Se il creditore istante il fallimento è astrattamente debitore della fallita può farsi valere il rapporto di dare ed avere in fase prefallimentare? Ed in tal caso il creditore istante è legittimato ad instare per il fallimento?

 

Corte di Appello di Bari, sezione I civile, 10/02/2020, n. 300

(Presidente rel. Salvatore Grillo)

MASSIMA

In tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento, l’art. 6 L.F., laddove stabilisce che esso è dichiarato, fra l’altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell’istante (Cfr. Cass. Sez. U, n. 1521/2013; Sez. 1, n. 11421/2014; n. 30827/2018).

La norma in esame, invero, attribuisce la legittimazione ad instare per il fallimento in capo al soggetto qualificato come “creditore”, senza alcuna specificazione ulteriore, e quindi in capo a colui che vanta un credito nei confronti dell’imprenditore, non necessariamente certo, liquido, esigibile, ma anche non ancora scaduto o condizionale, non ancora munito di titolo esecutivo, sia pure idoneo in prospettiva a giustificare un’azione esecutiva (In termini cfr. anche Cass. n. 3472/2011), e che deve essere oggetto dell’imprescindibile delibazione incidentale del giudice fallimentare (In termini, cfr. Cass. n. 24309/2011 e S.U. n. 1521/2013) proprio in quanto non esiste più l’iniziativa d’ufficio.

Ne consegue che le contestazioni pendenti sul credito non precludono la valutazione della sussistenza della legittimazione da parte del creditore ex art. 6 l.f., alla stregua della valutazione incidentale che concluda positivamente per il riconoscimento non del credito in sé, ma della qualità di creditore, mentre il fatto che il credito debba ridursi o compensarsi con controcrediti incide sulla valutazione dello stato di insolvenza (Così, in motivazione, Cass. Sez. 1, n. 30827/18.)

(a cura di Luca D’Apollo)

SENTENZA

OMISSIS

La società reclamante si duole della pronuncia dichiarativa del suo fallimento, sostenendo: l’insussistenza dei crediti vantati dalle società istanti per il fallimento e, quindi, il difetto di legittimazione di queste ultime, ex art. 6 L.F.; l’insussistenza dello stato d’insolvenza, ex art. 5 L.F.; la natura agricola dell’attività imprenditoriale della società attinta dalla sentenza dichiarativa di fallimento, ostativa alla

Si sono costituiti in giudizio sia i creditori istanti per il fallimento sia la curatela fallimentare, invocando il rigetto dell’opposizione.

Ciò posto, alla luce delle allegazioni delle parti e della documentazione acquisita, questa Corte ritiene il reclamo totalmente infondato.

Quanto alla lamentata carenza di legittimazione in capo alle società istanti per il fallimento, va richiamo il costante e condiviso orientamento del Supremo Collegio, secondo cui, in tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento, l’art. 6 L.F., laddove stabilisce che esso è dichiarato, fra l’altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell’istante (Cfr. Cass. Sez. U, n. 1521/2013; Sez. 1, n. 11421/2014; n. 30827/2018).

La norma in esame, invero, attribuisce la legittimazione ad instare per il fallimento in capo al soggetto qualificato come “creditore”, senza alcuna specificazione ulteriore, e quindi in capo a colui che vanta un credito nei confronti dell’imprenditore, non necessariamente certo, liquido, esigibile, ma anche non ancora scaduto o condizionale, non ancora munito di titolo esecutivo, sia pure idoneo in prospettiva a giustificare un’azione esecutiva (In termini cfr. anche Cass. n. 3472/2011), e che deve essere oggetto dell’imprescindibile delibazione incidentale del giudice fallimentare (In termini, cfr. Cass. n. 24309/2011 e S.U. n. 1521/2013) proprio in quanto non esiste più l’iniziativa d’ufficio.

