Il Tribunale di Cagliari condannava Tizia dichiarandola colpevole del reato di cui all’art. 660 c.p. perché, per petulanza, attraverso reiterati messaggi telefonici di contenuto ingiurioso e minaccioso recava molestia a Caio.
Nel corso del giudizio emergeva che i messaggi erano stati, invero, inviati anche dalla madre di Tizia e che si era trattato, più che di un’azione unilaterale molesta, di una discussione, a mezzo di SMS, fra l’imputata, la madre e la persona offesa che aveva tratto origine da ragioni di tipo familiare. Emergeva, inoltre, uno scambio reciproco di offese tra imputata e persona offesa.
La Suprema Corte, con la pronuncia che si segnala, ha annullato la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste ribadendo che non sia configurabile il reato di molestia o disturbo alle persone previsto dall’art. 660 c.p. allorché vi sia reciprocità o ritorsione delle molestie, in quanto in tal caso non ricorre la condotta tipica descritta dalla norma, e cioè la sua connotazione “per petulanza o altro biasimevole motivo”.
Com’è noto, infatti, il reato previsto dall’art. 660 c.p. e la molestia che ne contraddistingue il nucleo centrale d’offesa ha come elemento costitutivo il particolare motivo che connota la condotta dell’autore e si obiettivizza nell’azione normativamente descritta, che deve essere compiuta per petulanza o per altro biasimevole motivo, aspetto che entra nella tipicità strutturale della fattispecie e ne integra un requisito costitutivo.
Nell’ipotesi di reciprocità e/o di ritorsione delle molestie, pertanto, manca quest’ultima condizione, cui è subordinata l’illiceità penale del fatto.
Corte di Cassazione penale sentenza n. 7067 del 14 febbraio 2019