Il reato di emissione di fatture e documenti per operazioni inesistenti alla luce delle più recente giurisprudenza della Cassazione (E. Gazzetta-A.Barbazza )

IL REATO DI EMISSIONE DI FATTURE E DOCUMENTI PER OPERAZIONI INESISTENTI ALLA LUCE DELLE PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE 

di Elisa Gazzetta[1]e Alberto Barbazza[2]

(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 1/2012)

 

 

SOMMARIO: 1. La sentenza n. 4638 del 9 febbraio 2011. – 2. Breve disamina dell’art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000. – 2.1.Il fatto tipico. – 2.2 L’elemento soggettivo. – 2.3.Il problema della successione di leggi: c’è continuità normativa fra il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 e la legge 7 agosto 1982, n. 516?. – 3. Il pronunciamento delle Sezioni Unite n.1235 del 28 ottobre 2010. – 3.1. Il principio di specialità nel diritto penale. – 3.2. Gli altri criteri regolatori del concorso di norme. – 4. Considerazioni conclusive

 

 

 

1.       LA SENTENZA N. 4638 DEL 9 FEBBRAIO 2011

Con la sentenza 9 febbraio 2011, n. 4638, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla responsabilità penale di una dipendente accusata di concorso nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000.

Per i giudici di legittimità questa è stata così l’occasione per precisare che è possibile ritenere responsabile, a titolo di concorso nel reato, un dipendente che, eseguendo disposizioni impartitegli dal titolare dell’attività, abbia fornito un contributo significativo nell’emissione di documenti per operazioni inesistenti.

La questione nasce dall’impugnazione, da parte di una dipendente condannata, in primo e secondo grado, per il reato in commento, alla pena di sei mesi di reclusione e 200 euro di multa.

In realtà, secondo la ricorrente, tale reato doveva essere contestato esclusivamente al datore di lavoro, in quanto la stessa si era limitata ad eseguire ordini impartiti da quest’ultimo, e solo a tal fine si era adoperata per coprire tra l’altro pagamenti in nero e la doppia contabilizzazione dei movimenti finanziari.

La ricorrente ha anche eccepito che non poteva configurarsi nei suoi confronti il dolo specifico – richiesto per la configurabilità del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti dall’art. 8 della legge n. 74/2000 – consistente nella volontà di consentire a terzi l’evasione, in quanto la mera attività materiale di compilazione dei documenti non può produrre alcun effetto esterno all’ambito aziendale.

I giudici di legittimità, dopo aver rilevato l’intervenuta prescrizione del reato contestato, hanno tuttavia osservato la fondatezza delle argomentazioni contenute nelle pronunce dei giudici di primo e secondo grado, sulla cui scorta era stata condannata la ricorrente.

Merita spendere alcune parole in relazione al profilo ulteriore dell’antigiuridicità: in particolare, in un caso come quello affrontato dai giudici di legittimità nella sentenza in commento, ci si potrebbe interrogare sull’ambito di operatività che residua per la scriminante di cui all’art. 51 c.p.

In via generale, occorre precisare che nessun dubbio può sorgere relativamente alla necessità di escludere l’applicabilità diretta della norma di cui all’art. 51, seconda parte, c.p.[3].

La causa di giustificazione dell’adempimento del dovere, infatti, si riferisce, stante la sua formulazione letterale, esclusivamente all’ordine impartito dalla pubblica Autorità; ciò è confermato altresì dall’indagine sulla ratio della disposizione: l’esclusione della punibilità  ex art. 51 c.p. opera allorquando l’ordine impartito sia diretto a soddisfare un interesse di grado pari o superiore a quello protetto dalla norma penale violata con la condotta ordinata.

Secondo parte della dottrina[4], tuttavia, l’ordine impartito da un privato avrà rilevanza in soli due casi: allorché sia diretto – circostanza tutt’altro che agevole da ipotizzare – a tutelare interessi collettivi e preminenti rispetto ai beni giuridici tutelati dalla legge penale: in tal caso potrà essergli riconosciuta portata scriminante tout court; l’altro caso consiste nel considerare l’ordine del privato alla stregua di un parametro per valutare la colpa dell’inferiore[5]: l’esecutore dovrà così esser ritenuto esente da colpa qualora non sia in grado di rendersi conto del contenuto illecito dell’ordine e della conseguente criminosità della condotta.