Ne consegue che le contestazioni pendenti sul credito non precludono la valutazione della sussistenza della legittimazione da parte del creditore ex art. 6 l.f., alla stregua della valutazione incidentale che concluda positivamente per il riconoscimento non del credito in sé, ma della qualità di creditore, mentre il fatto che il credito debba ridursi o compensarsi con controcrediti incide sulla valutazione dello stato di insolvenza (Così, in motivazione, Cass. Sez. 1, n. 30827/18.)

Orbene, nel caso in esame, il credito di € 115.679,00, vantato da OMISSIS, trova riscontro in plurime fatture commerciali (Nn. 752/17, 897/17, 1138/17, 1008/17 e 1223/17 ), oltre che nella copia, autenticata da notaio, dell’estratto del registro fatture vendita, documentazione certamente idonea a costituire valido supporto per l’emissione di decreto ingiuntivo, quand’anche suscettibile di opposizione, e quindi per attribuire alla società in esame la qualità di creditore, ai fini della legittimazione della istanza di fallimento. D’altronde, non risulta che, prima della proposizione dell’istanza di fallimento, la OMISSIS abbia giammai contestato la sussistenza del saldo creditorio ex adverso vantato e reclamato con missiva raccomandata del 18/12/2017, ricevuta dalla società debitrice il successivo 21/12/2017 (Cfr. copia della missiva e dell’avviso di ricevimento A.R., allegata al fascicolo di parte della OMISSIS.). In tal senso deve intendersi il rilievo – oggetto di specifica censura da parte della difesa della società fallita –, formulato nella sentenza dichiarativa di fallimento, ove viene dato atto della mancata contestazione del debito, evidentemente contestato soltanto in sede prefallimentare, a distanza di oltre un anno dall’emissione delle fatture e dall’invio della richiesta formale di pagamento.

Quanto al credito vantato da OMISSIS, esso è portato da due titoli (Assegno bancario di conto corrente 0313170957 del 28/8/2018 di € 82.738,21 e pagherò cambiario di €52.664,84 con scadenza 20/10/2018), emessi da OMISSIS, rimasti impagati e protestati come emerge dal riscontro documentale allegato in copia dalla difesa della società creditrice (Cfr. allegati contenuti nel fascicolo di parte).

Al riguardo, va evidenziato come i predetti titoli si inseriscano in un accordo, intervenuto tra le parti, in pendenza di precedente istanza di fallimento, poi abbandonata proprio in forza del suddetto accordo, come si evince dall’epoca di emissione, quanto meno, del vaglia cambiario (4/6/18). Quanto a quest’ultimo, è in atti anche copia di nota PEC, inviata da OMISSIS alla società creditrice, in data 28/8/2018, con la quale, con evidente riferimento al titolo cambiario in oggetto, la società si dichiara pronta al pagamento. L’invio del suddetto messaggio di posta certificata non risulta contestato dalla difesa della società debitrice (Cfr. verbale di udienza prefallimentare del 18/12/2018), che si è limitata ad evidenziare l’anteriorità della missiva rispetto ad un successivo ricalcolo delle poste di dare-avere, constatando un residuo saldo a credito per la società qui reclamante, tanto da indurla ad avvisare giudizio civile per l’accertamento negativo del credito, posta a fondamento dell’istanza di fallimento.

È di tutta evidenza che, a fronte della documentazione costituita da titoli di credito e da dichiarazione ricognitiva provenienti certamente dalla società fallita, non è possibile negare la qualità di creditore alla OMISSIS, ai fini e nei sensi di cui all’art. 6 L.F., stante l’inversione dell’onere della prova, a mente dell’art. 1988 cod. civ., che non risulta assolto in questa sede, non essendo sufficienti a tal fine le mere allegazioni della parte debitrice.

Quanto precede è sufficiente per ravvisare in capo ad entrambe le società istanti la legittimazione alla proposizione del ricorso per la dichiarazione di fallimento di OMISSIS, a prescindere da pretese creditorie, per altro di incerta sussistenza, ventilate dalla società fallita.

Quanto al presupposto oggettivo di cui all’art. 5 L.F., l’insolvenza va valutata in relazione alla capacità dell’impresa di rimanere sul mercato, adempiendo regolarmente le obbligazioni a proprio carico.

