Vittima di reato violento e Direttiva 2004/80/CE: finalmente possibile chiedere risarcimento direttamente allo Stato Corte d’appello di Torino, sez. III Civile, 23 gennaio 2012, n. 106

 

VITTIMA DI REATO VIOLENTO E DIRETTIVA 2004/80/CE: FINALMENTE POSSIBILE CHIEDERE RISARCIMENTO DIRETTAMENTE ALLO STATO

Corte d’appello di Torino, sez. III Civile, 23 gennaio 2012, n. 106

 

In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (…) non autoesecutive, sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto (…) allo schema della responsabilità per inadempimento della obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita

Spettava, e spetta, dunque ad una cittadina rumena residente in Italia, il risarcimento del danno patito per la violenza sessuale di cui è rimasta vittima, in conseguenza dell’inadempimento dello Stato italiano alla Direttiva comunitaria del 2004.

 

 

Corte d’appello di Torino, sez. III Civile, 23 gennaio 2012, n. 106

(Pres./Rel. Prat)

 

Premessa in fatto

Con sentenza 31.3.2008 il Tribunale di Torino dichiarava (omissis) e (omissis) responsabili di violenza privata e sequestro di persona confronti di (omissis) e di aver costretto la (omissis) a compiere e a subire ripetutamente atti sessuali, in Torino e altrove, nella notte del 16.10.2005, dalle 4,15 circa alle 10 circa. Riuniti tali reati in continuazione, il Tribunale condannava gli imputati alla pena di 14 anni di reclusione ciascuno e al risarcimento del danno in favore della parte civile (omissis) da liquidarsi in separato giudizio, assegnando una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 50.000,00.

Sull’appello degli imputati, la Corte di Appello di Torino, con sentenza 18.5.2009, escluse le aggravanti di cui agli artt. 609 ter, comma 4 e 61 n. 5 c.p., rideterminava per ciascuno degli imputati la pena in 10 anni e 6 mesi di reclusione, confermando nel resto.

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 9.2.2009 (omissis) conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Torino la Presidenza del Consiglio dei ministri, chiedendo dichiararsene la responsabilità civile “per la mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione … della Direttiva 2004/80 CE e, più nello specifico, della norma ivi contenuta che dal 1° luglio 2005 impone agli Stati membri dell’Unione Europea di garantire “adeguato” ed “equo” ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali impossibilitate a conseguire dai loro offensori il risarcimento integrale dei danni subiti e patendi”; chiedendo inoltre condannarsi la parte convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da lei “subiti e patendi”.

Nell’ampio atto introduttivo l’attrice, in sintesi, assumeva che lo Stato Italiano, nonostante gli inviti e la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea avanti la Corte di Giustizia CE nel gennaio 2007, conclusasi con la condanna dell’Italia con sentenza 29.11.2007, non aveva ancora attuato la tutela risarcitoria che il legislatore comunitario aveva imposto agli Stati membri con decorrenza dal 1.7.2005 a favore delle vittime di reati intenzionali violenti.

Sosteneva di rientrare in tale categoria per essere stata nell’ottobre del 2005 sequestrata e violentata dai due imputati romeni, condannati con sentenza 31.3.2008 del Tribunale di Torino.

Assumeva che la condotta inadempiente dello Stato era tanto più grave in quanto esso era già inottemperante rispetto alla Convenzione Europea sul risarcimento delle vittime di crimini violenti del Consiglio d’Europa del 1983, non ratificata dall’Italia.

Osservava che essa era priva di qualsiasi chance di ottenere un risarcimento dai due imputati, di origine rumena, che peraltro si erano resi latitanti nel processo, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari.

Esponeva quali danni avesse subito a seguito dei reati di cui era stata vittima, indicando l’ammontare del risarcimento in euro 100.000,000 e,  in subordine, nella misura corrispondente alla provvisionale quantificata dal Tribunale di Torino.

Produceva numerosissimi documenti e deduceva prove per interrogatorio e testi.

La Presidenza del Consiglio dei ministri si costituiva e chiedeva la reiezione della domanda, svolgendo difese che possono essere così riassunte.

La ratio ispiratrice della ricordata Direttiva era quella di facilitare l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfontaliere, nell’ottica di una completa attuazione del principio di libera circolazione delle persone, per impedire che la residenza in uno Stato membro diverso da quello in cui si era consumato il reato potesse impedire alla vittima di accedere all’indennizzo previsto dall’ordinamento del luogo ove il reato era stato consumato.

L’art. 12, paragrafo 2 della Direttiva non effettuava una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, né forniva criteri atti a determinare la misura equa della somma da riconoscere alla vittima, limitandosi ad esporre il criterio della intenzionalità e della natura violenta del crimine.

Rientrava pertanto nella esclusiva competenza del legislatore italiano determinare quali fattispecie di reato potessero comportare indennizzo.

L’Italia già considerava una serie di ipotesi in cui lo Stato era tenuto alla corresponsione di un indennizzo. Esse venivano elencate, a cominciare dalla legge n. 302/90 per le vittime del terrorismo fino alla legge n. 512/99 relativa al fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso.