Tale linea di pensiero è sposata anche dai giudici di legittimità, secondo i quali “la disposizione dell’art. 51 c.p. prende in considerazione esclusivamente i rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico e non anche i rapporti di diritto privato, come quelli intercorrenti fra i privati datori di lavoro ed i loro dipendenti, per i quali non può trovare applicazione la predetta causa di giustificazione, mancando un potere di supremazia del superiore riconosciuto dalla legge”[6].

 

 

2. BREVE DISAMINA DELL’ART. 8 DEL D. LGS. N. 74/2000

Per meglio comprendere le motivazioni della Corte, giova brevemente analizzare la disposizione incriminatrice presa in considerazione dalla sentenza, ovvero l’art. 8 d.gls. 74/2000.

Con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 il governo, in attuazione della delega conferita dal parlamento con l’art. 9 della legge 205 del 1999, ha provveduto a dettare una nuova e compiuta disciplina per i reati tributari inerenti la materia delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

In particolare, secondo la disposizione dell’art. 8, rubricato quale reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

 

2.1.  IL FATTO TIPICO

La condotta descritta dal legislatore è chiara e consiste nel rilascio di qualunque tipo di documento – il termine fattura, infatti, deve intendersi avere carattere meramente esemplificativo – idoneo a fornire un supporto contabile ad operazioni in realtà  mai avvenute.

Soggetto attivo del reato può essere chiunque emette fatture o documenti per operazioni inesistenti, anche se non obbligato alla tenuta di scritture contabili; viene però esclusa ex art. 9 D. Lgs. n. 74/2000, in espressa deroga all’art. 110 del codice penale, la configurabilità del concorso dell’emittente le fatture per operazioni inesistenti nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore (art. 2 D. Lgs. 74/2000) e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti.

La ratio di tale esclusione per alcuni commentatori deve essere ricavata dal fatto che su un piano generale l’art. 8 andrebbe letto come antitetico rispetto al reato previsto dall’art. 2 del medesimo decreto[7]; tale rilievo, però, non sembra però ostare ad un possibile concorso materiale fra le due norme citate. La ragione dell’esclusione deve perciò essere individuata in una scelta discrezionale del legislatore il quale ha predisposto il nuovo testo normativo informandolo alla repressione dei soli fatti che comportino un rilevante danno per l’erario, nel pieno rispetto del principio di offensività in concreto della fattispecie penale[8].

Deve evidenziarsi, invero, che il legislatore, con la previsione in  commento, si è in parte scostato dal principio della effettiva lesività ed ha inteso colpire un comportamento prodromico all’evasione, consistente nella predisposizione di documentazione falsa, idonea a consentire ad altri l’esposizione in dichiarazione di costi non reali: deve, infatti, ritenersi che il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia un reato di pericolo attraverso cui il legislatore ha inteso sanzionare comportamenti strumentali all’evasione.

Quanto al significato della locuzione “fatture od altri documenti emessi per operazioni inesistenti”, elemento costitutivo del delitto in parola, il legislatore all’art. 1, comma 1, lettera a), del D. Lgs. n. 74/2000, chiarisce che debbono ritenersi tali quelli rilasciati a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte, o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. In merito è intervenuta anche la giurisprudenza: la Suprema Corte[9] ha chiarito sia che l’art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000 punisce ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale dell’operazione e, quindi, non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione stessa, sia che la norma va letta in combinato disposto con l’art. 1, comma 1, lettera a), del D. Lgs. n. 74/2000 che, come visto, contempla distinte ipotesi di inesistenza, una cosiddetta oggettiva ed una soggettiva.

Il primo tipo ricorre laddove le operazioni non siano realmente effettuate in tutto o in parte. Tale inesistenza può, a sua volta, assumere le forme dell’inesistenza assoluta o di quella relativa (ad esempio nel caso di sovrafatturazione quantitativa[10] o di emissione di fatture o altri documenti in cui siano esposti corrispettivi o IVA in misura superiore al reale, cosiddetta soprafatturazione qualitativa).

Si parla invece di inesistenza soggettiva nei casi in cui detti documenti riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi: ad esempio nel caso in cui l’operazione è effettivamente avvenuta, ma è intercorsa tra parti differenti da quelle risultanti nei documenti contabili.

