POLITICO CONDANNATO: CON TRUFFA E MINACCE OTTENEVA LUSSI E BELLA VITA. SONO SPESE NON RIMBORSABILI!
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2012, n. 8094
Dal sistema normativo, attinente alle spese che possono essere poste a carico di un ente pubblico, appare evidente che sono erogabili o rimborsabili da parte dell’Ente le sole spese che abbiano comunque un nesso con le finalità dell’Ente e con gli scopi dello stesso e della missione demandata al funzionario in trasferta. Di qui deriva che non è manifestamente illogica la decisione della Corte territoriale nel ritenere che i richiesti rimborsi per il soddisfacimento di esigenze strettamente personali dell’imputato (pedicure, manicure, massaggi, costumi da bagno, pranzo offerto ad ospiti per fini non istituzionali) avessero natura concretamente illegittima perché indebita.
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2012, n. 8094
(Pres. Sirena – Rel. Crescienzo)
Motivi della decisione
C.S. , tramite i difensori ricorre per Cassazione avverso la sentenza 20.4.2009 con la quale la Corte di Appello di Lecce, confermando la decisione 3.11.2005 del Tribunale di Lecce, condannandolo alla pena di mesi sette di reclusione ed applicando la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno. Con la medesima decisione, veniva concessa all’imputato la sospensione condizionale della pena.
Ritenuto in fatto
L’imputato è stato tratto a giudizio avanti il Tribunale di Lecce per rispondere dei delitti di cui agli artt.: a) 314 c.p.; b) 640 comma 1 e 2 n. 1 c.p.; c) 61 n. 2 e 9, 610 c.p., così formulate le imputazioni:
a) Per il reato p.p. dell’art. 314 c.p., perché, nella qualità di Presidente del Consiglio Comunale di Lecce, avendo ricevuto con determinazione n. 14 dei 6.2.2004 del dirigente del Settore affari generali del Comune di Lecce la somma di denaro di Euro 2.500,00 quale anticipo delle spese di viaggio e soggiorno sostenute per partecipare, per conto del medesimo ente, alla Borsa Internazionale del Turismo di Milano, si appropriava della somma complessiva di Euro 338,00 pagando con le risorse dell’Amministrazione comunale di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio, l’acquisto per uso personale di n. 2 costumi da bagno e di massaggi estetici presso il “Centro benessere” dell'(omissis) , nonché offrendo la cena a persone estranee all’Amministrazione Comunale presso il Ristorante (omissis) ;
b) Per il reato di cui all’art. 640 c. I e II n. 1 c.p., perché inducendo in errore R.M.T. , Dirigente responsabile del settore affari generali del Comune di Lecce, sulla correttezza dei rimborsi richiesti, chiedeva ed otteneva la restituzione di ulteriori somme, relative alla sua missione alla “Borsa internazionale del Turismo”, non dovute per l’importo, di Euro 334,00, in tal modo procurandosi un ingiusto profitto con pari danno per il Comune di Lecce. Con artifici e raggiri consistiti nel far predisporre sotto dettatura della propria segretaria CA.Ro. e nel presentare per la firma al Pubblico Ufficiate predetto la determinazione dirigenziale n. 26 dei 23.2.2004 di integrazione e rendicontazione di ulteriori spese sostenute durante la missione, già completa di ogni sua parte e recante la indicazione e il conseguente impegno di spese in suo favore di Euro 1.380,48 quali “spese aggiuntive impreviste ed imprevedibili”, in realtà relative a spese in parte non rimborsabili perché sostenute per pagarsi manicure, pedicure e massaggi estetici (per un totale di Euro 134,00) e per offrire una cena a persone estranee alla amministrazione comunale al ristorante (omissis) (per lo importo di Euro 200,00); nel chiedere insistemente alla R. che gli firmasse aggiungendo che si trattava di spese sostenute da due persone per quattro giorni; nell’assicurare che “era tutto a posto” in quanto si trattava di spese da lui stesso rendicontate e controllate. Reati commessi in (omissis) ;