Solo in tali limiti la vittima di un reato violento ed intenzionale poteva rivolgersi allo Stato Italiano, ove non fosse riuscita ad ottenere il ristoro dei danni da parte dell’autore del reato.

La pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee resa nella causa C-112/07 (Commissione delle Comunità Europee contro Repubblica Italiana) non  poteva essere assunta ad indice dell’asserito perdurante inadempimento da parte della Repubblica Italiana, in quanto essa non aveva potuto tener conto dell’entrata in vigore – pochi giorni prima della sua pronuncia – del D.lgs. n. 204/07, con il quale il nostro ordinamento aveva dato ingresso al suo interno alle norme di matrice comunitaria di cui alla Direttiva in questione.

Infine venivano svolte osservazioni sul quantum della domanda avversaria.

Il Giudice istruttore assegnava i termini di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. dopo che parte attrice aveva depositato istanza ex art. 234 del trattato della Comunità Europea per la proposizione di domanda di pronuncia pregiudiziale sulla questione se l’art. 12, par. 2 della Direttiva 2004/80/CE fosse da interpretarsi nel senso di imporre a tutti gli Stati membri di provvedere affinché le loro normative nazionali prevedessero l’esistenza di un sistema di risarcimento anche a favore delle vittime di violenze sessuali, commesse nei rispettivi territori, che garantisse a queste un risarcimento equo ed adeguato.

Con ordinanza 4.12.2009 il Giudice istruttore, ritenuto opportuno rimettere la causa a decisione, fissava udienza di precisazione delle conclusioni al 22.12.2009.

Con sentenza 3.5.2010 (depositata in cancelleria in data non leggibile nella copia prodotta dalla parte appellante, ma la formula esecutiva reca la data 27.5.2010), il Tribunale:

– accertato l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per mancata attuazione della direttiva 2004/80/CE;

– condannava la predetta Presidenza al pagamento a favore di (omissis) della somma di euro 90.000.00, oltre interessi di legge dalla data della sentenza al saldo;

– condannava la Presidenza alla rifusione delle spese legali.

La sentenza, in sintesi, era così motivata.

I penosi fatti di causa non erano contestati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come non era contestato che gli autori del reato fossero latitanti e che pertanto non fosse possibile per l’attrice ottenere da essi il ristoro dei danni subiti.

In astratto l’azione dell’attrice era ammissibile e in proposito si richiamava la sentenza della Cassazione a Sezioni unite del 17.4.2009 n. 9147 sulla risarcibilità del danno conseguente alla omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie non autoesecutive.

Occorreva quindi accertare se lo Stato italiano fosse responsabile per non aver dato attuazione in modo completo alla direttiva comunitaria 2004/80 e cioè per non aver previsto un sistema risarcitorio ovvero di indennizzo per tutti i reati violenti intenzionali e in particolare per quelli di violenza sessuale.

Veniva in particolare esaminato il capo II della direttiva, che regolamenta i sistemi di indennizzo nazionale con l’art. 12: “Orbene appare evidente che il secondo comma (tenuto anche conto del tenore letterale dei considerando n. 6 e 7) sancisce l’obbligo per gli Stati membri di istituire a favore delle vittime di reati intenzionali violenti un meccanismo di compensation tale da…”.

Con riguardo all’Italia pareva evidente che il nostro Stato non si fosse adeguato alla predetta normativa nei termini assegnati.

Con sentenza 29.11.2007 la Corte di Giustizia CE aveva riscontrato che l’Italia non aveva adottato nel termine prescritto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva in questione.

Né la situazione appariva mutata dopo il D.lgs. n. 204 del 2007, che aveva disciplinato solo gli aspetti formali della procedura sul presupposto che fossero già altrimenti individuati i reati intenzionali e violenti cui ricollegare il sistema di indennizzo.

Non poteva in particolare essere condiviso l’assunto della parte convenuta secondo cui rientrava nel potere discrezionale dei singoli Stati selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato ai fini indennitari, poiché l’art. 12 non consentiva tale discrezionalità, laddove prescriveva che tutti gli Stati membri dovevano predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisse un indennizzo equo ed adeguato alle vittime.

Sotto questo profilo permaneva pertanto l’inadempimento dello Stato italiano a dare attuazione alla direttiva. Nessuna norma di diritto interno riconosceva infatti il diritto al risarcimento per reati intenzionali violenti diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della direttiva, disattendendo il chiaro disposto dell’art. 12 di essa.

Tenuto conto dei principi della Suprema Corte in materia di inadempimento dello Stato all’attuazione delle direttive comunitarie, scaturiva l’obbligo dello Stato di adeguarsi alla medesima e nel caso in esame di risarcire il danno subito da (omissis) sussistendo sia il requisito del reato violento intenzionale, sia quello dell’impossibilità di poterne ottenere il ristoro dagli autori del reato.

