L’irrilevanza della “maggior cautela nell’esercizio del meretricio”: note a Cassazione 40270/2015 (dott.ssa C. Pezza)

 L’irrilevanza della “maggior cautela nell’esercizio del meretricio”: note a Cassazione 40270/2015

            Con la sentenza n. 40270 del 7 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha preso posizione sui rapporti sussistenti fra i reati di riduzione in schiavitù, prostituzione coatta connessa allo sfruttamento sessuale, atti osceni in luogo pubblico, e la causa di giustificazione dello stato di necessità.

            La vicenda oggetto di analisi ineriva una giovane rumena, condannata in primo grado ed in appello per atti osceni in luogo pubblico, in quanto appartatasi per un rapporto sessuale con un cliente occasionale in una pubblica via.

            La Suprema Corte ripercorre, nella sua ricostruzione, l’iter argomentativo della Corte d’Appello, soffermandosi in particolar modo sulle carenze motivazionali della sentenza di secondo grado.

            La questione fondamentale riguarda il mancato riconoscimento della causa di giustificazione ex art. 54 codice penale, in quanto la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare con la dovuta attenzione la condizione di vita della donna.

            Nello specifico, risulterebbe completamente ignorata la rilevanza di due sentenze passate in giudicato, nella quali la giovane rumena era persona offesa nei delitti di riduzione in schiavitù e servitù e di prostituzione coatta connessa allo sfruttamento sessuale, condizioni nelle quali era stata costretta a vivere per numerosi anni.

La Cassazione sovverte  le conclusioni del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, esaminando i rapporti fra i reati di riduzione in schiavitù e prostituzione coatta connessa allo sfruttamento sessuale e quello imputato alla donna di atti osceni in luogo pubblico, censurando differenti profili della ricostruzione operata con la sentenza di secondo grado.

            Anzitutto, la Cassazione qualifica come immotivato il percorso logico argomentativo a sostegno della conferma di condanna a carico dell’imputata.

La Corte sottolinea, infatti, come non possa condiversi l’assunto per il quale sarebbe stato onere della ricorrente appartarsi in luogo più isolato, e non intrattenersi nel rapporto occasionale in una pubblica via.

Proprio tale scelta – da intendersi secondo la Corte d’Appello come volontaria e consapevole – di consumare l’amplesso in piena vista, integrerebbe il reato di atti osceni in luogo pubblico.

La prostituta non potrebbe avvalersi della scriminante ex articolo 54 c.p. a fronte del fatto che non sussisterebbero i requisiti per invocare la causa di giustificazione, ovvero l’involontarietà nella causazione del pericolo e l’attualità del pericolo stesso. Rileverebbe inoltre la scelta della giovane di non rivolgersi alle Forze dell’Ordine per ottenere ausilio.

            Nelle argomentazioni della sentenza di secondo grado colpisce l’utilizzo della terminologia usata dal collegio, in quel contenuto cui la Cassazione si riferisce quale “insufficienza motivazionale”, ritenuta viziata da “genericità” in quanto “affermazione apodittica”.

            Il rilievo mosso concerne una non meglio identificata “maggior cautela nell’esercizio del meretricio”, quasi a significare che la scelta di non recarsi in un angolo buio per la consumazione del rapporto costituisca una specifica condizione per evitare la comminatoria di reato. Questa maggior cura nello scegliere il luogo in cui appartarsi assurgerebbe in tal modo a possibile causa di esclusione della scriminante dello stato di necessità nel delitto di atti osceni in luogo pubblico.

            Appare evidente che una simile argomentazione potrebbe perfino essere foriera di spunti molto polemici, in relazione ai presunti “doveri” da riconoscere in capo alle donne che si prostituiscono circa la scelta del posto in cui il rapporto ha effettivamente luogo. Un’ affermazione del genere, inoltre, parrebbe allo stesso tempo attribuire alla prostituta una sorta di potere di trattativa circa le modalità della prestazione sessuale, potere che in concreto non solo non esercita, in quanto nella maggior parte dei casi obbligata a vendersi, ma che peraltro non avrebbe alcuna rilevanza in sede probatoria.

            In secondo luogo – in un’ottica argomentativa esente da vizi di lacunosità e da non meglio definiti oneri ulteriori da riconoscere in capo alle giovani dedite alla prostituzione – non è possibile, secondo la Cassazione, prescindere dallo stato di vessazione psico-fisica cui l’imputata si trovava durante la commissione dell’atto.

Su questo aspetto infatti occorre soffermarsi, per comprendere le ragioni alla base del riconoscimento della scriminante dello stato di necessità.

            La Corte è molto attenta nel ricostruire una condizione di vita terribile, richiamata anche attraverso una scelta terminologica altamente evocativa: l’utilizzo di termini quali “costrizione” e  “soggiogamento” culmina nella statuizione secondo la quale la costrizione abituale e reiterata cui sono sottoposte le donne ridotte in schiavitù e forzate a prostituirsi “trasforma l’essere umano dallo stato libero e quindi dalla possibilità di autodeterminare con la volontà i propri liberi comportamenti, esercitando le scelta in ordine alla propria esistenza, in un soggetto asservito, ossia utilizzato a fini di profitto, quasi come una ‘res’ o merce, nello sfruttamento”.

            Numerosi sono inoltre i richiami alla normativa sovranazionale ed europea, emanati a protezione e tutela della condizione di estrema sofferenza fisica, psicologica e morale nella quale sono tenute le donne costrette a prostituirsi.

Si rimanda infatti al Protocollo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine organizzato transnazionale del 2000, c.d. Trafficking, ratificata con la legge 16 marzo 2006, n. 146, ed alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, ratificata con la legge 2 luglio 2010, n. 108.

Alle regolamentazioni de quibus vanno altresì aggiunte la direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani, e la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.

            La riduzione in schiavitù e lo sfruttamento della prostituzione ledono la persona nella sua libertà di autodeteminarsi, inerendo una molteplicità di diritti fondamentali dell’individuo fra loro connessi e costituzionalmente tutelati: vita, salute, libertà (di movimento, sessuale, di espressione), dignità. La loro rilevanza nella complessiva analisi delle condizioni di vita della donna non può sottacersi, ma al contrario deve considerarsi nel bilanciamento dei diritti da tutelare.

            Decontestualizzare la prestazione sessuale dalla condizione di asservimento, dunque, non potrebbe far altro che portare a conclusioni non condivisibili, specialmente in una prospettiva ricostruttiva che tenga conto non solo della situazione di pericolo attuale e non volontariamentte causato, ma che consideri anche il quadro generale di sottomissione della persona offesa. D’altronde, come sottolineato, nulla quaestio sul passaggio in giudicato delle sentenze di condanna per riduzione in schiavitù comminate nei confronti degli individui che avevano perpetrato le condotte di soggiogamento, con conseguente possibilità di considerare configurabile l’operatività dello stato di necessità in relazione al reato di atti osceni imputato alla giovane prostituta.

            Allo stesso modo, si ritiene non correttamente applicato il principio secondo cui lo stato di necessità non può riconoscersi nei casi in cui la vittima abbia la concreta possibilità di rivolgersi alle autorità. Anche sotto questo profilo, infatti, la ricostruzione della Corte d’Appello, che si è basata sui precedenti in materia, risulta a parere della Cassazione semplicisticamente richiamante tale giurisprudenza “in poche battute”, senza tenere in considerazione le complessive condizioni di vita della donna rumena, e finendo in tal modo per “banalizzare un fenomeno criminale gravissimo che lede in maniera significativa e permanente i diritti umani”.

dott.ssa Chiara Pezza 

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