INTERVERSIONE DEL POSSESSO: SE MANCA UN ATTO DI OPPOSIZIONE SERVE UNA CAUSA TRADITIONIS?
Cassazione, sez. II Civile, 30 dicembre 2014, n. 27432
1. La presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto su una cosa non opera, a norma dell’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario – possessore, e, non essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice (o precaria) anche l’attività di colui che continua a disporre della cosa dopo il venire meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità.
2. Ne deriva che per la trasformazione della detenzione in possesso è necessario un mutamento del titolo, che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare, ai sensi dell’art. 1141 c.c., o da una causa proveniente da un terzo oppure dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario – possessore, quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene, e non soltanto da atti corrispondenti all’esercizio del possesso, come la mera mancata restituzione del bene, di per sè denuncianti unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene
3. Non può costituire titolo idoneo a mutare la detenzione in possesso, e pertanto non può configurare la “causa proveniente dal terzo”, contemplata dall’art.1141 c.c., il mero comportamento materiale del terzo medesimo (nella specie: la dismissione della linea ferroviaria, l’omesso recupero della disponibilità del bene detenuto a titolo precario, per ragioni di servizio, dal dante causa degli X ed il proseguimento di detto rapporto con i beni da parte degli eredi dell’ex casellante). La causa proveniente da un terzo, può, nella ipotesi considerata, consistere in un (qualsiasi) atto di trasferimento del diritto, compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente, idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità ed efficacia dell’atto medesimo. Il mutamento della detenzione in possesso può derivare da un negozio posto in essere dal detentore, sia con un terzo sia con lo stesso possessore mediato, purché dall’atto posto in essere con costui derivi il trasferimento del diritto corrispondente ovvero la investitura da parte dello stesso possessore mediato a mezzo della c.d. traditio brevi manu, che si ha quando il bene, già nella disponibilità di un soggetto a titolo di detenzione, venga lasciato allo stesso a titolo di possesso (Cass. n. 2224 del 1978) di modo che, per effetto dell’acquisto del bene, che si trova già presso l’acquirente, il possesso precario si tramuta in possesso uti dominus.
4. Deve, dunque, essere sempre individuata una causa traditionis – vera e reale e non simulata – sia pure riconducibile ad un rapporto tra il detentore non qualificato ed il possessore per conto del quale egli detiene e pur non essendo necessaria la buona fede dell’acquirente circa l’esistenza del diritto del tradens.
5. Nel caso di specie, il comportamento materiale (commissivo, di dismissione, e poi omissivo, di mancato recupero) dell’avente diritto non poteva, ovviamente, considerarsi idoneo, neppure astrattamente, a trasferire un diritto sul bene, tale da legittimare l’interversio possessionis.
Cassazione, sez. II Civile, 30 dicembre 2014, n. 27432
(Pres. Oddo – Rel. Falaschi)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 22 gennaio 1994 N. e G.I. evocavano, dinanzi al Tribunale di Trani, la Società ANONIMA BARI BARLETTA a r.l. chiedendo riconoscersi il loro diritto di proprietà su alcuni terreni siti in Terlizzi intervenuto a seguito di usucapione maturatasi in forza di possesso continuato esercitato sin dal 1959, insieme al padre, e dal 1969, per loro conto.
Si costituiva la società convenuta, la quale contestava la domanda assumendo che il possesso degli attori era stato interrotto da una vicenda ablativa che aveva interessato i terreni in questione; chiedeva, altresì, ed otteneva di chiamare in giudizio il Comune di TERLIZZI perché responsabile dei danni alla stessa società derivati dall’impossibilità di esercitare il suo diritto di proprietà. Si costituiva anche il Comune chiamato, contestando integralmente le pretese ed il giudice adito, espletata istruttoria, anche con c.t.u., rigettava tutte le domande.
In virtù di rituale appello interposto dagli I., con il quale lamentavano l’erronea valutazione delle risultanze processuali da parte dei giudice di prime cure per non avere riconosciuto gli estremi del possesso valutabile ai fini dell’usucapione, la Corte di appello di Bari, nella residenza della società e del Comune appellati, proposto da quest’ultimo appello incidentale quanto alla pronuncia sulle spese di lite, in accoglimento dell’appello principale, dichiarava l’intervenuta usucapione della proprietà del bene.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che sicuramente corretta appariva la sentenza impugnata nella parte in cui aveva qualificato in termini di mera detenzione il rapporto instauratosi tra V.I. (padre degli appellanti) e i beni in questione, che li aveva ricevuti dalla società proprietaria per avere lavorato come casellante e pur dopo la dismissione della ferrovia nel 1959, per cui era ragionevole ritenere che l’occupazione fosse avvenuta per mera tolleranza.