Atteso il chiaro tenore letterale della norma, che non pareva lasciare spazio all’interpretazione più restrittiva fatta propria dallo Stato italiano, non vi erano ragioni giuridiche per rimettere la questione interpretativa alla Corte di Giustizia.

L’ultima parte della sentenza era dedicata alla quantificazione del danno.

Contro tale sentenza proponeva appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con atto notificato il 6.7.2010, chiedendo: in via preliminare, accertarsi e dichiararsi la nullità della sentenza; in subordine, nel merito, in totale riforma della sentenza, rigettarsi l’originaria domanda perché infondata. A sostegno dell’impugnazione deduceva i motivi che verranno esaminati.

(omissis) si costituiva, chiedendo accogliersi le conclusioni riportate in epigrafe.

Interveniva la Procura Generale della Repubblica, chiedendo respingersi l’appello e in subordine disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

Nell’udienza del 27.5.2011 le parti precisavano le conclusioni richiamando quelle assunte nei rispettivi atti introduttivi e la Corte rimetteva la causa a decisione assegnando termine di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali e di 20 per il deposito delle memorie di replica; tutte le parti chiedevano la discussioni orale, che veniva poi fissata dal presidente per l’udienza del 30.11.2011.

In sede di discussione l’Avvocatura dello Stato ha chiesto la cancellazione di frasi ritenute offensive contenute nella memoria di replica (omissis). Il rappresentante della Procura Generale ha chiesto disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sollecitando il rito d’urgenza previsto dall’art. 104 ter del Regolamento di procedura della Corte.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo di appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in via preliminare, eccepisce la nullità della sentenza per omessa od insufficiente motivazione.

La parte appellante sostiene tale nullità per mancanza di motivazione su un punto essenziale della controversia, cioè quello in cui il Giudice di prime cure ha dato conto dell’asserito inadempimento della Direttiva 2004/08/CE da parte del legislatore nazionale.

Richiama le pagine 8 e 9 della decisione impugnata e in particolare osserva che il periodo finale di pag. 8: “Orbene appare evidente che il secondo comma (tenuto conto anche del tenore letterale dei considerando n. 6 e 7) sancisce l’obbligo per gli Stati membri di istituire a favore delle vittime di reati intenzionali violenti un meccanismo di compensation tale da”, non è concluso all’inizio della pagina successiva. Ne trae la conclusione che, a causa di tale omissione, la decisione è affetta da insanabile mancanza di motivazione, perché non è dato di comprendere quale sia, nell’interpretazione del primo Giudicante, la portata dell’obbligo di cui al paragrafo 2 dell’art. 12 della Direttiva, in assenza dell’indicazione del termine di paragone rispetto al quale commisurare la “condotta” del legislatore italiano, con la conseguenza che l’intero sillogismo giudiziale contenuto nella decisione ne risulta irrimediabilmente viziato.

La Corte ritiene tale motivo di appello infondato.

Effettivamente la frase citata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri non è conclusa, verosimilmente per un difetto nell’uso del computer con cui la sentenza è scritta.

L’esame però della motivazione nel suo complesso (in particolare le pagine 9 e 10) chiarisce sufficientemente il ragionamento del Tribunale. Il primo Giudice osserva che il nostro Stato non si è adeguato alla predetta normativa nei termini assegnati dopo l’entrata in vigore della Direttiva e il richiamo è evidentemente ai due paragrafi dell’art. 12 citato a pag. 8. Richiama poi la sentenza 29.11.2007 della Corte di Giustizia CE e osserva che la situazione non appare mutata dopo il decreto legislativo n. 204/2007, che ha disciplinato solo gli aspetti formali della procedura sul presupposto che fossero già altrimenti individuati (alcuni e non tutti) i reati intenzionali e violenti cui ricollegare il sistema di indennizzo. Osserva che gli obblighi dello Stato non possono dirsi esauriti con previsioni legislative anteriori all’entrata in vigore della Direttiva, aventi ad oggetto indennizzi per le vittime di atti di terrorismo e di criminalità organizzata, di reati estorsivi e di usura, poiché pur in presenza di tali previsioni la Corte di Giustizia già aveva ravvisato l’inadempimento dello Stato italiano.

Ritiene non condivisibile l’assunto secondo cui rientra nei poteri discrezionali dei singoli Stati nazionali selezionare le tipologie di reati violenti e circoscrivere la gamma di reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato ai fini indennitari, poiché l’art. 12 non consente agli Stati tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori che garantisca un indennizzo equo ed adeguato alle vittime.

La conclusione è che permane pertanto l’inadempimento dello Stato italiano nel dare attuazione alla Direttiva e che nessuna norma di diritto interno riconosce infatti il diritto al risarcimento per reati intenzionali diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della Direttiva, disattendendo il chiaro disposto dell’art. 12 della Direttiva, stessa la quale non pare attribuire agli Stati nazionali il potere di scegliere i singoli reati intenzionali violenti che possono formare oggetto di risarcimento, ma anzi impone loro di prevedere un meccanismo indennitario per tutti i reati di quel genere e dunque anche per i reati di violenza sessuale.