 

2.2.  L’ELEMENTO SOGGETTIVO

Quanto all’elemento psicologico necessario per poter configurare il reato previsto dall’art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000, va precisato che non è sufficiente il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di realizzare la condotta tipica; il legislatore, infatti,  ha inteso configurare la fattispecie richiedendo anche il dolo specifico, in ottemperanza alla ratio che informa tutto il D. Lgs 74/2000 di garantire il perseguimento dei soli reati concretamente offensivi per l’erario, escludendo la punibilità di quelle condotte che consentano a terzi l’evasione tout court, né l’evasione di tributi diversi rispetto a quelli citati dal legislatore.

Il dolo specifico deve consistere nel fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto[11], anche se tale inciso va letto in correlazione con l’art. 1, comma 1, lett. b), del D. Lgs. n. 74/2000, secondo il quale nel fine di consentire l’evasione deve intendersi ricompreso anche quello di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta[12].

In conseguenza, sarà punibile anche chi ha consegnato la documentazione allo scopo di consentire l’evasione, indipendentemente dal verificarsi della stessa, in quanto il reato si consuma nel momento in cui la fattura o gli altri documenti vengono trasferiti, nei modi di legge, nell’altrui disponibilità, indipendentemente dall’avvenuta evasione fiscale da parte del soggetto terzo[13].

 

2.3.  IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE DI LEGGI: C’È CONTINUITÀ NORMATIVA FRA IL DECRETO LEGISLATIVO 10 MARZO 2000, N. 74 E LA LEGGE 7 AGOSTO 1982, N. 516?

Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha specificato che, ai sensi della nuova formulazione legislativa, costituisce elemento costitutivo del reato di emissione di fatture false il dolo specifico che si identifica nel fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, escludendo l’esistenza del reato tributario nelle altre ipotesi. (Cass. 5 aprile 2001, n. 13826 e 15 novembre 2001, n. 40720)

Pertanto, deve ritenersi che la nuova normativa sui reati tributari abbia previsto solo una parziale abolitio criminis, allorché l’emissione di fatture non sia stata posta in essere con intento evasivo a favore di terzi. Nel caso sia riscontrato, viceversa, il dolo specifico cui si riferisce la disposizione, dovrà optarsi per la sussistenza di un rapporto di continuità normativa fra la norma in commento e la precedente disciplina di cui alla legge n. 516 del 7 agosto 1982.

L’art. 8, infatti, in armonia con la ratio del nuovo sistema penale tributario – informata, come detto già precedentemente, alla repressione dei soli fatti che comportino un rilevante danno per l’erario – configura il reato di emissione di fatture solo qualora tale condotta sia finalizzata a consentire a terzi l’evasione fiscale, in quanto trattasi di comportamento considerato dall’ordinamento come quello dotato di maggiore intrinseca gravità.

 

3.       IL PRONUNCIAMENTO DELLE SEZIONI UNITE N.1235 DEL 28 OTTOBRE 2010

Il reato di cui all’art. 8 del d. lgs. 74/2000 è stato altresì fatto oggetto di discussione dalle Sezioni Unite di Cassazione.

Con la sentenza n. 1235 del 28 ottobre 2010, infatti, gli Ermellini hanno avuto modo di comporre il contrasto insorto in seno alle Sezioni Semplici della Cassazione relativamente al concorso di tale norma (oltre che del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 2, D. Lgs. n. 74 del 2000) con il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma secondo, n. 1, c. p.).

Secondo i giudici di legittimità, infatti, le disposizioni citate sono fra loro in rapporto di specialità, in quanto qualsiasi condotta di frode al fisco – purché non ne derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni – non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dall’apposita normativa.

Nell’ordinanza di rimessione, la Sezione terza della Suprema Corte ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione concernente la configurabilità o meno di un concorso fra i reati di frode fiscale (ex artt. 2 ed 8 D. Lgs. 74/2000) e di truffa aggravata ai sensi del n. 1 del comma secondo dell’art. 640 c.p.

