p. 58; G. Bonilini, Institutio ex re certa e acquisto per virtù espansiva, dei beni non contemplati nel testamento, op.cit., p. 240.
[16] G. Amadio, L’oggetto della disposizione testamentaria, op. cit, p. 903
[17] V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op. cit., p. 61.
[18] G. Amadio, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, op.cit., p. 249.
[19] A seguire questo ragionamento non sarebbe possibile istituire un rapporto di genere specie o di regola eccezione tra comma 1 e 2 dell’art. 588 c.c., non tanto perché la regola contenuta nel comma 2 è lo svolgimento in chiave esemplificativa di quella posta al comma 1, quanto e soprattutto perché comma 1 e 2 non offrirebbero due norme giuridiche ma un’unica e sola regola capace di descrivere un unitario percorso esegetico, differente soltanto nella misura di rilevanza dell’intenzione, con la conseguenza che il comma 2 avrebbe il medesimo tratto di generalità del comma 1, anch’esso, aperto, per effetto del secondo, al comune materiale interpretativo.
[20] Attenzione, non “risulta da testamento”, ma semplicemente, “risulta”.
[21] L. Bigliazzi Geri, Il contenuto del testamento, in Aa. Vv., Tratt. Rescigno, VI, Successioni2, Torino 1997, p. 145 precisa che il lascito di bene determinato impone sempre di risalire alla volontà del testatore. Sull’indagine psicologica o intima-soggettiva si v. G. Amadio, L’oggetto della disposizione testamentaria, op.cit., pp. 904 e ss.
[22] V. Barba, Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, op.cit., p. 67. L’autore conferma in tale modo che il procedimento interpretativo ha struttura circolare: muove da un testo e a esso ritorna, costituendo quest’ultimo un confine che il giurista non può, né deve valicare.