c) Del reato p, e p. dagli artt. 61 n. 2 e 9, 610 c.p., perché, violando i doveri inerenti la sua funzione di Presidente del Consiglio Comunale di Lecce e agendo al fine di assicurarsi il profitto dei reati di cui sopra ai capi a) e b), costringeva L.S. , dirigente del servizio economato e finanziario del Comune di Lecce, a consegnare immediatamente alla Banca Nazionale del Lavoro di Lecce, per lo immediato accreditamento in suo favore, il mandato di pagamento n. 2299 del 24.2.2004, dell’importo di Euro 1.380,48 per “integrazione rendicontazione missione a Milano del Presidente C. e del Consigliere c. ”. Con minaccia consistita nell’agitare le mani e additarlo con impeto, dicendogli che si sarebbe trovato l’indomani mattina alle ore 8,30 in banca “per riscuotere il mandato di pagamento; se no……” e, a fronte delle rimostranze del L. , il quale aveva manifestato la sua intenzione di procedere all’accreditamento secondo i tempi e le modalità ordinarie e aveva qualificato nel suo comportamento come una minaccia, aggiungendo che “quella parola non gli era piaciuta e che avrebbe fatto i conti dopo”. Reato commesso in (omissis) .
All’esito del giudizio, svoltosi con il rito abbreviato, il Tribunale dichiarava lo imputato colpevole del delitto di cui al capo b) e c) (riqualificato in ipotesi di violazione degli artt. 56, 610, 61 nn. 2 e 9 c.p.) pronunciando conseguentemente la condanna riportata nella epigrafe della presente decisione. Contestualmente il Tribunale disponeva la trasmissione degli atti all’Ufficio del Pubblico Ministero in ordine al delitto di cui al capo a) da riqualificarsi in violazione dell’art. 323 c.p. La difesa dello imputato proponeva appello avverso la suddetta decisione deducendo:
a) Nullità della sentenza per violazione dell’art. 521 c.p.p. in relazione all’art. 522 c.p. sostenendo che il Tribunale non doveva rimettere gli atti all’ufficio del Pubblico Ministero, ma doveva pronunciare comunque la propria decisione, poiché nel corso del giudizio non era emerso un fatto storico diverso da quello descritto al capo A) della rubrica della imputazione, ma la sola esigenza di una diversa qualificazione del fatto, il cui adempimento rientrava nei poteri propri dell’organo giudicante.
b) L’inutilizzabilità ex art. 63 c.p.p. delle dichiarazioni rese da R.T. e CA.Ro. (come anche quelle del L. ), sostenendo che le suddette persone, nel momento in cui erano state sentite dalla Polizia Giudiziaria in data 22.3.2004, erano da ritenersi già raggiunte da indizi di reità in ordine alla violazione per la violazione dell’art. 479 c.p. Con la conseguenza che le dette persone non potevano essere sentite come testimoni, ma in veste di indagati.
c) L’inattendibilità delle dichiarazioni testimoniali rese da R.T. e CA.Ro. , siccome incoerenti e contrastanti con atti documentali;
d) L’insussistenza del delitto di truffa per mancanza dell’elemento costitutivo dell’ingiustizia del profitto e non sussistenza gli estremi degli artifici e dei raggiri;
e) L’insussistenza del delitto di cui agli artt. 56, 610 c.p..
f) L’illegittimità dell’ordinanza 3.11.205 con la quale il Tribunale aveva rigettato l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio non essendo state indicate le generalità della persona offesa in relazione al capo c) della rubrica dell’imputazione e non era stata citata la persona offesa per l’udienza preliminare.
g) Il riconoscimento delle attenuanti generiche in misura prevalente alle aggravanti, nonché l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p..