Un primo orientamento, infatti, ha ritenuto esistere un rapporto di specialità fra le due ipotesi di reato, in guisa tale che l’unica fattispecie che può formare oggetto di contestazione è quella prevista dalla disciplina tributaria[14]. Si afferma, in particolare, la sussistenza di un rapporto di specialità unilaterale in astratto. Invero, gli artt. 2 e 8 del d. lgs. 74/2000 contengono gli stessi elementi del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, cui si aggiunge l’elemento specializzante costituito dall’avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, o l’emissione o il rilascio fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Inoltre, viene evidenziato come ai fini dell’integrazione del reato in esame, non si richiede la verificazione dell’evento di danno, il quale ricade nel cono del dolo specifico e la cui realizzazione non è pertanto elemento costitutivo del fatto tipico: proprio tale aspetto esclude che tra le norme tributarie e la truffa possa sussistere un rapporto di specialità reciproca[15]. 

Un secondo orientamento, esclude invece l’esistenza di tale rapporto di specialità, con conseguente concorso delle due ipotesi delittuose[16]. A sostegno dell’assunto, si osserva che il reato di frode fiscale in primo luogo non comprende tutti gli elementi del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato consumata a mezzo di indebita evasione dell’IVA; in secondo luogo, si tratta di una fattispecie volta alla tutela di interessi diversi ed, infine, nel reato di frode fiscale non è necessaria l’effettiva induzione in errore dell’amministrazione né il conseguimento dell’ingiusto profitto con danno dell’amministrazione.

Un terzo orientamento, infine, intermedio fra i due citati, pur escludendo l’esistenza di un rapporto di specialità tra le predette fattispecie, ritiene operare, nel caso in esame, il principio di consunzione, con conseguente assorbimento dell’ipotesi meno grave (truffa) in quella più grave (frode fiscale).

Le Sezioni Unite ripudiano la tesi secondo la quale non può desumersi la mancanza di un rapporto di specialità tra le due fattispecie per il solo fatto che per il perfezionamento della truffa si richiede la presenza di due elementi – l’induzione in errore e il danno – indifferenti per il reato tributario. Infatti, secondo giurisprudenza ormai consolidata nei reati di frode fiscale non occorre l’effettiva induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria, né il conseguimento dell’ingiusto profitto con danno dell’Amministrazione[17]. Alcune pronunce, approfondendo tale orientamento, specificano che la ravvisabilità del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato non costituisce violazione del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., qualora dalla dinamica dei fatti e sulla base di obiettivi elementi di riscontro si configuri una condotta truffaldina tipica ed in equivoca desunta dalle particolari modalità esecutive dell’evasione fiscale[18].

La Suprema Corte ritiene quindi di comporre il contrasto, come anticipato in precedenza, aderendo al primo dei citati orientamenti, concludendo per la sussistenza di un rapporto di specialità tra le rispettive norme incriminatrici.  

In via preliminare, i giudici di legittimità ripercorrono i criteri enucleati da dottrina e giurisprudenza per specificare i presupposti necessari per la configurabilità del concorso di reati ovvero per ritenere l’esistenza di un concorso apparente di norme, ed in particolare operano un’attenta disamina del principio di specialità.

 

3.1. IL PRINCIPIO DI SPECIALITÀ NEL DIRITTO PENALE

In ambito di concorso apparente di norme, l’ordinamento positivo è ispirato al principio di specialità, unico criterio consacrato a livello testuale nell’art. 15 c.p., il quale prevede che “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.

E bene sin d’ora premettere che, stante la rigidità del citato dato normativo, la dottrina ha dovuto affrontare sia il problema della perimetrazione  dell’ambito di operatività dell’art. 15 c.p., sia il problema della possibilità di affiancare a tale principio ulteriori criteri alla stregua dei quali verificare la natura apparente o meno del concorso di norme[19].

Quanto a tale ultima questione, nel tentare di proporre criteri alternativi al principio di specialità, la dottrina segue due distinti filoni: le teorie c.d. monistiche da un lato (le quali ritengono che nel problema che ci occupa vada applicato il solo principio di specialità[20]) e le teorie c.d. pluralistiche dall’altro ( queste ultime ritengono necessario affiancare al principio di specialità ulteriori criteri, in specie quelli di consunzione, sussidiarietà ed accessorietà).

Tornando al primo dei due problemi sopra evidenziati, si comprende immediatamente come l’aspetto interpretativo dei concetti di “norma speciale” e di “stessa materia” acquisisca rilievo fondamentale.

La giurisprudenza, da ultimo anche nella sentenza 1235/2010 in esame, definisce norma speciale quella contenente tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale[21].