È stato, invero, osservato ripetutamente dal Supremo Collegio che, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza va desunto, più che dal rapporto tra attività e passività, dalla possibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni (Cfr. Cass. Sez. 1, n. 29913/2018; n. 2830/2001.)

Orbene, l’incapacità di OMISSIS di continuare a rimanere sul mercato, con regolare adempimento delle proprie obbligazioni, è conclamata, in primo luogo, dalla dismissione del patrimonio aziendale, con la cessione a terzi dei cespiti immobiliari (avvenuta con atti del 12/4/2017 e 1/3/2019), l’abbandono dei terreni di terzi, condotti in fitto, lo scioglimento del rapporto di lavoro con le maestranze (Tanto è riferito dal curatore nella relazione ex art. 33 L.F. e dallo stesso amministratore della società fallita, in sede di audizione innanzi al curatore, avvenuta il 24/10/2019 (cfr. allegati al fascicolo telematico della curatela fallimentare). L’amministratore stesso della società fallita non ha fatto mistero dell’inattività della società da oltre un anno, rispetto all’epoca della sua deposizione, e della volontà di mettere in liquidazione la compagine sociale (Cfr. verbale di audizione dell’amministratore allegata al fascicolo telematico del curatore).

Alle considerazioni che precedono, già di per sé sufficienti per ritenere conclamato lo stato d’insolvenza nei sensi sopra chiariti in punto di diritto, si aggiungono ulteriori rilievi, tutti inequivocabilmente convergenti nel lumeggiare l’incapacità dell’impresa di rimanere sul mercato, onorando in maniera regolare le proprie obbligazioni: i protesti elevati in danno della società debitrice, non solo quelli relativi al debito cambiario nei confronti di OMISSIS; la pesante esposizione debitoria risultante dagli ultimi bilanci, in continua inesorabile crescita, fino a raggiungere l’importo di € 2.713.115 nel 2018 (Cfr. relazione ex art. 33 L.F. a pag. 4); l’assenza di utili significativi (il maggior utile raggiunto è quello del 2016, pari ad € 53.351,00), a fronte delle suddette pesanti esposizioni debitorie (€ 1.798.592,00 nel 2016), con una ingente perdita maturata nel 2018, pari ad € 1.617.765 (Cfr. relazione ex art. 33 L.F. a pag. 4.) ; l’ammontare dei crediti insinuatisi al passivo fallimentare, non esclusa l’Agenzia delle Entrate, per un complessivo importo di poco inferiore ad € 800 mila.

Della definitiva dismissione del patrimonio aziendale v’è, poi, riscontro non solo nelle dichiarazioni dell’amministratore, rese al curatore, ma anche nelle attività fallimentari di quest’ultimo che non ha rinvenuto se non pochi beni di infimo valore da acquisire all’attivo della massa, senza considerare che la società ha anche estinto ogni rapporto lavorativo, cessando di fatto l’attività imprenditoriale (Cfr. verbale d’inventario del 27/11/2019, allegato al fascicolo telematico della curatela fallimentare).

Per inciso, è appena il caso di evidenziare che, alla luce delle esposte considerazioni, l’istanza di sospensione dell’attività liquidatoria, ex art. 19 L.F., si appalesa del tutto priva di consistenza e fondamento, non potendosi in concreto rinvenire i paventati rischi derivabili, sia per la continuità aziendale (ormai ferma da epoca anteriore all’apertura della procedura concorsuale), sia per le sorti del personale dipendente (anchè esso già messo in libertà), dalla prosecuzione dell’attività liquidatoria da parte del curatore fallimentare, nelle more del giudizio ex art. 18 L.F. Ai fini della ricorrenza dello stato d’insolvenza, poi, è appena il caso di sottolineare l’irrilevanza della assenza di iniziative esecutive in danno della società debitrice, sia perché l’idoneità a soddisfare con regolarità i creditori (che escluderebbe lo stato d’insolvenza) implica che gli stessi non abbiano l’onere di attivarsi in executivis per ottenere l’adempimento, in condizioni di normalità spontaneo, sia perché l’iniziativa esecutiva presuppone che vi sia un patrimonio capiente, nel caso in esame ormai dismesso. Neppure fondato è l’ulteriore motivo di reclamo, attinente la dedotta natura agricola dell’attività imprenditoriale, con prevalente collegamento della stessa all’attività di coltivazione della terra. È pur vero, al riguardo, che l’esenzione dell’imprenditore agricolo dal fallimento presuppone, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, ovvero lo svolgimento delle attività connesse di cui all’art. 2135, comma terzo, cod. civ., quando esse assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura.

