Profili di illegittimità delle iniziative all’estero finanziate a carico dei bilanci comunali (D. Immordino)

PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ DELLE INIZIATIVE ALL’ESTERO FINANZIATE A CARICO DEI BILANCI COMUNALI

Dario Immordino

 

 

La funzionalizzazione dell’attività amministrativa al soddisfacimento delle istanze e dei bisogni della collettività implica che l’esercizio dei poteri pubblici debba essere improntato alla piena ottemperanza ai principi di buona amministrazione sanciti dall’art. 97 Cost.

Sotto questo profilo l’efficacia l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, corollari del principio di buon andamento, costituiscono un vincolo ineludibile da parte delle amministrazioni pubbliche, cui viene fatto carico di gestire in maniera razionale le risorse prelevate dalla collettività secondo i principi e le regole di sana gestione finanziaria.

Ciò impone agli agenti pubblici attente valutazioni in ordine alla produttività della spesa, ed in particolare alla stretta strumentalità delle risorse erogate rispetto alla realizzazione delle finalità concretamente perseguite dall’amministrazione di appartenenza, da accertarsi sulla base di una attenta analisi del rapporto tra gli obiettivi conseguiti  ed i costi sostenuti per il loro conseguimento.

In tal senso lo spazio valutativo riconosciuto agli amministratori pubblici nella individuazione dell’interesse collettivo non può costituire lo strumento attraverso il quale realizzare inammissibili forme di deroga ai principi di buona gestione amministrativa e finanziaria, dirottando risorse pubbliche al soddisfacimento di generici fini istituzionali sulla base di “personali ed estemporanee valutazioni” che prescindano da una attenta ponderazione della proporzionalità tra benefici conseguiti dalla collettività ed oneri sostenuti dall’amministrazione[1].

Quando la spesa per la cura di un pubblico interesse  non è puntualmente disciplinata dalla legge nel suo an, quomodo e quantum,[2] l’operatore deve adottare le sue scelte sulla base di una puntuale attività di programmazione, che consenta di individuare obiettivi specifici suscettibili di una misurazione ex post, e di criteri tecnico giuridici che permettano di valutarne il grado di realizzazione, e di misurare l’efficacia e la congruità dei costi sostenuti.

 Questa esigenza risulta ancora più stringente nell’ambito di un contesto, come quello attuale, caratterizzato da pressanti esigenze di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica al fine di garantire il conseguimento degli imprescindibili obiettivi di equilibrio e stabilità finanziaria.

Ciò richiede un impegno solidale di tutti gli enti territoriali erogatori di spesa, soprattutto nell’attuale  congiuntura sfavorevole che impone a tutti i soggetti pubblici l’ottemperanza a stringenti regole di ortodossia finanziaria.

A tal fine le analisi più accreditate rilevano che per far fronte all’emergenza finanziaria non è sufficiente limare al margine la spesa pubblica, ma bisognerà, garantirne una sostanziale riduzione in termini reali rispetto ai livelli ordinari di questi anni.

Tuttavia è evidente come gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica debbano essere declinati in modo da non pregiudicare la funzionalità delle amministrazioni pubbliche e la continuità nell’erogazione di servizi e prestazioni fornite ai cittadini.

In un simile contesto il punto di equilibrio tra garanzia dei diritti dei cittadini e salvaguardia della stabilità di bilancio risiede nei principi di efficacia ed efficienza, ed in particolare nelle regole di strumentalità e proporzionalità dei costi sostenuti dalle amministrazioni pubbliche rispetto alla realizzazione dell’interesse collettivo.

Sotto questo profilo costituisce una regola generale inderogabile quella per cui le risorse prelevate dalla collettività devono essere impiegate in attività, servizi e prestazioni non soltanto coerenti, ma  effettivamente strumentali rispetto alle specifiche finalità perseguite da ogni ente pubblico.

Ciò vale a maggior ragione per le spese facoltative, cioè per quegli oneri non essenziali per l’efficace svolgimento  delle funzioni di competenza dell’amministrazione.

La riduzione di queste voci di costo, infatti, non pregiudica l’efficiente  svolgimento delle attività, dei servizi e delle prestazioni demandate ad una data istituzione, e di conseguenza le spese relative possono essere sostenute solo se effettivamente rispondenti all’interesse pubblico perseguito dall’Ente.

Tra queste spese facoltative rientrano senz’altro i costi  per le missioni al di fuori della sede di servizio da parte degli amministratori pubblici  che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza contabile, possono ritenersi legittime solo in presenza dei seguenti presupposti: rispondenza della missione ai fini istituzionali dell’ente;  partecipazione di soggetti che svolgano funzioni o attività ricollegabili ai predetti fini;  prova dell’effettiva utilità della missione medesima[3].