La definizione di “stessa materia regolata da più o dalla stessa legge penale”,  costituisce poi il limite intrinseco all’applicazione del principio di specialità poiché, proprio nell’identità di materia regolata, deve ravvisarsi il fondamento teorico della identità del fatto, primo presupposto del concorso apparente di norme. Nella giurisprudenza della Suprema Corte si sono manifestate le più variegate posizioni, anche nell’ambito delle stesse Sezioni Unite, alcune interpretando la “stessa materia” come identità del bene alla cui tutela le norme in concorso sono finalizzate[22], altre, invece, escludendo che il concorso apparente di norme sia configurabile sulla base del bene giuridico protetto dalle disposizioni apparentemente confliggenti[23].

La giurisprudenza prevalente e più recente, però, prende posizione a favore di un raffronto meramente strutturale delle fattispecie considerate, prescindendo dall’analisi del fatto storico, ed afferma che il criterio di specialità “presuppone una relazione logico- strutturale tra norme”[24].

Ne deriva che la locuzione stessa materia va intesa come fattispecie astratta – ossia come settore, aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste; il richiamo alla natura del bene giuridico protetto non è considerato decisivo, anche considerando che può ingenerare forti dubbi nell’interprete in caso di reati plurioffensivi.

Una volta riconosciuto perciò un rapporto di parziale identità tra le fattispecie – precisa la Cassazione – il riferimento anche all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità, in quanto si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia[25].

Alla luce di tali riflessioni la prevalente giurisprudenza è pertanto giunta a fissare il principio secondo cui il concetto di stessa materia di cui all’art. 15 c.p. deve essere interpretato alla stregua di “medesima situazione di fatto”, ripudiando il criterio della stessa oggettività giuridica in favore di un canone di tipo strutturale[26]. In altre parole, il criterio di specialità è da intendersi in senso logico-formale, ritenendo, cioè, che il presupposto della convergenza di norme possa ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse[27].

Si conclude così per l’apparenza del concorso nell’ipotesi in cui alcuni o tutti gli elementi della fattispecie siano specifici rispetto ai corrispondenti elementi generici dell’altra (cosiddetta specialità per specificazione), ovvero ancora quando una fattispecie, contenendo tutti gli elementi di una norma generale, ne contempli uno aggiuntivo (si suole parlare, in tal caso, di specialità per aggiunta).

Differente è il caso della specialità cosiddetta reciproca o bilaterale, la quale può secondo parte della dottrina[28] essere ravvisata nel caso in cui, mentre una delle fattispecie presenta un elemento aggiuntivo rispetto a quelli comuni, l’altra ne comprende uno specifico (specialità bilaterale per aggiunta), ovvero nell’ipotesi in cui le fattispecie non presentano elementi aggiuntivi rispetto al nucleo comune, ma ciascuna ne specifica alcuni propri.

 

3.2.  GLI ALTRI CRITERI REGOLATORI DEL CONCORSO DI NORME

Come già anticipato in precedenza, gli interpreti si dividono fra chi ritiene necessario e sufficiente fare ricorso al solo principio di specialità per regolare il concorso di norme[29], e chi, a quello di specialità, affianca altri parametri, variamente denominati, come i principi di sussidiarietà, di consunzione o di assorbimento[30].

Il problema non è rimasto entro il solo ambito dottrinale, ma è giunto sino alle aule dei Tribunali: un orientamento giurisprudenziale, infatti, ritiene occorra verificare se “al di là del principio di specialità” il concorso materiale dei reati debba essere escluso “alla luce di una manifestata volontà normativa di valutare in termini di unitarietà le pur omogenee fattispecie”[31].

Si vorrebbe, in tal modo, richiamare il c.d. principio di consunzione o di assorbimento, accolto da parte della giurisprudenza e della dottrina, che troverebbe riconoscimento legislativo nello stesso art. 15 c.p. il quale, se da un lato sancisce il principio di specialità, dall’altro lato ne ammette delle deroghe a favore della norma che prevede il reato più grave.