Dal complesso di tali argomentazioni risulta sufficientemente chiaro – a giudizio della Corte – in particolare che vi è stato inadempimento dell’Italia al disposto del par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di prevedere un meccanismo indennitario non solo per alcuni reati violenti intenzionali, ma per tutti tali reati, compresi quelli di violenza sessuale.

Con il secondo motivo, relativo all’asserito inadempimento da parte dello Stato italiano della Direttiva in questione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri critica la sentenza impugnata con osservazioni e argomentazioni che possono essere così riassunte.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, a partire dalla celebre sentenza Francovich del 19.11.1991, ha chiarito che i presupposti indispensabili affinché possa configurarsi, in capo ad uno Stato membro, la responsabilità civile per il mancato recepimento, nei termini stabiliti, delle direttive comunitarie non self executing sono:

– che la Direttiva non recepita attribuisca in via diretta ai singoli un diritto;

– che vi sia un nesso causale tra il mancato recepimento ed il danno lamentato dal singolo interessato.

Entrambe tali condizioni difettano nel caso di specie.

È assai utile in proposito la lettura dei cd. “considerando” di cui al preambolo della Direttiva in questione, in particolare i numeri 1), 7), 12) e 14). Da essi può inferirsi che la ratio ispiratrice dell’intera Direttiva sia quella di facilitare, nell’ambito dei sistemi predisposti da ogni Stato membro, l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere, nell’ottica dell’attuazione del principio di libera circolazione delle persone (di cui la garanzia dell’integrità personale in ogni Stato membro rappresenta un importante corollario).

Gli artt. 1-11 della Direttiva hanno pertanto previsto un meccanismo procedurale assai semplificato, diretto a consentire alla vittima del reato di rivolgersi all’Autorità dello Stato membro in cui si è consumato il reato, superando barriere linguistiche, burocratiche e di ogni altro genere.

Occorre inoltre considerare che il diritto comunitario non disciplina le cosiddette “situazioni meramente interne”, come è confermato dal par. 1 dell’art. 12.

L’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere è riconosciuto entro i limiti in cui i singoli ordinamenti (i “sistemi degli Stati membri”) riconoscono tale diritto ai propri cittadini.

La tesi appena sostenuta – ovvero la necessaria riferibilità della Direttiva alle sole situazioni transfrontaliere – è confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (sent. n. 467 del 28.6.2007).

Alla luce della predetta ratio dovrà essere esaminato anche quanto previsto nel par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, tenendo conto di quanto disposto nel già esaminato par. 1: nel senso che l’art. 12, mentre nel par. 1 rimanda ai sistemi di indennizzo già previsti dai singoli Stati membri, nel par. 2 prescrive agli altri Stati membri – che ne siano sprovvisti, di predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori.

In altri termini, il par. 2 non si applica agli Stati membri (come l’Italia) che, all’entrata in vigore della Direttiva, si fossero già dotati di un tale sistema di indennizzo, né è possibile ritenere che il legislatore europeo abbia voluto imporre a tutti gli Stati membri (e quindi anche a quelli, come l’Italia, i cui ordinamenti già prevedevano un adeguato sistema di indennizzo delle vittime) di introdurre, con legge, una ulteriore ipotesi di indennizzo in favore delle vittime del reato di violenza sessuale.

Inoltre la citata norma non effettua affatto una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, ne fornisce criteri atti a determinare la misura equa della somma da riconoscere alle vittime, limitandosi ad enumerare il duplice criterio della intenzionalità e della natura violenta del crimine.

Il legislatore comunitario ha inteso demandare ai singoli ordinamenti l’individuazione delle fattispecie indennizzabili e dei parametri in base ai quali determinare il quantum dell’indennizzo.

La norma comunitaria cui fa riferimento il Giudice di prime cure non è quindi di diretta applicabilità, ma necessita, al contrario, della intermediazione della Autorità pubblica statale.

È necessario pertanto riferirsi alle norme che, nell’ordinamento italiano, prevedono l’indennizzo delle vittime di reati a carattere violento ed intenzionale, dalla legge n. 302 del 1990 e successive modificazioni, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, alla legge n. 512 del 1999 istitutiva del cosiddetto fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso.

Sarà dunque nei limiti di tali norme che la vittima di un reato violento ed intenzionale potrà rivolgersi allo Stato laddove non sia riuscita ad ottenere il ristoro dei danni da parte dell’autore del reato.

La conformità del nostro ordinamento rispetto agli obblighi comunitari è confermata anche dalla comparazione con gli ordinamenti degli altri Paesi europei(vengono citati gli ordinamenti greco, spagnolo, olandese, austriaco, francese, tedesco). Ciascuno Stato membro ha modulato in via autonoma l’accesso all’indennizzo di cui alla direttiva, a conferma del carattere ampiamente discrezionale dell’attività rimessa a ciascun ordinamento dal legislatore soprannazionale. L’Italia ha ritenuto di circoscrivere la gamma dei reati interessati dalla possibilità di adire lo Stato a fini indennitari alle sole ipotesi normative indicate, che rappresentano le fattispecie delittuose più gravi del sistema penalistico interno.

La pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella causa C-112/07 (Commissione delle Comunità Europee contro Repubblica Italiana) non può essere assunta ad indice dell’asserito perdurante inadempimento da parte della Repubblica Italiana, perché non ha potuto tener conto dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 204/07, con il quale è stato dato ingresso alle norme di matrice comunitaria di cui alla Direttiva.

Inoltre la Commissione Europea ha contestato all’Italia esclusivamente il mancato adempimento di quanto stabilito nel par. 1 dell’art. 12 e non di quanto stabilito nel par. 2 dello stesso articolo e ciò perché il nostro Stato era già munito di un articolato sistema di indennizzo per varie categorie di reati intenzionali e violenti.

Il Tribunale, infine, ha errato là dove ha ritenuto sussistente il presupposto dell’impossibilità di conseguire il risarcimento direttamente dagli autori della fattispecie di reato: infatti la (omissis) ha solo rappresentato le eventuali difficoltà che potrebbe incontrare nel caso in cui decidesse di instaurare una causa civile nei confronti degli autori dell’odioso crimine di cui è rimasta vittima, ma tale rappresentazione non può ritenersi sufficiente, richiedendo la Direttiva l’impossibilità attuale di ottenere un ristoro patrimoniale da parte dei soggetti attivi del reato, e la relativa prova non è stata data.

Ciò premesso, la Corte osserva quanto segue.

Significato e portata della Direttiva 2004/80/CE vanno ricercati e identificati tenendo conto, oltre che della formulazione delle singole disposizioni, del contesto in cui è stata emanata e dei fini che essa intendeva raggiungere. Si deve pertanto tenere conto accuratamente dei vari “considerando” che precedono il testo normativo.

In particolare, nel “considerando” n. 6) è detto: “Le vittime di reato nell’Unione europea dovrebbero avere il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite, indipendentemente dal luogo della Comunità europea in cui il reato è stato commesso”.

Nel n. 7) è detto: “La presente direttiva stabilisce un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, che dovrebbe operare sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori.

Dovrebbe essere pertanto istituito in tutti gli Stati membri un meccanismo di indennizzo”.

Nel n. 8) si ricorda che “La maggior parte degli Stati membri ha già istituito questi sistemi di indennizzo, alcuni di essi in adempimento dei loro obblighi derivanti dalla convenzione europea del 24 novembre 1983 sul risarcimento alle vittime di atti di violenza”.

Si dice poi (“considerando” n. 10) che in molti casi le vittime di reato non possono ottenere un risarcimento dall’autore di esso e che dovrebbe pertanto essere introdotto un sistema di cooperazione tra le autorità degli Stati membri per facilitare l’accesso all’indennizzo nei casi in cui il reato sia stato commesso in uno stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede (n. 11).

La Direttiva consta di tre capi. Il primo è intitolato “Accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere”; il secondo “Sistemi di indennizzo nazionali”; il terzo “Disposizioni di attuazione”.

Il capo I consta di undici articoli e regola la collaborazione tra gli Stati membri per gli indennizzi alle vittime nelle situazioni transfrontaliere. Tali situazioni sono quelle (art. 1) in cui un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui il richiedente l’indennizzo risiede abitualmente.

Il capo II consta del solo articolo 12 comprendente due paragrafi:

“1. Le disposizioni della presente direttiva riguardanti l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano sulla base dei sistemi degli Stati membri in materia di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori.

2. Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime”.

La Corte condivide ciò che espone la Difesa della Presidenza del Consiglio dei ministri nell’appello, cioè che la ratio ispiratrice della Direttiva è quella di facilitare, nell’ambito dei sistemi predisposti da ogni Stato membro, l’accesso all’indennizzo nelle cosiddette situazioni transfrontaliere. A tal fine sono regolate le modalità di collaborazione tra gli Stati membri.

Tali forme di collaborazione presuppongono però che tutti gli Stati membri siano dotati di normative nazionali che prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, ed è appunto ciò che impone il par. 2 dell’art. 12: altrimenti il sistema nel suo complesso non può funzionare. Ciò era ben presente al legislatore comunitario, che lo ricordava nel considerando n. 8), precisando che la maggior parte degli Stati membri aveva già istituito sistemi di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti: la maggior parte e quindi non tutti.

Ecco allora perché l’art. 12, par. 2, dispone che tutti gli Stati membri provvedano a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime.

Come si è visto, la Difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene che il par. 2 non si applica agli Stati membri che, come l’Italia, all’entrata in vigore della Direttiva erano già dotati di tale sistema di indennizzo e che non è possibile ritenere che il legislatore europeo abbia voluto imporre a tutti gli Stati membri (e quindi anche all’Italia) di introdurre con legge un’ulteriore ipotesi di indennizzo a favore delle vittime di reato di violenza sessuale.