A tale riguardo è stato chiarito come, ai fini della dimostrazione della strumentalità delle attività e dei costi relativi ai fini istituzionali, non sia sufficiente il mero rinvio ai motivi della missione, ma bisogni evidenziare il vantaggio concretamente conseguito dall’ente pubblico [4]”: non basta, insomma, che la missione riguardi obiettivi latamente riconducibili all’attività dell’ente o, a maggior ragione, astrattamente riferibili ad un generico interesse della collettività locale, ma è necessario dimostrare l’esistenza di un tangibile collegamento con i fini istituzionali perseguiti in termini di diretta ed immediata utilità e strumentalità dell’iniziativa con lo svolgimento dell’attività amministrativa.

In merito la giurisprudenza contabile in diverse occasioni ha avuto modo di chiarire che i comuni non possono giustificare  esborsi di risorse pubbliche sulla base di esigenze di promozione all’estero dell’immagine dell’amministrazione o del contesto produttivo territoriale, poiché nel nuovo assetto costituzionale “gli enti locali c.d. “minori” (per ampiezza territoriale), non sono chiamati a svolgere attività all’estero o, comunque, a carattere internazionale” [5]

.Ciò perché a seguito del processo di federalizzazione dell’ordianmento, avviato dal processo di federalismo a Costituzione invariata degli anni ’90 e consolidatosi con la riforma costituzionale del 2001 ,ai comuni sono state attribuite le funzioni amministrative concernenti la cura degli interessi e la promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, con il limite delle competenze  che richiedano un sovraordinato esercizio.

In altri termini le riforme dell’ultimo ventennio hanno notevolmente valorizzato il ruolo dei comuni di enti a competenza generale cui è demandata la cura dei primari interessi delle comunità di riferimento, ma con specifico riferimento “alle  funzioni e ai compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori”, e con il limite insormontabile espresso delle funzioni che richiedano un sovraordinato esercizio unitario a livello regionale.

In tal senso ad esempio il 2° comma dell’art. 3 del decreto legislativo n. 112/1998, richiama la dimensione territoriale ed organizzativa dell’ente destinatario, quale presupposto da tenere fermo ai fini dei conferimenti di funzioni delle regioni agli enti locali, e la legge n. 59/1997 (c.d. legge Bassanini), ha previsto il “conferimento” alle Regioni ed agli enti locali di “… tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori, ed ha escluso espressamente dalla materia dei “conferimenti” statali agli enti locali, le funzioni e i compiti relativi – tra l’altro – alle “attività promozionale all’estero di rilievo nazionale”.

 Nell’ambito di un simile contesto normativo  “allo Stato rimangono sempre riservati gli indirizzi di politica estera e la valutazione degli interessi del Paese in questo settore, tanto con riferimento alle attività promozionali in materie di competenza regionale, quanto per le attività di mero rilievo internazionale delle regioni stesse. In conformità di tale principio si è sempre affermata la necessità che lo Stato sia messo in grado di apprezzare, attraverso gli strumenti dell’intesa o dell’assenso, se le iniziative di competenza regionale che toccano la sfera estera siano o meno in contrasto con gli indirizzi di politica internazionale, rimessi alla competenza statale” [6].

In coerenza con questa impostazione la giurisprudenza contabile risulta ferma nel ritenere che le funzioni ed attività di carattere internazionale rientrano  tra le competenze che  devono essere svolte ad un superiore livello di governo, “poiché non potrebbero obiettivamente essere trattate in modo soddisfacente al livello inferiore”[7]

Si tratta, infatti, di attività e competenze che “già intuitivamente, richiedono una unitarietà di intenti e una visione strategica d’insieme, incompatibili con il livello comunale di governo (pena l’inevitabile dispersione degli sforzi e delle relative risorse, quando non addirittura la contraddittorietà delle stesse iniziative adottate)” non a caso, le stesse regioni, in materia, devono passare per il necessario coordinamento statale, ai sensi del su ricordato D.P.R. del 1994, secondo quanto chiarito dal Giudice delle leggi”[8].

Questo quadro non può ritenersi sostanzialmente mutato a seguito della riforma costituzionale del 2001, che al contrario ne costituisce la naturale evoluzione, diretta a consolidare la valorizzazione dei principi di sussidiarietà ed adeguatezza che impongono l’attribuzione delle competenze all’ente più idoneo al loro esercizio.

Il metodo seguito è quello dell’assegnazione delle competenze ad un dato livello istituzionale, ritenuto in astratto il più idoneo al loro svolgimento, salva la possibilità di spostamenti in relazione all’esigenza di garantirne in concreto la gestione più efficace.