Successivamente però alla morte di V.I., avvenuta nel 1969, il rapporto tra i figli di questo ed i beni si era instaurato non in virtù dell’originaria apprensione, riconducibile allo schema giuridico della detenzione, bensì a quello dei possesso, deponendo in tal senso le prove raccolte, in particolare le dichiarazioni testimoniali di V. e L., che lasciavano intendere come si fosse instaurata una vera e propria signoria di fatto sui beni da parte degli attori, corrispondente allo schema della proprietà, avendo ivi non solo abitato, ma coltivato i terreni limitrofi e persino stabilito la sede della propria attività. Dette prove avevano trovato riscontro nella documentazione acquisita dal c.t.u., più precisamente nell’ordine di demolizione del sindaco dei 5.9.1973 e in quella ulteriore del 19.2.1990 che ordinava a N. X la sospensione dei lavori edilizi abusivi intrapresi sui terreni. Nè poteva essere riconosciuto alcun valore di atti interruttivi dell’usucapione a quelli intervenuti per conto del Comune nell’ambito della procedura ablativa, come tale da un terzo estraneo al rapporto de quo, vicenda espropriativa che peraltro non aveva in alcun modo interessato quei beni, mai occupati dal Comune.
Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione la Società ANONIMA BARI BARLETTA a r.l., sulla base di due motivi, illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c., al quale hanno replicato gli I. con controricorso, mentre il Comune intimato non ha svolto difese in questa sede.
Motivi della decisione
L’esame delle due censure, nelle quali si articola il ricorso, deve essere preceduto da quello della pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalle parti resistenti, sotto il profilo del difetto di specificità e chiarezza dei motivi di ricorso, che oltre a chiedere un inammissibile riesame di questioni di fatto, non spiegherebbe le ragioni tecnico-giuridiche delle violazioni di legge lamentate owero della dedotta insufficienza della motivazione. Secondo la previsione dell’art. 366 bis c.p.c. (introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 e applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate fra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 e quindi, anche nella specie, atteso che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 22 novembre 2007) nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Alla luce di una consolidata giurisprudenza di questa Corte il quesito di diritto previsto dall’art. 366 bis c.p.c. deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di Cassazione in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. In difetto di tale articolazione logico-giuridica il quesito si risolve o in un’astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso, come tale inidonea ad evidenziare il nesso logico-giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure – infine – nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nell’esposizione del motivo.
Per quanto riguarda, invece, la formulazione dei motivi nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, si è sottolineato che, in attuazione di quanto disposto dall’art. 366 bis c.p.c., comma 2 la censura di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve contenere un momento di sintesi (che svolge l’omologa funzione del quesito di diritto per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in modo tale da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (v. Cass. SS.UU. n. 20603 del 2007). Tale momento di sintesi deve, quindi, sostanziarsi in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata e che si traduca in sostanza in una sintetica esposizione del fatto controverso, degli elementi di prova valutati in modo illogico o illogicamente trascurati, del percorso logico in base al quale si sarebbe dovuto pervenire, se l’errore non vi fosse stato, ad un accertamento di fatto diverso da quello posto a fondamento della decisione (Cass. n. 16567 del 2008).
Nella specie le predette esigenze possono ritenersi soddisfatte per essere l’individuazione della questione giuridica sottoposta all’esame della Corte – in particolare, la verifica della natura della occupazione de qua – e delle critiche mosse all’accertamento dei fatti oggetto di un’opera di puntualizzazione compiuta dalla stessa ricorrente, e non già il risultato di un’attività interpretativa rimessa al lettore, deducibile attraverso la lettura integrale della complessiva illustrazione dei motivi, per quanto di seguito si dirà.
L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata.