Le norme legate dal rapporto di consunzione perseguono scopi per loro natura omogenei, senza che, tuttavia, tale rapporto di omogeneità si risolva nell’identità del bene giuridico, che costituisce soltanto il nucleo dello scopo della norma, così che lo scopo della norma che prevede un reato minore sia chiaramente assorbito da quello relativo ad un reato più grave il quale esaurisca l’intero disvalore del fatto ed assorba l’interesse tutelato dall’altro, in modo che appaia con evidenza inammissibile la duplicità di tutela e di sanzione in relazione al principio di proporzione tra fatto illecito e pena, che ispira il nostro ordinamento[32].

Il criterio di consunzione[33] nasce dal fatto che il criterio di specialità non è ritenuto suscettibile di risolvere tutte le situazioni di concorso apparente, di modo che è necessario fare ricorso a criteri non espressamente codificati, ma conforme all’interpretazione sistematica, quale appunto è quello della consunzione[34].

Contro tale tesi è stato osservato in giurisprudenza che “i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento normativo, in quanto l’inciso finale dell’art. 15 c.p. allude evidentemente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici”[35]; inoltre bisogna rilevare che i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, facendo dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale.

Non può trascurarsi, inoltre, di considerare che il principio di legalità trova fondamento anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007).

Si comprende, pertanto, la necessità del rigoroso rispetto del principio di legalità e dei conseguenti principi di determinatezza e tassatività, anche con riferimento alla materia del concorso apparente di norme incriminatrici.

Certamente, non può trascurarsi l’esigenza sottesa alla giurisprudenza che fa ricorso al criterio della consunzione, cioè il rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale, ma tale rispetto è assicurato da una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità.

 

4.       CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La Suprema Corte opta dunque per un’applicazione piena del criterio di specialità.

Tuttavia, le conclusioni dei giudici di legittimità, nonostante l’ampia ed articolata motivazione, nonché la corposa disamina del principio di specialità e dei criteri distintivi fra concorso di reati e concorso apparente di norme, non sembrano condivisibili sotto il versante probatorio, soprattutto laddove non vengono individuati gli elementi di prova dai quali sia possibile evincere la volontà del dipendente di consentire a terzi l’evasione. Sembra infatti essere questo il vero punctum dolens della questione, in quanto è innegabile che la volontà del dipendente nella generalità dei casi sia diretta a conservare il proprio posto di lavoro più che a consentire l’evasione fiscale a terzi.

Ecco allora che un chiarimento della Suprema Corte in ordine alle modalità di commissione o alle circostanze di fatto dalle quali ricavare tale consapevolezza in capo al soggetto, necessaria anche quanto alla determinazione dell’esistenza dell’elemento costitutivo del dolo specifico, sembra nel breve periodo quanto mai necessaria.

 


[1] Avvocato, dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona.

[2] Avvocato, dottorando di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

[3] L’indagine su tale ambito può essere proficuamente svolta ponendo mente al caso di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza numero 4638 del 9 febbraio 2011, di cui avremo modo di occuparci in seguito.

[4] R. Garofoli. Manuale di diritto penale, II ed., pp. 625 ss.

[5] F. Mantovani, Diritto Penale, p. 253.

[6] Cass., sez. V, 28 maggio 1984, in Cass. Pen., 1986, 48

[7] L’art. 2 D. Lgs. 74/2000 sanziona invece chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto ed avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi passivi fittizi.

[8] In ordine a tale concetto si veda ex plurimis C. Cost.  265/2005, nonché Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2008, n. 28605.

[9] Cass., sentenza 8 luglio 2010, n. 26138.

[10] La Corte di Cassazione nella sentenza 8 luglio 2010, n. 26138, ha affermato, a tale proposito, che “la falsa fatturazione quantitativa è punita non solo nel caso in cui la divergenza tra il reale e il rappresentato è totale, ma anche quando è parziale e l’operazione economica si sia effettivamente verificata tra i soggetti indicati in fattura, ma in termini minori rispetto al dichiarato”.

[11] Sul tema di cui si tratta, merita essere ricordate le considerazioni svolte dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 608 del 12 gennaio 2011: “il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti si configura come un delitto di pericolo astratto ed ai fini del perfezionamento della fattispecie è sufficiente il mero compimento dell’atto tipico, rimanendo irrilevante il successivo annullamento dei documenti fiscali a latere della risoluzione dei contratti e negozi costituenti il  relativo titolo”.

