ESAME AVVOCATO 2012
ESERCITAZIONE: PARERE LEGALE DI DIRITTO PENALE
TRACCIA
Tizia, malata terminale per plurime affezioni neoplasiche, chiede, prestando valido consenso informato circa i rischi dell’operazione, di essere sottoposta ad un intervento chirurgico con la sola speranza di poter prolungare anche di poco la sua esistenza.
Durante l’intervento le venivano cagionate lesioni, non tempestivamente identificate, alla milza ed al legamento falciforme, dalle quali derivava un sanguinolento che determinava nella donna già gravemente debilitata nell’organismo, una emorragia letale.
I medici vengono condannati per omicidio colposo per avere violato il codice deontologico che fa divieto di trattamenti a forme di ” inutile accanimento terapeutico “.
Il candidato, assumendo le vesti del difensore dei medici, rediga motivato parere giuridico.
SVOLGIMENTO di Flavia Zarba
Il caso sottoposto all’attenzione richiede una disamina preliminare dell’elemento soggettivo colposo in tema di responsabilità medica.
Si tratta di una delle cosiddette colpe “speciali o professionali” proprie de attività pericolose ma giuridicamente autorizzare, che si connotano per l’inosservanza di regole di condotta : le leges artis.
Tali sono le “leggi del mestiere” che , finalizzare alla previsione del rischio non consentito, fissano un margine di prevedibilità commisurato al parametro dell’ homo eiusdem professionis et condicionis.
Da quanto detto si evince che il medico non sarà mai esonerato dall’obbligo di osservanza delle regole cautelati perché solo a seguito di una loro rigorosa osservanza la sua attività potrà dirsi lecita.
Opportuno chiarire che, ulteriore ed imprescindibile presupposto all’esercizio del trattamento medico è il consenso espresso dal paziente: un consenso che può essere validamente prestato solo previa informazione esauriente e chiara circa i rischi del trattamento medesimo ad opera del medico agente.
Nel caso di specie, Tizia, malata terminale, era a conoscenza delle sue gravi condizioni di salute che l’avrebbero portata, di li a poco, alla morte atteso che la sua richiesta alla sottoesposizione all’intervento chirurgico era finalizzata ad un “mero prolungamento” , anche di poco, della sua esistenza.
Si tratta dunque di un’operazione ipso facto rischiosa che comporterebbe, in relazione alla particolare gravità del rischio, l’osservanza ancor più rigorosa delle regole cautelati.
Si configura infatti, in capo ai medici, per il solo fatto di tutelare un bene primario qual è la vita umana, un obbligo morale e giuridico di adottare tutte le misure e di operare con tutti i mezzi che la professione appresta per il conseguimento “fausto ” del trattamento terapeutico.
Venendo ala caso in analisi, la violazione che si rimprovera ai medici consiste nel “divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento terapeutico” contenuto nel codice deontologico.
Si tratterebbe dunque, ai fini della rimproverabilità a a titolo di colpa, di sviscerare la reale portata delle regole cautelati e di valutare se la regola de quo possa rientrarvi affinché si possano integrare gli estremi dell’omicidio colposo.
Ebbene, a parere della scrivente, ogni caso pratico concernente l’esercizio dell’arte medica, è a se stante, essendo, l’attività in questione, caratterizzata da una tale peculiarità per cui vi si possa semplicemente attanagliare una univoca soluzione; occorrerà, piuttosto, guardare ad un ampio ventaglio di soluzioni a seconda di come vengano intese le regole cautelati violate.
Tale valutazione va effettuata sulla base dell’accertamento della colpa che postula oltre alla sussistenza di una condotta violatrice delle regole cautelari, anche la prevedibilità dell’evento in quanto riconducibile al novero di quelli che le stesse regole cautelati mirino a prevedere, tenuto conto che in tema di reato colposo il parametro della prevedibilità dell’evento consiste in un comportamento ripetuto nel tempo che si fonda sulla sostanza dell’esperienza, la quale mostri che ad una certa condotta, segue, sempre, e non eccezionalmente, un determinato evento di danno o di pericolo.
E’ chiaro che tale accertamento della colpa, così inteso , risulta essere ben più severo di quello richiesto alla stregua dei parametri civilistici
(della responsabilità del prestatore d’opera ex art. 2236 c.c.) richiedendosi un giudizio volto all’osservanza o meno delle leges artis che fungono da limite al rischio e della prevedibilità in concreto dell’evento verificatosi.