Tale tesi difensiva, pur brillantemente esposta e argomentata, a giudizio della Corte non è condivisibile.

Il legislatore comunitario richiede che ogni Stato membro sia dotato di un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca (…). L’indennizzo deve riguardare le vittime di tutti i reati intenzionali violenti, non le vittime dia alcuni di tali reati.

È certamente apprezzabile che il nostro Stato abbia tutelato e tuteli le vittime del disastro aereo di Ustica, o le vittime di usura o dei reati di tipo mafioso (per fare alcuni esempi tra quelli riportati dall’appellante a pag. 14 dell’atto di impugnazione), ma ciò non significa che abbia adempiuto all’obbligo comunitario di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti (lo si ripete) i reati intenzionali violenti commessi nel suo territorio.

E quindi anche, per quanto qui particolarmente interessa, delle vittime di reati di violenza sessuale.

Che la violenza sessuale rientri nella categoria dei reati intenzionali violenti non può essere messo in dubbio. Si può discutere se certi reati possano essere qualificati intenzionali violenti, ma non che lo sia la violenza sessuale o, per fare un’altra ipotesi, l’omicidio volontario.

Ora è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente alla disposizione del ricordato par. 2 dell’art. 12.

La Corte non condivide neppure l’affermazione dell’appellante che la norma citata non sia di diretta applicabilità, poiché non effettua una puntuale ricognizione delle singole fattispecie di reato cui riconnettere l’obbligo di indennizzo, ma necessita di intermediazione dell’Autorità pubblica statale.

La norma impone ai singoli Stati membri – lo si ribadisce – di provvedere a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti; non lascia discrezionalità sulla portata dell’obbligo. Come si è già detto, si potrà discutere se un certo reato sia intenzionale violento o meno, ma non che non rientri in tale categoria la violenza sessuale. La discrezionalità dei singoli Stati potrà attuarsi nello stabilire la misura equa ed adeguata di un indennizzo per tale reato, come per gli altri reati intenzionali violenti.

Non giova all’appellante il richiamo alla sentenza 29.11.2007 in causa C-112/07 della Corte di giustizia CE, perché essa ha stabilito che: “Non avendo adottato, entro il termine prescritto, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/80/CE, relativa all’indennizzo delle vittime di reato, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tale direttiva”.

Nella motivazione si legge che nel suo controricorso la Repubblica italiana non contesta la fondatezza del ricorso proposto dalla Commissione: “Essa osserva tuttavia che determinate leggi già vigenti nell’ordinamento giuridico italiana prevedono l’indennizzo delle vittime di atti di terrorismo e della criminalità organizzata nonché delle vittime di reati estorsivi e di usura. Peraltro, tale Stato membro fa valere che l’iter legislativo diretto ad assicurare il recepimento integrale della direttiva nel suo ordinamento giuridico è in via di conclusione”.

Si legge ancora, nella motivazione che “Nel caso di specie, è pacifico che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, tutti i provvedimenti necessari per procedere all’attuazione della direttiva nell’ordinamento giuridico nazionale non erano stati adottati dalla Repubblica italiana”.

In realtà, il decreto legislativo 6.11.2007 n. 204, intitolato “Attuazione della direttiva 2044/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato”, non ha dato completa attuazione alla Direttiva stessa, poiché si è limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato”. Allorché nel territorio di uno Stato membro dell’unione europea sia stato commesso un reato che dà titolo a forme di indennizzo previste in quel medesimo Stato e il richiedente l’indennizzo sia stabilmente residente in Italia (…)”, art. 1, ma non ha dato attuazione al disposto dell’art. 12, par. 2 della Direttiva, che imponeva agli Stati membri, come si è più volte ricordato, di provvedere a che le loro normative prevedessero l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori (entro il 1° luglio 2005, ex art. 18 della Direttiva). Non giova neppure all’appellante il richiamo alla sentenza n. 467 del 28.6.2007 della Corte di Giustizia CE. Certamente la Direttiva ha inteso istituire un sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere e assicurare che, se un reato intenzionale violento è stato commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui la vittima risiede abitualmente, quest’ultima sia indennizzata da tale primo Stato. Ma, come si ribadisce, perché la Direttiva abbia completa attuazione occorre che tutti gli Stati membri abbiano previsto nel loro ordinamento un sistema di indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti, di tutti i reati di tale genere, non solo di alcuni, come invece ha fatto l’Italia, non considerando – per quanto qui particolarmente interessa – il reato di violenza sessuale.