La Corte territoriale, procedendo alla disamina di tutti i motivi, li respingeva, confermando la decisione di primo grado richiamando ed indicando con riferimento ai singoli motivi di impugnazione come retro indicati ed individuati:
a) Il principio affermato da Cass.sez. V 21.10.2008 n. 595;
b) Il principio affermato da Cass.sez. II 14.10.2003 n. 15446;
c) Le ragioni per le quali ha ritenuto attendibili le testimoni;
d) Gli elementi costitutivi del delitto di truffa, procedendo alla esegesi del regolamento Comunale e richiamando i principi di diritto affermati da Cass. Sez. II 22.1.1998 n. 870;
e) In ordine alla posizione processuale del L.S. il principio affermato da Cass. Sez. II 14.10.2003 n. 15446, procedendo quindi alla disamina e al confronto delle prove e delle dichiarazioni testimoniali;
f) Il principio affermato da Cass.sez. VI 10.4.2003 n. 35555, non ravvisando alcun interesse concreto dell’imputato nel sollevare la dedotta nullità;
g) L’insussistenza delle condizioni per riconoscere l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., valutando che il danno arrecato all’Ente Pubblico non era da ritenersi di minima rilevanza, e la mancanza delle condizioni per procedere ad un diverso giudizio di comparazione fra le circostanze tenuto conto del disvalore della condotta.
Avverso la suddetta decisione ricorre in questa sede la difesa dell’imputato deducendo:
p.1.) ex art. 606 I^ comma lett. c) c.p.p. la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. perché sarebbe erronea la decisione della Corte d’Appello ove afferma la legittimità della decisione del Tribunale di restituire gli atti all’ufficio del Pubblico Ministero. La difesa insiste nell’affermare che la soluzione giuridica corretta doveva consistere nella formulazione di una diversa qualificazione giuridica del fatto descritto al capo a), trattandosi nella specie, sempre del medesimo fatto storico e non già di un fatto diverso.
p.2.) ex art. 606 I^ comma lett. c) c.p.p. l’inosservanza dell’art. 63 c.p.p. perché R.M.T. e CA.Ro. , sono state escusse in modo illegittimo come testimoni nel momento in cui erano già emersi a loro carico indizi di reità in ordine alla violazione dell’art. 479 c.p.. Afferma la difesa che in tale caso il Pubblico Ministero avrebbe dovuto procedere all’audizione delle suddette persone in veste di persone sottoposte alle indagini. La difesa afferma altresì che ai fini dell’applicabilità della sanzione dell’inutilizzabilità per violazione dell’art. 63 c.p.p. bisogna fare riferimento non all’elemento formale dell’avvenuta iscrizione del nominativo della persona nel registro degli indagati (come sostenuto dalla Corte d’Appello), ma al criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto da escutersi, in base alla situazione esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese, e ciò a prescindere da una già intervenuta formale imputazione e anche in assenza della iscrizione del nominativo nel registro degli indagati.
p.3.) ex art. 606 I^ comma lett. b), c) ed e) vizio di contraddittorietà e di manifesta illogicità della motivazione; inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p.; inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità. La difesa denuncia l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da R.M.T. e CA.Ro. , L.S. , perché mossi dall’intento di eludere le proprie responsabilità derivanti da un omesso esercizio dell’attività di controllo. La difesa rileva che prova di tale aspetto è desumibile dalle divergenze intercorrenti tra le incoerenti dichiarazioni rese dai testimoni e i documenti acquisiti nel corso delle indagini (in particolare le missive 27.2.2004 e 1.3.2004). La difesa conclude affermando che l’iter argomentativo del Giudice si fonda su affermazioni illogiche prive di riscontro negli atti processuali.