Il difetto di attribuzioni degli enti locali in materia di attività internazionali o di promozione all’estero di prodotti locali comporta la  mancanza di un apprezzabile interesse pubblico allo svolgimento , e dunque al finanziamento di scambi culturali, accordi aventi rilevanza internazionale con autorità pubbliche estere, partecipazione, a spese del comune, a fiere, mostre ed altre attività fuori dai confini nazionali et similia.

Posta dunque la preclusione allo svolgimento da parte dei comuni di simili attività, l’esercizio delle competenze demandate agli enti locali in materia di sviluppo territoriale possono giustificare iniziative all’estero, ma nell’ambito di programmi progetti ed eventi concordati con le istituzioni titolari delle competenze in materia.

In assenza di queste condizioni, e di credibili giustificazioni della trasferta, deve ritenersi che la scelta da parte di una giunta comunale di intraprendere attività promozionali delle imprese e dei prodotti locali fuori dai confini nazionali, distolga dalla loro naturale destinazione  risorse umane e finanziarie che dovrebbero essere dedicate all’esercizio di funzioni dell’ente dirette a soddisfare altri più diretti e primari interessi della comunità amministrata.

Né ad escludere la responsabilità per il finanziamento con fondi pubblici di ingiustificate attività all’estero può essere addotto il  principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte gestionali di carattere discrezionale, poiché le ipotesi in cui non sia ravvisabile una compatibilità, concretamente apprezzabile, delle scelte amministrative con i fini istituzionali dell’ente, esulano dalla sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti[9].

In altri termini al giudice della responsabilità amministrativa è preclusa ogni forma di ingerenza nell’attività di ponderazione comparata degli interessi e nelle valutazioni di convenienza e di opportunità compiute dall’autorità deliberante, ma gli è consentito, anzi richiesto,  di accertare la rispondenza delle scelte amministrative a criteri di razionalità e congruità rilevabili dalla comune esperienza amministrativa.

Motivo per cui deve essere esclusa la insindacabilità delle scelte discrezionali, laddove il comportamento contestato si ponga contra legem[10].

Sotto questo profilo non è contestabile che il finanziamento con risorse pubbliche di attività al di fuori delle competenze istituzionali dell’ente di appartenenza non costituisca espressione di una scelta rimessa alla discrezionalità degli amministratori pubblici , e cioè di una opzione tra molteplici possibilità operative, tutte ugualmente lecite, ma piuttosto una attività gestionale soggetta al sindacato del giudice contabile anche in relazione all’ottemperanza ai principio di razionalità amministrativa e di proporzionalità, cioè di congruità del mezzo rispetto agli obiettivi da perseguire.

Ciò posto, ai fini della configurabilità della responsabilità patrimoniale a carico degli amministratori o dei dipendenti pubblici, rilevano anche gli aspetti “quantitativi” e “qualitativi” della condotta: l’adozione o il  difetto di forme di cautela, il  numero di missioni estere, l’ammontare degli oneri e la loro limitazione allo “stretto indispensabile”[11].

In merito la giurisprudenza contabile “ha costantemente evidenziato come di per sé non costituisca illecito l’effettuazione di viaggi all’estero da parte comunale (esempio tipico, i casi di gemellaggio con altre città): sempre che, però, tali iniziative si mantengano entro certi limiti, funzionali (coerenza con gli obiettivi da perseguire) e quantitativi:”[12].

In tal senso costituiscono evidentemente indice sintomatico di responsabilità amministrativa alcune specifiche modalità operative: “difficile ritenere di lieve entità, ad esempio, la negligenza di chi eroga mance o spende per la pay-TV in camera, o al bar, e poi addossa le relative spese all’ente, ovvero ancora trattiene irregolarmente i residui degli anticipi ricevuti (e degli stessi funzionari che tali disinvolti comportamenti hanno di fatto avallato)”[13].

Quanto al perimetro soggettivo della responsabilità costituisce ormai ius receptum  la responsabilità dei funzionari che avallano, con il proprio comportamento, tali illecite prassi, rendendo, ad esempio,  i pareri di rispettiva competenza in senso favorevole, oppure non evidenziando, come il loro ruolo richiederebbe, le gravi irregolarità che inficiano la validità dei deliberati assunti dagli organi politici.

A seguito del progressivo consolidamento della distinzione tra funzioni politiche ed amministrative, infatti, i funzionari degli enti locali, soprattutto quelli collocati in posizione apicale o investiti di funzioni dirigenziali, possono ritenersi titolari di autonomi poteri gestionali distinti da quelli dei vertici politici, che “abbracciano” non solo la gestione amministrativa ma anche quella finanziaria e tecnica, attraverso autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Ciò impone, pertanto, agli stessi di esercitare detti poteri nel rispetto dei canoni di buona amministrazione al fine di assicurare costantemente il perseguimento dei fini istituzionali e la salvaguardia delle pubbliche risorse.