Venendo ora, più dettagliatamente al caso in analisi, il rischio non consentito consisterebbe nella violazione del divieto di “accanimento terapeutico” e, a tal uopo, occorre valutare se la violazione dei tale regola deontologica sia astrattamente idonea ai fini di un giudizio di rimproverabilità a titolo di colpa specifica.
In tema di delitti colposi come già accennato in apertura al presente parere, la prevedibilità dell’evento danno va accertato con criteri ex ante in vista dell’homo ejusdem proessionis et condicionis al quale non può esser mosso rimprovero alcuno circa la prevedibilità dell’evento dannoso qualora in base alle sue conoscenze non poteva prevederlo.
Oltre al criterio della prevedibilità ex anche andrà tenuto presente il criterio della “concretizzazione del rischio” ossia una valutazione ex post che consente di confermare che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire.
Affinchè l’accanimento terapeutico possa esser considerato quale regola cautelare “elastica” sarà necessaria una valutazione di tutte le circostanze del caso concreto in quanto, al contrario delle regole cautelare cd “rigide” (che fissano cioè con assoluta precisione lo schema comportamentale,) si devono prendere in analisi le condizioni specifiche in cui l’agente opera ed in base alle quali avrebbe dovuto condurre la sia valutazione circa la prevedibilità ed evitabilità dell’evento morte.
Alla stregua di quanto sin qui asserito, quand’anche la regola deontologica del caso di specie fosse astrattamente rientrante nel novero delle regole cautelati finalizzate ad evitare l’evento, nel caso de quo, non pare potersi addebitare l’evento a titolo di colpa in capo ai medici mancando l’idoneità della regola cautelare ad un corretto giudizio di “prevedibilità”.
Per potersi infatti formalizzare l’addebito colposo non basta la violazione della mera regola cautelare ma è necessario , si ripeta, che tale regola, qualsiasi essa sia, sia in concreto diretta ad evitare proprio il tipo di evento dannoso.
Tale presa di posizione defensionale , a vantaggio dei signori medici operanti su tizia, è stata avallata dalla giurisprudenza del 2004 che, in tema di colpa medica , ai fini della sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta imperita e l’evento lesivo, ritiene necessario che la regola cautelare della quale emerge la mancata osservanza, fosse effettivamente predeterminata ad evitare proprio quello specifico evento.
Argomentando in tal senso si comprende che, poiché la responsabilità colposa medica implica la violazione della regola cautelare di riferimento, secondo la regola della c.d causalità colposa, tale condotta non può esser qualificata a titolo di omicidio colposo non venendo ad esser che integrati gli estremi dell’imputazione soggettiva quale violazione della regola cautelare.
Sembra piuttosto ambigua la posizione della Corte sul tema “accanimento terapeutico” visto che a distanza di anni torna a pronunciarsi combattendo per affermare la sua posizione in uno Stato in cui anche un caso clinico diviene questione politica.
Il riferimento è al caso Eluana Englaro, non è il caso sottopostomi all’attenzione ma il tema è quello ed un po’, a parere della scrivente, gli assomiglia:
Il presupposto comune ai due casi è l’irreversibilità delle condizioni terapeutiche.
Eluana aveva scelto di morire, e sulla base dell’irreversibilità della sua condizione, tale opinione doveva essere rispettata, la signora del caso de quo aveva scelto di provare a non morire, ma essendo la sua condizione clinicamente irreversibile, bisognava astenersi dall’aiutarla o dar priorità, come nel caso Englaro alla sua volontà di autodeterminazione?
Quindi perché mai dovrebbero esser condannati i medici? Forse per aver ottemperato al loro dovere di far fede alla volontà della loro assistita di voler prolungare le sue speranze di vita? Sul punto sarà bene, per dissipare ogni dubbio circa la soluzione del caso de quo citare la Cassazione, che, con l’ormai, nota a tutti, sentenza “Englaro” del 2008, pone un mattone in più nella ricostruzione di un diritto naturale all’ accanimento terapeutico orientato quale libertà di scegliere le sorti delle propria vita, in un senso o nell’altro.
Dicono i Supremi giudici di Piazza Cavour :
“Assolutamente evidente è che è la volontà (espressa o ricostruita, se ricostruibile) dell’interessato che va rispettata, non quella del medico … (…) ”
Il medico è dunque una mera longa manus della volontà di autodeterminarsi del proprio paziente che ha scelto, mediante consenso informato, come nel caso di specie, di sottoporsi all’operazione “rischiosa”.