p.4.) ex art. 606 I^ comma lett. b), c) ed e) c.p.p. inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 640 e 43 c.p. e 84 D.lgs 267/2000; violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La difesa rileva che la condotta dell’imputato non integrerebbe la violazione dell’art. 640 c.p., mancando gli estremi degli artifici e dei raggiri. La difesa rileva ancora che la Corte territoriale (attraverso il riferimento alla alterazione di documentazione fiscale comprovante le spese sostenute) ha condannato il C. per una condotta truffaldina diversa da quella descritta nel capo di imputazione; la difesa sul punto specifica che la condotta individuata dalla Corte territoriale (rilascio di più ricevute fiscali per far apparire che i pranzi rimborsabili fossero due; la apposizione del timbro dell’esercizio commerciale sulle ricevute fiscali in modo tale da non far leggere la data e far apparire che i pranzi erano stati consumati in giorni diversi) non sarebbe mai stata oggetto di specifica contestazione, si da permettere una valida difesa sul punto. La difesa sostiene inoltre che il rimborso delle spese di viaggio sostenute dal C. , sarebbe da ricondursi alle omissioni dei funzionari comunali che non hanno proceduto ai controlli loro imposti dalla legge, essendo apodittica l’affermazione della Corte d’Appello che l’imputato ha posto in essere un’attività volta ad occultare la vera natura delle spese sostenute. Da ultimo la difesa rileva che lo articolo 84 d.lgs 267/2000 non può costituire valido aggancio normativo per l’affermazione della sussistenza del delitto di truffa, perché si tratta legge extrapenale il cui precetto è generico non risolutivamente esplicativo della natura delle spese rimborsabili al funzionario pubblico in caso di missione fuori dell’ufficio, oltre a quelle di vitto e alloggio documentati.
p.5.) ex art. 606 I^ comma lett. b) c) ed e) c.p.p., vizio di erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., violazione dell’art. 63 c.p.p. in ordine alla audizione del testimone L. , vizio di motivazione in relazione degli artt. 56, 610, 61 n. 2 c.p.p. Assume la difesa (pp. 21-23 del ricorso) che il L. è stato escusso in qualità di testimone, dovendo lo stesso essere considerato indagato alla luce di plurime violazioni di legge consistite nell’omissione di doverosi controlli, con conseguente violazione dell’art. 479 c.p.p.. La difesa rileva che la diversa veste processuale del L. ha inciso sulla valutazione della credibilità della R. e della CA. .
p.6.) ex art. 606 I comma lett. b) ed e) violazione ed erronea applicazione dell’art. 610 c.p. e manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova. La difesa assume l’inattendibilità del L. che sarebbe l’unica prova a carico del ricorrente in relazione al capo c) dell’imputazione. Per la difesa la generale inattendibilità del L. è la diretta conseguenza del fatto che lo stesso sarebbe responsabile di gravi reati. La difesa evidenzia l’inidoneità delle proposizioni profferite dal C. , ad integrare una minaccia (seria e temibile o tale da fare impressione) quale elemento costitutivo del delitto di violenza privata, mettendo in particolare rilievo l’assenza di un rapporto gerarchico tra l’imputato e la parte offesa, con la conseguenza che le frasi pronunciate dal primo non avrebbero mai potuto avere conseguenze sul secondo. Da ultimo la difesa censura la decisione impugnata del vizio di travisamento della prova, essendo stato assertivamente affermato che il C. , in qualità di Presidente del Consiglio del Comune di Lecce, facendo parte della maggioranza amministrativa, avrebbe comunque potuto danneggiare il L. , attraverso la propria influenza politica. Ad avviso della difesa, l’asserzione della Corte costituisce una forzatura ed è ipotesi sfornita di qualstvoglia riscontro incontrovertibile.
p.7.) ex art. 606 I^ comma lett. b) e c) c.p.p. per erronea applicazione dell’art. 69 e per il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p.p..
Ritenuto in diritto
Esaminando partitamente le varie questioni poste dalla difesa, il Collegio osserva quanto segue.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
L’articolo 521 c.p. II^ comma prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero se accerta che il fatto è diverso da quello descritto nel decreto che dispone il giudizio. Nel caso in esame, il Tribunale, definendo con sentenza in merito ai fatti di cui ai capi b) e c) della rubrica della imputazione, con ordinanza ha contestualmente restituito gli atti all’ufficio del Pubblico Ministero ravvisando una diversità del fatto contestato a), in particolare, in luogo dell’art. 314 c.p., la violazione dell’art. 323 c.p..