Venendo all’esame del merito del ricorso, con i due motivi la società ricorrente – denunziando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1141, comma 2, 1164 e 1140 c.c., primo mezzo, nonché vizio di motivazione, secondo mezzo – deduce che erroneamente la corte di merito ha ritenuto cessata nel 1969 la detenzione dei beni de quibus rispetto ai resistenti (detenzione iniziata come qualificata, a causa del rapporto di lavoro dipendente che legava la proprietaria al loro dante causa, divenuta precaria dal 1959, con le dimissioni del dipendente, non seguite dalla restituzione dei terreni), subentrati al padre nell’occupazione degli immobile, in quanto non intervenuta un’idonea attività materiale di specifica opposizione al proprietario possessore ex comma 2 dell’ari. 1141 c.c.. In altri termini, il giudice del gravame ha argomentato il suo convincimento nel senso che la morte del detentore, V.I., avrebbe automaticamente mutato il titolo dell’occupazione in capo agli eredi dello stesso da detenzione in possesso, senza necessità di manifestare atti materiali di opposizione nei confronti del proprietario possessore, dal momento che l’inizio della interversione del possesso è fatta decorrere proprio dal 1969, coincidente con il decesso dell’originario detentore.
Eguali considerazioni vengono svolte sotto il diverso profilo del vizio di motivazione.
A conclusione del primo mezzo è formulato il seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se, ai sensi del 2° comma dell’art. 1141 e dell’art. 1164 c.c, il mero fatto del subentro degli eredi nella detenzione precaria a seguito della morte del loro dante causa, anch’egli detentore precario, quand’anche originariamente qualificato, costituisca di per sé atto di interversione del possesso, come affermato dalla sentenza impugnato, così verificando da tale data la prova dell’esercizio del possesso pieno, come definito dall’art. 1140 c.c. e continuato per vent’anni per accertare e dichiarare ai sensi dell’art. 1158 c. c. l’intervenuta usucapione. Oppure se il subentro degli eredi, per morte del detentore, non muti il titolo di detenzione, ancorchè precaria, richiedendosi anche nei loro confronti, ai sensi dell’art. 1141 c.c. un atto di interversione del possesso che si manifesti in opposizione al proprietario possessore in modo chiaro, preciso ed inequivocabile nei suoi elementi costitutivi di soggetto, di tempo e di luogo, di talchè solo da tale momento e con riferimento a tali soggetti e tali luoghi, inizi a decorrere, ai sensi dell’art. 1164 c.c. il tempo utile dei vent’anni per l’acquisto per usucapione, se risulta accertato per il termine previsto dall’art. 1158 c.c. l’esercizio del possesso pieno, esclusivo e continuativo”. I due motivi – da trattare congiuntamente per la evidente connessione logica ed argomentativa – sono da accogliere.
Occorre premettere che non ha formato oggetto di impugnazione, così che sul punto è intervenuto il giudicato, la qualificazione data dai giudici di merito al rapporto di V.I., dante causa dei resistenti, con la cosa come detenzione nascente dalla messa a disposizione del bene come abitazione di servizio, divenuta non qualificata con le dimissioni del dipendente. Ed, invero, la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto su una cosa non opera, a norma dell’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario – possessore, e, non essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice (o precaria) anche l’attività di colui che continua a disporre della cosa dopo il venire meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità (cfr. Cass. 18 dicembre 1993 n. 12569; Cass. 22 gennaio 1994 n. 622).
Ne deriva che per la trasformazione della detenzione in possesso è necessario un mutamento del titolo, che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare, ai sensi dell’art. 1141 c.c., o da una causa proveniente da un terzo oppure dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario – possessore (cfr. Cass. 4 dicembre 1995 n. 12493), quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene (cfr. Cass. 19 maggio 1982 n. 3086), e non soltanto da atti corrispondenti all’esercizio del possesso, come la mera mancata restituzione del bene, di per sè denuncianti unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass. 20 maggio 2002 n. 7337).