[12] La Cassazione ha peraltro sostenuto che “l’evasione di imposta non è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ma configura un elemento del dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell’agente, in quanto per integrare il reato è sufficiente che l’emittente di fatture si proponga il fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sul reddito o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo consegua effettivamente la evasione”. Cfr. Cass., 9 febbraio 2011, n. 4638.

[13] In ordine al tema che ci occupa, cfr. Cass. 1 ottobre 2010, n. 35453, in cui la Suprema Corte, dopo aver osservato che non è affatto irrilevante, sotto il profilo penale, il contributo materiale e/o psicologico di altro soggetto diverso dall’emittente che abbia, con la sua condotta, fornito collaborazione alla realizzazione del fatto-reato, ha ritenuto responsabile il professionista ricorrente in quanto lo stesso aveva ricoperto un “ruolo essenziale” nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Ciò in quanto, presso il locale in cui era ubicato lo studio, erano state reperite non solo fatture non contabilizzate, ma anche strumenti per la predisposizione dei documenti falsi, dai quali i giudici di legittimità hanno fatto discendere la partecipazione cosciente e volontaria del professionista alla condotta criminosa del contribuente.

[14] Cfr. Cass. 3 dicembre 2009, n. 46671.

[15]In tal senso Cass. 28 maggio 2008, n. 21566, in cui si osserva che il verificarsi dell’evento di danno, “è stato deliberatamente posto dal legislatore al di fuori della fattispecie oggettiva, rendendo così indifferente che esso di verifichi e postulandosi come necessaria soltanto la sussistenza del collegamento teleologico sotto il profilo intenzionale”.

[16] Così Cass. 14 novembre 2007, n. 14707.

[17] Cfr. in particolare Cass. 26 maggio 2010, n. 25883.

[18] Cass. 23 gennaio 2007 n. 6825.

[19] R. Garofoli. Manuale di diritto penale, II ed., p. 739.

[20] Sennonchè la stessa nozione di specialità finisce poi per essere variamente intesa dalla stessa dottrina che aderisce all’impostazione monista.

[21] Suggestiva è a tal proposito l’immagine che usa la Cassazione nella sentenza n. 1235 dell’ottobre 2010: è necessario che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contenga in sé quello minore, ed abbia, inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità”.

[22] Cass. Sez. Un., 21 aprile 1995, n. 9568.

[23] Cass. Sez. Un., 28 novembre 1981, n. 420.

[24] Cfr fra le altre, Cass. Sez. Un., 13 dicembre 2000, n. 35; Cass. Sez. Un., 18 dicembre 2002 n. 8545.

[25] Cass. Sez. Un., 19 aprile 2007, n. 16568; nonché Cass. Sez. Un., 20 dicembre 2005 n. 47164. Anche la Corte costituzionale ha avuto modo di applicare il criterio della continenza strutturale tra fattispecie, sia pure in un caso di concorso tra illecito amministrativo e illecito penale, affermando che l’applicazione del principio di specialità ex art. 15 c.p. implica la convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse, dovendosi confrontare le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico (Corte Cost., sent. n. 97 del 1987). Già in precedenza, la stessa Corte aveva affermato che “per aversi rapporto di specialità ex art. 15 c.p. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra” (Corte Cost., ord. n. 174 del 1994).

[26] Cfr. Cappuccio, Il concorso apparente di norme, in Lexfor.it.

[27] Cfr. Cass., Sez.  Un. N. 1235 del 28 ottobre 2010.

[28] Cfr. De Francesco, Concorso apparente di norme, in Dig. It. Disc. Pen., 1988.

[29] Ci si riferisce alle teorie cosiddette monistiche, cfr. per tutti Antolisei, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano.

[30] Il rimando è chiaramente alle teorie pluralistiche, di cui a titolo di esempio cfr. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, Città di Castello, 1937; Moro, Unità e pluralità di reati, Padova, 1954.

[31] L’orientamento, allo stato minoritario, è sostenuto da Cass. Sez. Un., 28 marzo 2001 n. 22902.

[32] Fiandaca – Musco, Diritto penale, parte generale, pag. 636.

[33] Cfr. Pagliaro, Concorso di norme, in Enc. Dir., 1958.

[34] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 28 marzo 2001, n. 22902, in Giur. it., 2003, pag. 557.

[35] Cass. Sez. Un., n. 47164 del 2005, cit.

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