Al di là della questione strettamente inerente alla c.d. “diversità del fatto”, va preliminarmente rilevata l’infondatezza della censura per la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità per la quale l’ordinanza dibattimentale (dispositiva della trasmissione degli atti all’ufficio del Pubblico Ministero per ritenuta diversità del fatto) non è comunque impugnabile, neppure sotto il profilo dell’abnormità [v. da ultimo Cass. Sez. III^ 25.3.2010 n. 17197; in precedenza Cass. Sez. I 26.5.2009 n. 24058; Cass. Sez. I 28.2.2006 n.8831]; infatti, nell’ipotesi in esame non si determina alcun pregiudizio per l’imputato il quale ha ampia facoltà per difendersi nel corso delle nuove indagini che possono concludersi anche con archiviazione, o nel corso di un nuovo giudizio.
Il secondo motivo di ricorso va rigettato.
Come già affermato in recenti pronunce, va qui ribadito che nella valutazione delle inutilizzabilità ex art. 63 c.p. delle dichiarazioni rese da un determinato soggetto, l’indagine relativa alla posizione processuale del dichiarante, va effettuata non secondo un criterio formale (iscrizione o meno del nominativo della persona nel registro degli indagati), ma attraverso una valutazione sostanziale della posizione della persona escussa, nell’ambito del procedimento; in altri termini, se la persona, nel momento in cui è stata sentita era nelle condizioni di assumere la veste di indagato. Pertanto, sotto un profilo di stretto diritto, la censura elevata dalla difesa circa l’opzione interpretativa seguita dalla Corte territoriale, che ha richiamato una giurisprudenza di legittimità più risalente, è sicuramente fondata. Peraltro, al di là del richiamo ai generale principio di diritto surriferito, le conseguenze che vuole trarre la difesa dalla doglianza, non possono essere comunque accolte, perché il ricorrente, dopo avere illustrato le ragioni di diritto, non ha sviluppato la analisi della fattispecie concreta e delle sue conseguenze, al fine di spiegare la portata dell’erroneità della decisione della Corte territoriale al di là della scelta della regola giurisprudenziale. La difesa non ha infatti svolto alcuna illustrazione circa: a) la causa concreta della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalle testimoni (in altri termini per quali specifiche ragioni nel momento in cui le suddette persone vennero escusse, la polizia giudiziaria disponeva di indizi concreti a loro carico); b) l’individuazione specifica degli atti da dichiararsi inutilizzabili; c) gli effetti della pronunciata inutilizzabilità sul piano della prova dei fatti ascritti al prevenuto e la susseguente diversa decisione derivabile. Trattasi di elementi che dovevano essere specificati nel ricorso, pena il vizio di specificità della doglianza. Va infatti, in primo luogo rilevato come la sanzione della inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni assunte senza garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto essere assunto fin dall’inizio in qualità di imputato o di persona soggetta ad indagini, postula che a carico dell’interessato, siano già acquisiti, prima dell’escussione indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dalla autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante [v. Cass. SU 23.4.2009 n. 23868]. Sotto questo punto di vista il ricorso è carente di qualsivoglia indicazione e il tema è rimasto inesplorato. Va aggiunto che è onere della parte che eccepisce la inutilizzabilità di un atto processuale, indicare gli atti specificatamente affetti da vizio e chiarirne altresì l’incidenza sul complessivo compendio indiziario, si da potersi inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato [v. Cass. SU 23.4.2009 n. 23868]. Anche questo tema è rimasto del tutto inesplorato nell’atto difensivo. Né può ritenersi, esaustivo il richiamo (contenuto nel ricorso) “alle circostanze articolate e motivate nei motivi di appello che costituiva indizi di reità precisi a carico dei testi le cui dichiarazioni dovevano essere ritenute inutilizzabili” [pag. 8 del ricorso]. Per il principio di autosufficienza dell’atto di impugnazione, era necessario che il ricorrente indicasse in modo espresso le circostanze cui ha fatto riferimento, anche in modo succinto al fine di permettere di valutarle alla luce degli ulteriori elementi processuali retro indicati.