È anche vero, tuttavia, che il corrispondente onere probatorio, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione, ex art. 2135, comma primo, cod. civ., grava su chi invochi tale esenzione (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16614 del 08/08/2016; Cass. nn. 22978/16 e 831/2018, nonché, in motivazione, 28984/2019; nello stesso senso, più in generale, in ordine all’onere della prova a carico del debitore, attinto dalla istanza di fallimento, circa la sussistenza di ragioni ostative all’apertura della procedura concorsuale a suo carico, cfr. Cass. Sez. 6-1, n.12023/11.)

Nel contesto come sopra delineato, quindi, l’invocata C.T.U. si appalesa meramente esplorativa e, come tale, finalizzata ad aggirare la regola di giudizio ex art. 2697 cod. civ. Per quanto sopra esposto, il reclamo merita integrale rigetto. Stante l’ammissione al patrocinio a spese dello stato della curatela fallimentare, ai sensi dell’art. 144 d.p.r. n. 115/02, non si ritiene di applicare alla fattispecie, il principio, già altre volte osservato da questa Corte, secondo cui “il provvedimento di rigetto del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non necessita di una statuizione sulle spese di quel grado di giudizio perché il curatore, avendo già titolo per acquisire e liquidare tutti i beni del reclamante, non ha bisogno di un’ulteriore condanna a rifondere tali spese ai danni di quest’ultimo” (Così Corte d’Appello di Napoli, 31 marzo 2010).

Invero, con l’ammissione al patrocinio a carico dell’Erario della parte vincitrice, la pronuncia di condanna del soccombente alla rifusione della spese deve essere resa in favore dello Stato, a mente dell’art. 133 d.p.r. n. 115/02, onde consentire a quest’ultimo il recupero di quanto eventualmente sborsato. A carico delle società reclamante vanno, inoltre, poste le spese processuali sostenute dai creditori istanti (per la OMISSIS v’è richiesta di distrazione ex art. 93 c.p.c. da parte dell’avv. Savino Lacerenza, procuratore costituito), liquidate come in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55/14 e succ. modif. Infine, è dovuta dall’opponente, stante il rigetto della sua impugnazione, l’integrazione del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Bari, prima sezione civile, definitivamente pronunciando sul reclamo ex art. 18 L.F. proposto da OMISSIS, in persona del legale rappresentante pro-tempore, nei confronti del suo Fallimento, in persona del curatore, e di OMISSIS e OMISSIS, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, avverso la sentenza n. 45 pubblicata l’11/10/2019, resa dal Tribunale di Foggia, disattesa ogni diversa domanda, eccezione e deduzione, così provvede:

1) rigetta il reclamo;

2) condanna la società reclamante alla rifusione delle spese processuali del presente grado in favore della curatela fallimentare e, per essa, dello Stato, a mente dell’art. 133 d.p.r. n. 115/02, e delle società istanti per il fallimento, che liquida, per ciascuna ed a titolo di compensi, in € 3.400,00, oltre rimborso spese generali (15%), IVA e CPA, come per legge;

3) a mente dell’art. 93 c.p.c., dispone la distrazione delle spese processuali, come sopra liquidate sub 3) alla OMISSIS, in favore del suo procuratore antistatario, avv. Savino Lacerenza;

4) pone a carico della società reclamante l’obbligo di integrazione del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.

Così deciso in Bari, nella camera di consiglio della prima sezione civile, addì 4/2/2020.

Il Presidente est.

Salvatore Grillo

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