Di converso la Corte territoriale, pur dando per scontata la necessità della interversione e, sulla base di tale corretta premessa, nonché di quella ulteriore che il padre degli X, casellante in pensione della ex tranvia Bari-Barletta, aveva continuato ad occupare gli immobili oggetto della controversia, dopo le dimissioni della stessa nel 1959 e sino alla sua morte avvenuta nel 1969, per mera tolleranza della società proprietaria, ha ritenuto di ravvisare, nelle specie, il mutamento del titolo di detenzione in possesso per causa proveniente dagli eredi del mero detentore, che alla morte del padre hanno continuato ad esercitare sui beni il potere di fatto, nella stessa condotta del dante causa, lasciati questi, dopo aver dismesso la ferrovia, nella completa ed indisturbata disponibilità dell’immobile, disinteressandosi completamente ad essi, pur non ignorando i dirigenti della società la situazione di fatto e, con ciò, determinando un mutamento non solo soggettivo ma anche oggettivo del rapporto tra le persone e la cosa. La Corte, dunque, nel ravvisare il mutamento del titolo, non ha considerato la seconda ipotesi prevista dall’art. 1141, comma 2, c.c. (che, peraltro, qualificata dottrina nonché la giurisprudenza di questa Corte ritengono inapplicabile in caso di detenzione non qualificata: Cass. n. 2002 del 1992; Cass. n. 12493 dei 1995), ed ha circoscritto la sua indagine sulla interversione alla sola prima ipotesi di quelle previste dalla norma citata (la causa proveniente dal terzo, tale dovendosi presumere la qualifica attribuita dal giudice di merito agli eredi del mero detentore). La Corte barese, nel giudicare la fattispecie concreta, avendo ravvisato la causa proveniente dal terzo (ossia la condotta degli eredi di V.I.) nel mero comportamento del soggetto possessore prescindendo da qualsiasi atto di trasferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, è incorsa nella denunziata violazione di legge.
Ed, invero, il Collegio osserva che non può costituire titolo idoneo a mutare la detenzione in possesso, e pertanto non può configurare la “causa proveniente dal terzo”, contemplata dall’art.1141 c.c., il mero comportamento materiale del terzo medesimo (nella specie: la dismissione della linea ferroviaria, l’omesso recupero della disponibilità del bene detenuto a titolo precario, per ragioni di servizio, dal dante causa degli X ed il proseguimento di detto rapporto con i beni da parte degli eredi dell’ex casellante). La causa proveniente da un terzo, può, nella ipotesi considerata, consistere in un (qualsiasi) atto di trasferimento del diritto, compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente, idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità ed efficacia dell’atto medesimo. Il mutamento della detenzione in possesso può derivare da un negozio posto in essere dal detentore, sia con un terzo sia con lo stesso possessore mediato, purché dall’atto posto in essere con costui derivi il trasferimento del diritto corrispondente ovvero la investitura da parte dello stesso possessore mediato a mezzo della c.d. traditio brevi manu, che si ha quando il bene, già nella disponibilità di un soggetto a titolo di detenzione, venga lasciato allo stesso a titolo di possesso (Cass. n. 2224 del 1978) di modo che, per effetto dell’acquisto del bene, che si trova già presso l’acquirente, il possesso precario si tramuta in possesso uti dominus.
Deve, dunque, essere sempre individuata una causa traditionis – vera e reale e non simulata – sia pure riconducibile ad un rapporto tra il detentore non qualificato ed il possessore per conto del quale egli detiene e pur non essendo necessaria la buona fede dell’acquirente circa l’esistenza del diritto del tradens (Cass. 5 dicembre 1990 n. 11691).
Nel caso di specie, il comportamento materiale (commissivo, di dismissione, e poi omissivo, di mancato recupero) dell’avente diritto non poteva, ovviamente, considerarsi idoneo, neppure astrattamente, a trasferire un diritto sul bene, tale da legittimare l’interversio possessionis (Cass. 3 ottobre 2000 n. 13104).
Per completezza si osserva che anche la motivazione della sentenza appare del tutto equivoca laddove afferma che un impossessamento dei beni da parte degli X figli ha tratto occasione dalla morte del padre detentore, argomentando che “dopo tale data il rapporto tra gli attori ed i beni, si è instaurato, non può che essere frutto di una originaria apprensione… “, giacchè la presunzione di possesso utile ad usucapionem di cui all’art. 1141 c.c. non opera quando la relazione con la cosa consegua non ad un atto volontario d’apprensione, ma ad un atto o ad un fatto del proprietario – possessore, dal momento che l’attività del soggetto che dispone della cosa, configurabile come semplice detenzione, non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario.
Il ravvisato errore di diritto impone la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Bari, che riesaminerà la controversia alla luce dei principi sopra illustrati.
II giudice del rinvio provvederà, ai sensi dell’art. 85, comma 4, c.p.c., anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso;
cassa la decisione impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra Sezione della Corte di appello di Bari.