Per le suddette ragioni il motivo è inammissibile.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché generico, inducente a vantazioni di merito e ad una diversa ricostruzione del fatto.
Sul punto va rammentato che ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera c), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne ne1 la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Va ancora precisato che l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera c), può essere solo quella “evidente”, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali. Deve inoltre aggiungersi che il vizio della “manifesta illogicità” della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. I termini della questione non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera c), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n, 46, laddove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti finalizzata ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Parimenti non è consentito che, attraverso il richiamo agli “atti del processo” (in questo caso peraltro in termini del tutto generici), possa esservi spazio per una rivalutazione delle prove acquisite, poiché si tratta di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva, il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli “atti del processo” rappresenta null’altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto “travisamento della prova”, che è quel vizio in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della decisione. In questa prospettiva, per chiarire, potendosi apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Mentre, giova ribadirlo, non spetta comunque alla Corte di Cassazione “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi, [v. Cass. Sez. IV 14130/2007 cit.]. Sotto questo profilo si deve concludere che le doglianze formulate dalla difesa sono eccentriche rispetto ai limiti posti dall’art. 606 I^ comma lett. c) c.p.p., siccome inducenti a valutazioni di merito e a possibili ricostruzioni alternative in fatto.
Va ancora osservato che, se da un lato le doglianze della difesa non possono essere prese in considerazione perché non riconducibili nell’alveo della lettera c) dell’art. 606 c.p.p., esse non sono apprezzabili neppure sotto il profilo delle lettere b) e c) della medesima disposizione. Il richiamo alla disciplina dell’art. 191 c.p.p. è priva di valida giustificazione all’interno dell’esposizione del motivo, e la censura di violazione dell’art. 192 c.p.p. non è riconducibile ad ipotesi di violazione riconoscibile nell’ambito della lettera b) dell’art. 606 c.p.p., perché quest’ultima fattispecie si attaglia alla sola ipotesi di erronea applicazione o di violazione di norme penali sostanziali e non già di quelle processuali, la cui disciplina deve essere rinvenuta nella lettera c) dell’art. 606 c.p.p., sottolineandosi infine che la inosservanza dell’art. 192 c.p.p. non può che ricondursi alla casistica dei vizi della motivazione, posto che la sua violazione non è sanzionata da nullità, inammissibilità, decadenza o inammissibilità.
Il motivo pertanto è inammissibile.
Il quarto motivo di ricorso è infondato. In primo luogo va osservato che la doglianza relativa ad una diversità fra il fatto contestato nel capo di imputazione e quanto affermato in sentenza (v. pp. 26-33) è priva di argomentazioni giuridicamente idonee. Dalla lettura della decisione impugnata si evincono chiaramente due aspetti. In primo luogo le circostanze di fatto inerenti alle alterazioni delle ricevute fiscali e al loro contenuto sono state oggetto di plurime deposizioni; si tratta di circostanze che, in fatto, sono state portate a conoscenza dell’imputato nel corso del giudizio e sulle quali la difesa è stata posta nelle condizioni di poter interloquire fin dal momento della audizione dei suddetti testimoni. In secondo luogo l’accertata artificiosità della documentazione giustificativa delle spese di viaggio sostenute dall’imputato costituisce elemento di prova del fatto contestato nel capo di imputazione che, a sua volta, non deve necessariamente essere riproduttivo di tutte le più minute circostanze fattuali, ma deve essere tale da permettere all’imputato di partecipare al giudizio essendo noti gli aspetti fondamentali della accusa mossa (nel caso di specie indebito rimborso di spese di viaggio sostenute nel corso di una missione per conto dell’ente pubblico di appartenenza).