Quanto, infine, alla misura della responsabilità occorre considerare l’utilitas che comunque, in qualche misura è stata conseguita dall’ente locale e dalla relativa collettività, in termini promozionali e di immagine della realtà produttiva locale, a seguito di tali iniziative, sia pure, in sé,  contra ius.

Sicché, nelle ipotesi in cui le missioni illecite abbiano comunque apportato un vantaggio all’amministrazione può procederesi alla cd compensatio lucri cum damno.

In tal senso l’eventuale emersione, in sede di giudizio, di indici sintomatici della buona fede degli agenti pubblici nell’intraprendere attività non legate da rapporto di diretta strumentalità alle funzioni istituzionali, seppure non può valere ad escluderne la responsabilità, può tuttavia essere considerata ai fini di una più equa determinazione della condanna.

In tali ipotesi il giudice può far uso del potere riduttivo dell’addebito, che gli consente di procedere ad una graduazione della condanna esaminato e valutato il comportamento del soggetto responsabile in relazione alle peculiarità della fattispecie [14].

Sulla base di queste argomentazioni, e attraverso ampi richiami al consolidato orientamento della giurisprudenza contabile e alle indicazioni interpretative delle Sezioni Riunite, la sezione giurisdizionale Sicilia della Corte dei conti, con la sentenza n. 3887/2011, ha condannato i componenti dell’organo esecutivo ed il capo del dipartimento attività finanziaria di un comune siciliano per aver concorso al danno erariale prodotto a carico del bilancio dell’ente da una missione all’estero non strumentale ai fini istituzionali.

In particolare il Collegio ha rilevato l’illegittimità dei rimborsi spese riconosciuti a carico del bilancio comunale ai partecipanti ad una missione giustificata “con un generico riferimento alla promozione dei prodotti locali e, segnatamente, della arancia rossa, senza che detta attività di promozione fosse in alcun modo riconducibile a programmi e/o progetti approvati dalla Giunta ne’, tantomeno, ad alcuna attività riconducibile al PEG”.

Nel caso di specie, peraltro, l’irrazionalità della spesa risultava evidenziata dalla circostanza che le attività di promozione del prodotto che si intendeva favorire con la missione, l’arancia rossa di Palagonia, e la sua collocazione ottimale sul mercato nazionale ed internazionale venivano curate dal competente Consorzio di produttori e confezionatori, che “per raggiungere questi scopi svolgeva un’importante attività di comunicazione per farne conoscere le caratteristiche peculiari e la qualità garantita dal bollino IGP, facendosi promotore di iniziative mediatiche e pubblicitarie, in grado di dare all’Arancia Rossa di Sicilia IGP la giusta notorietà e visibilità”.

Da queste premesse veniva fatta discendere l’illegittimità della spesa addossata all’ente pubblico per la partecipazione di una delegazione di Consiglieri comunali alla manifestazione “Fiera Alimentare di Barcellona 2006”, giacché “il Consorzio preposto alla tutela della arancia rossa IGP poteva essere l’unico soggetto interessato alla manifestazione fieristica di che trattasi”.

 

 


[1] Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Sicilia, n. 3887/2011

[2] Ibidem

[3] Corte dei conti, Sezione Prima Centrale Appello, sentenza n. 346/2008)

[4]Sez. II Appello, n. 253/2003; Sez. I Appello, n. 1/2006

[5] Sezione Prima Centrale Appello, sentenza n. 346/2008,

[6] Corte costituzionale sentenza 12 settembre 1995, n. 425

[7] Sezione Prima Centrale Appello,sentenza n. 346/2008

[8] Ibidem

[9] Sezione Prima Centrale Appello,sentenza n. 346/2008

[10] v. Corte dei Conti, Sezione III app., 16 dicembre 2003, n. 569 e Cassazione, SS.UU., 22.12.2003, n. 19661

[11] Idem

[12] cfr. Corte dei conti, SS.RR., 3.6.1996, n. 30; Sezione II app., 2.6.1997, n. 66; Sezione giurisdizionale Calabria, 24.11.1994, n. 50. Quando tale ambito è stato superato, il giudizio negativo dei Giudici è stato inevitabile e costante: v., ad es., Corte dei conti, Sezione I, 9.5.1995, n. 1; Sezione II, 16.3.1994, n. 85; Sezione giurisdizionale Campania, 5.12.2000, n. 108 e 23.10.1995, n. 78

[13] [13] Sezione Prima Centrale Appello,sentenza n. 346/2008

[14] ex multis C. Conti, sez. giur. reg. Veneto, 29-01-2002, n. 33

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