LA MADRE FA RISTRUTTURARE L’IMMOBILE CHE POI INTESTA ALLE FIGLIE: CHI PAGA I LAVORI?
Cassazione, sez. III, 30 gennaio 2012, n. 1302
Secondo l’art. 320 cod. civ., in collegamento con l’art. 1388 dello stesso codice, il contratto stipulato dall’esercente la rappresentanza legale dei minori produce esclusivi effetti diretti nella sfera giuridico-patrimoniale dei rappresentati e non anche in quella del rappresentante. Presuppone, quindi, che la madre abbia agito come rappresentante legale
Cassazione, sez. III, 30 gennaio 2012, n. 1302
(Pres. Amatucci – Rel. Carluccio)
Svolgimento del processo
1. Ai fini che ancora rilevano nel presente processo, il Tribunale condannò, in solido, C. I., F. A. C. e M.C. al pagamento (pari a circa 21 milioni di lire) in favore di M. e P. P., per lavori di ristrutturazione eseguiti sull’immobile di proprietà delle figlie (F. A. e M.), all’epoca minori, su incarico della madre (C.).
La Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – respinse l’impugnazione proposta dalla I., confermando la relativa condanna, e, in accoglimento della impugnazione di F. A. e di M., che deducevano la loro estraneità al contratto, rigettò la domanda nei loro confronti (sentenza del 28 aprile 2006).
2. Avverso la suddetta sentenza M. e P. P. hanno proposto ricorso per cassazione con due motivi, corredati da quesiti.
F. A. e M. C. hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. La sentenza impugnata fonda il rigetto della domanda, nei confronti di F. A. e M., sulle essenziali argomentazioni seguenti:
– le figlie sono estranee al rapporto contrattuale, di pagamento di prestazione d’opera, dedotto in giudizio dai P.;
– l’atto di citazione individuava nella I. il soggetto passivo, quale persona che aveva commissionato i lavori, <sebbene> aggiungendo che la stessa agisse nell’interesse delle figlie minori, all’epoca minorenni;
– le opere furono commissionate dalla I.; la circostanza che beneficiarie fossero le figlie, divenute solo successivamente (nell’ottobre 1992) proprietarie dell’immobile, <non implica che le stesse parteciparono alla contrattazione>, essendo dato di comune esperienza che i genitori destinano opere, immobili, manufatti in favore dei figli per il loro futuro;
– la committenza dei lavori è riferibile alla I., qualunque fosse il <motivo interno> che la induceva a fare ciò, non idoneo ad estendere alle figlie la responsabilità contrattuale della madre.
2. I due motivi di ricorso, con i quali si fa valere la violazione dell’art. 320 cod. civ. (primo) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione (secondo), intimamente connessi, sono inammissibili.
3. Il primo si conclude con il seguente quesito:<E’ riferibile alle minori, come nella specie, il contratto non eccedente l’ordinaria amministrazione, che sia stato concluso dal genitore esercente la potestà, anche senza spendita del nome delle rappresentate, per l’esecuzione di opere di miglioramento di immobile, di proprietà esclusiva delle stesse minori, con terzi consapevoli dell’appartenenza a queste ultime del bene ?>.
Rileva, in modo assorbente, l’inconferenza della questione prospettata rispetto al decisum della sentenza impugnata (e della pur contrapposta sentenza di primo grado).
I ricorrenti mirano ad ottenere la condanna delle figlie al pagamento dei lavori di ristrutturazione, per i quali è stata già condannata la madre (con decisone della stessa sentenza oggetto del presente giudizio, sul punto passata in giudicato per mancanza di impugnazione) e fondano la censura sulla pretesa violazione dell’art. 320 cod. civ.
Ma, sulla base di tale articolo, in collegamento con l’art. 1388 dello stesso codice, il contratto stipulato dall’esercente la rappresentanza legale dei minori produce esclusivi effetti diretti nella sfera giuridico-patrimoniale dei rappresentati e non anche in quella del rappresentante. Presuppone, quindi, che la madre abbia agito come rappresentante legale. Di conseguenza, è inconferente l’allegazione della violazione dì tale articolo in fattispecie in cui è stata riconosciuta la diretta riferibilità del contratto alla madre, in proprio.
Infatti, in entrambi i giudizi di merito, la madre è stata riconosciuta come obbligata in proprio, e le decisioni si differenziano solo sul profilo della obbligazione delle figlie: la prima sentenza, estendendo l’obbligo in solido ad esse, quali beneficiarie, in quanto proprietarie, e sul presupposto dell’irrilevanza dell’epoca di conferimento dell’incarico dei lavori (se prima o dopo che le figlie erano divenute proprietarie); la seconda sentenza, escludendo tale obbligazione solidale, sul presupposto dell’anteriorità del conferimento dell’incarico rispetto all’acquisto della proprietà da parte delle minori e confinando nel piano dei motivi interni, irrilevanti, l’essere finalizzati tali lavori ad immobili poi divenuti di proprietà delle figlie.
In definitiva, il motivo (e il quesito) non fa i conti con la ritenuta obbligazione diretta della madre (passata in giudicato), non preoccupandosi di raccordare con questa la pretesa obbligazione diretta delle figlie che, secondo la prospettazione, deriverebbe dall’essere: stato il contratto concluso dall’esercente la potestà, anche in assenza della spendita del loro nome, purché nella consapevolezza del terzo contraente.
4. Il secondo motivo si conclude con il seguente quesito: <Può il giudice del merito disattendere, senza motivare in sentenza, le risultanze processuali prospettate dalle parti ed acquisite in sedie istruttoria, escludendo così dell’art. 320 cod. civ. là dove, comunque, l’operato del genitore esercente la potestà ha per soli destinatari, come nella fattispecie, beni di proprietà dei figli minori ?>.
E’ palese l’inadeguatezza del momento di sintesi, omologo del quesito dì diritto in riferimento al motivo di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
4.1. Rileva, innanzitutto, il generico riferimento alle risultanze processuali, prospettate dalle parti e acquisite in istruttoria, che rende il motivo aspecifico e impedisce alla Corte di riscontrarne la decisività, con conseguente inammissibilità (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915).
4.2. Nella stessa direzione della inammissibilità, rileva la contemporanea deduzione di tutti i vizi motivazionali previsti, in contrasto con la giurisprudenza della Corte, secondo cui, i vizi di cui all’art:. 360 cod. proc. civ., n. 5, – salvo che non investano diversi fatti controversi – non possono concorrere tra di loro, ma sono alternativi, non essendo logicamente concepibile che una stessa motivazione sia, quanto allo stesso fatto controverso, contemporaneamente omessa, nonché insufficiente e, ancora, contraddittoria; con la conseguenza, che è onere del ricorrente precisare quale sia – in concreto il vizio della sentenza, non potendo tale scelta essere rimessa al giudice. (Cass. 25 gennaio 2011 n.. 1747; Cass. 30 marzo 2010, n. 7626).
4.3. Ed ancora, rileva la commistione, anche nella parte esplicativa, con profili di violazione di legge, in modo che non è univocamente enucleabile come i difetti motivazionali incidano sulla violazione di legge dedotta.
5. In conclusione, il ricorso è inammissibile e le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
dichiara inammissibile il ricorso; condanna M. P. e P. P., in solido, al pagamento, in favore di F. A. C. e M. C., delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.700,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.