È opportuna un’ultima considerazione, in relazione a quanto esposto, dalla Presidenza dei Consiglio dei Ministri nella comparsa conclusionale a pag. 9-11, con riferimento anche ad un contributo dottrinario. L’Avvocatura dello Stato ripercorre le vicende che hanno portato all’adozione della direttiva, muovendo dalla analisi di proposta di direttiva presentata dalla Commissione il 16.12.2002. Osserva che l’iniziale articolato prevedeva la fissazione di norme minime per il risarcimento delle vittime, definiva le nozioni di vittima, di reato intenzionale e di lesioni personali e individuava i principi relativi all’importo del risarcimento. Rileva che dal confronto tra il testo della proposta e quello della Direttiva poi approvata emerge chiaramente come l’obiettivo iniziale sia stato abbandonato, a causa sia dell’impossibilità di raggiungere un compromesso politico proprio sulla introduzione di norme cosiddette minime, sia della difficoltà di individuare un’adeguata base giuridica del trattato, che permettesse tale “invasione” delle competenze nazionali da parte del diritto comunitario. Conclude nel senso che, ritenere che tale sistema di norme cd. minime sia stato comunque creato in forza del par. 2 dell’art. 12 della Direttiva, significherebbe vanificare il lavoro di mediazione che ha portato alla elaborazione del testo definitivo, facendo rivivere le parti della Direttiva che gli Stati membri non hanno voluto accettare. La Corte non condivide tale conclusione. Il fatto che gli Stati membri non siano stati in grado di raggiungere un accordo nel senso sopra indicato non fa venir meno il chiaro significato precettivo dell’art. 12, par. 2. La norma citata esiste e va applicata. Applicandola doverosamente, l’Italia avrebbe dovuto prevedere nel proprio ordinamento, fra l’altro, che un reato certamente intenzionale violento come la violenza sessuale commesso nel suo territorio prevedesse la possibilità di indennizzo a favore di chi ne fosse rimasto vittima.

Accertato dunque l’inadempimento dell’Italia a quanto disposto dall’art. 12, par. 2 della Direttiva non resta che trarne le conseguenze, come ha fatto il primo Giudice, che ha richiamato la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 17.4.2009 n. 9147: “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (…) non autoesecutive, sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto (…) allo schema della responsabilità per inadempimento della obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita (…)”.

Tali principi sono stati ribaditi dalla Suprema Corte con la sentenza 17.5.2011 n. 10813.

Spettava, e spetta, dunque a (omissis) cittadina rumena residente in Italia, il risarcimento del danno patito per la violenza sessuale di cui è rimasta vittima, in conseguenza dell’inadempimento dello Stato italiano alla Direttiva comunitaria del 2004.

Occorre ora esaminare l’ultima parte del secondo motivo di appello, con cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene che la sentenza del Tribunale ha errato là dove ha ritenuto esistente il presupposto dell’impossibilità per la (omissis) di conseguire il risarcimento direttamente dagli autori del reato.

Sul punto il Tribunale (pag. 6 della sentenza) ha osservato che non è in contestazione il fatto che gli autori del reato siano latitanti e che pertanto non sia possibile per l’attrice ottenere dai medesimi il ristoro dei danni subiti e che quindi è pienamente realizzata la condizione posta dalla Direttiva (di cui al “considerando” n. 10 per l’operatività del sistema risarcitorio), ovvero che la vittima non possa ottenere il risarcimento dall’autore del reato in quanto questi non possiede le risorse necessarie per ottemperare ad una condanna al risarcimento dei danni oppure può non essere identificato o perseguito.

La Corte non ha dubbi nel senso che (omissis) non possa ottenere dai due autori dei reati un adeguato risarcimento del danno, anzi un qualsiasi anche parziale risarcimento.

A tale fine essa ha fatto quanto poteva nei giudizi di merito davanti al Tribunale e alla Corte di Appello di Torino, con la costituzione di parte civile (la sentenza di appello è stata confermata in Cassazione, come esposto nella discussione dalla Difesa (omissis), senza contestazione da parte della Difesa erariale). I due imputati si sono resi latitanti nel giudizio di primo grado e tali sono rimasti nel giudizio di appello; non risulta che abbiano mai espresso qualche forma di pentimento e offerto un benché minimo risarcimento; non si vede che utilità pratica potrebbe avere una causa civile proposta dalla (omissis) contro di essi per ottenere un risarcimento.

Con il terzo motivo l’appellante osserva che il Giudice di prime cure ha confuso il concetto di risarcimento con quello di indennizzo, ritenendo che la domanda di indennizzo possa essere intesa come una domanda di ristoro integrale dei danni subiti; che la ratio della normativa nazionale e comunitaria in tema di indennizzo delle vittime di reati violenti non può essere certamente quella di sostituire o aggiungere lo Stato all’autore del delitto nella responsabilità verso le vittime; che l’obbligo che la Direttiva pone agli Stati è invero solo quello di predisporre un indennizzo equo ed adeguato; che i criteri di liquidazione di tale indennizzo dovrebbero essere pertanto del tutto autonomi rispetto ai parametri di liquidazione del risarcimento ordinario dovuto dai responsabili del fatto di reato; che pertanto la liquidazione fatta dal Tribunale, del tutto errata ed esorbitante, andrà comunque operata ex novo e ridimensionata.

La Corte osserva che il Tribunale ha fatto riferimento per la liquidazione “al risarcimento ai sensi della citata direttiva”, risarcimento che “deve essere adeguato al fine di consentire una effettiva riparazione (la direttiva parla di un indennizzo equo ed adeguato delle vittime), con criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni di diritto interno, e ispirati al principio di non discriminazione”; ha poi considerato la gravità delle circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolti i fatti criminosi, le modalità con le quali i reati sono stati commessi, le conseguenze morali e psicologiche subite da (omissis), tenuto conto della giovanissima età; ha considerato anche che il sistema istituito prevede un indennizzo tale da assicurare una idonea compensazione, che proviene peraltro da un soggetto che non ha responsabilità per i fatti di causa; in conclusione ha ritenuta equa una liquidazione, a titolo di danno morale, in euro 90.000,00, somma comprensiva degli interessi legali e della rivalutazione.

La (omissis) ha eccepito l’inammissibilità del presente motivo di appello “per la sua assoluta genericità”. Tale eccezione non è fondata, avendo la Presidenza del Consiglio dei ministri proposto specifici motivi di critica alla decisione di primo grado.

Ciò premesso, la Corte richiama la citata sentenza n. 9147/09 delle Sezioni unite della Cassazione, la cui massima è stata riportata esaminando il secondo motivo di appello.

La Suprema Corte ha definito la responsabilità dello Stato italiano per omessa o tardiva trasposizione delle direttive comunitarie non autoesecutive come responsabilità di natura indennitaria per attività non antigiuridica, che dà luogo al relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, che va determinato in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita.

Ora, nel caso di specie, la perdita subita da (omissis) è consistita nel non ricevere alcun indennizzo per la violenza sessuale subita, per non avere la Repubblica Italiana previsto tale reato, intenzionale e violento, tra quelli che avrebbero dovuto consentirle di ottenere un equo ed adeguato indennizzo.

Lo Stato italiano, nella sua discrezionalità, in attuazione della Direttiva, avrebbe potuto stabilire condizioni e presupposti ed eventualmente limiti pecuniari al ristoro del danno; o, in ipotesi, forme di indennizzo anche diverse dal pagamento di una somma di denaro, purché eque ed adeguate.

Non avendolo fatto, deve indennizzare la (omissis) della perdita che essa ha subito, nel senso sopra indicato.

Tale indennizzo, a giudizio di questa Corte, non può però essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da quanto pare essere stato deciso dal Giudice di prime cure, con il richiamo per la liquidazione “a criteri non meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste analoghe fondate su violazioni di diritto interno”.

L’indennizzo – come ha ricordato la Cassazione – va determinato con i mezzi offerti dall’ordinamento interno.

La liquidazione non può che essere fatta, per il danno non patrimoniale, in via equitativa, ex art. 2056-1226 c.c.

In proposito la Corte osserva che i fatti criminosi di cui (omissis) è stata vittima sono gravissimi. È sufficiente in proposito la lettura dei capi di  imputazione a carico dei due imputati, ora condannati con sentenza passata in giudicato e in particolare del capo b) dove sono descritte le minacce e le violenze subite dalla (omissis) per costringerla a subire e compiere atti sessuali, ripetuti più volte. Occorre considerare che la (omissis) aveva appena diciotto anni. È logico trarne la conclusione che la vittima abbia subito gravissime conseguenze di ordine morale e psicologico, che giustificano un indennizzo di euro 50.000,00 (già tenuto conto di rivalutazione ed interessi dal giorno del fatto) alla data della sentenza di primo grado, oltre gli interessi legali dalla data di tale sentenza.

In conclusione, la sentenza impugnata va parzialmente riformata nel senso or ora indicato.

Non si ravvisano validi motivi per disporre la cancellazione di alcune espressioni contenute nelle difese della (omissis), richiesta dalla Difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri (espressioni a pag. 25, 34 e 36 della memoria di replica). Si tratta infatti di espressioni, in qualche caso “pesanti”, ma pur sempre attinenti all’esercizio del diritto di difesa.

Le spese del presente grado di giudizio vengono poste a carico della parte appellante, tenendo conto che essa è pienamente soccombente in ordine alla responsabilità per mancata attuazione della Direttiva comunitaria e che la quantificazione del danno è oggetto di valutazione discrezionale. In mancanza di nota, esse vengono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

pronunciando definitivamente;

respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione;

in parziale riforma della sentenza n. 3145/10 emessa il 3.5.2010 dal Tribunale di Torino;

riduce ad euro 50.000,00, oltre interessi di legge dalla data della sentenza di primo grado, la somma che la Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata condannata a pagare a (omissis);

conferma nel resto;

respinge l’istanza, proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cancellazione di espressioni contenute nelle difese (omissis);

condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri a rimborsare alla (omissis) le spese del presente grado di giudizio, che liquida in euro 1.200,00 per diritti ed euro 7.300,00 per onorari, oltre 12,5% rimborso forfettario spese generali, CPA e IVA.

Così deciso in Torino, nella camera di consiglio della III Sezione civile della Corte di Appello, il 30 novembre 2011.

 

 

 

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