In relazione agli elementi costitutivi del delitto di truffa riscontrati dalla Corte territoriale, si rileva inoltre l’ineccepibilltà della motivazione che descrive compiutamente la natura delle spese sostenute dall’imputato nel corso della trasferta (spese per costumi da bagno, massaggi e per pranzi con ospiti), come tali non rimborsabili, nonché le modalità concrete adottate dall’imputato per ottenere il rimborso di dette spese attraverso la manipolazione delle ricevute rilasciate dall’ente alberghiero (quelle relative ai pranzi – v. p. 27 – 28 della sentenza e in particolare la riferita deposizione dell’amministratore del ristorante) o attraverso l’indecifrabilità del contenuto della prestazione riportata in fattura (v. spese per pedicure, manicure e massaggi v. pag. 26-27 della sentenza), tanto da essere necessaria l’audizione del security manager dell’Hotel per accertare la reale natura dei servizi acquistati. La Corte territoriale, inoltre ha affrontato l’aspetto della valutazione del comportamento dell’imputato nella fase della predisposizione della documentazione in vista del rimborso richiesto, nonché nel silenzio dallo stesso serbato presso la propria amministrazione in fase di rimborso delle spese medesime. Tale atteggiamento, nel giudizio della Corte territoriale sarebbe dimostrativo della consapevolezza della illegittimità della richiesta fatta, e dall’altro integrativo della condotta artificiosa posta in essere. Gli assunti sono corretti sul piano della logica e aderenti alla interpretazione sostanziale della disposizione penale; corretta è altresì la valutazione della Corte d’Appello nel considerare, sulla scorta della stessa giurisprudenza di legittimità, la irrilevanza della omissione (parziale o totale) dei controlli doverosi dei funzionari amministrativi, rispetto alla azione posta in essere dall’imputato [v. Cass. Sez. II 7.10.1992 Giulietti; Cass. Sez. I 11.11.2008 n. 44053]. Infatti l’attività di controllo preventiva o successiva da parte di soggetti terzi in ordine alla valutazione della legittimità del rimborso, costituisce un aspetto in fatto estraneo ad una condotta penale già perfezionata nei suoi aspetti costitutivi. Va da ultimo osservato che il richiamo della difesa alla disciplina dettata dall’art. 84 d.lgs 267/2000 appare ininfluente e la genericità della previsione normativa non è comunque incidente nel caso in esame. La norma in questione, che prevede il diritto al rimborso delle spese effettivamente sostenute da amministratori pubblici per trasferte imposte dalla funzione o dall’ufficio non può essere ragionevolmente interpretata, come vuole fare la difesa, nel senso che consentirebbe, sul piano astratto, il rimborso di qualsivoglia spesa. Dal sistema normativo, attinente alle spese che possono essere poste a carico di un ente pubblico, nel cui ambito la citata disposizione va inserita, appare evidente che sono erogabili o rimborsabili da parte dell’Ente le sole spese che abbiano comunque un nesso con le finalità dell’Ente e con gli scopi dello stesso e della missione demandata al funzionario in trasferta. Di qui deriva che non è manifestamente illogica la decisione della Corte territoriale nel ritenere che i richiesti rimborsi per il soddisfacimento di esigenze strettamente personali dell’imputato (pedicure, manicure, massaggi, costumi da bagno, pranzo offerto ad ospiti per fini non istituzionali) avessero natura concretamente illegittima perché indebita. Pertanto nessuna censura può essere accolta siccome ampiamente adeguata appare la motivazione.
Con il quinto motivo di ricorso la difesa propone anche per il L. le medesime questioni già poste per le testimoni R. e CA. . Mutatis mutandis anche per questo motivo valgono le medesime considerazioni già svolte dal Collegio nella valutazione del secondo motivo di ricorso, pertanto, per le relative valutazioni in punto di diritto, si rinvia al suddetto punto, dovendosi ritenere anche questo motivo infondato.
Il sesto motivo di ricorso è inammissibile, perché generico costituendo, infatti una mera riproposizione delle stesse doglianze contenute nell’atto di appello in ordine alle quali la Corte territoriale ha dato una risposta con adeguata motivazione che non è stata oggetto di specifica confutazione da parte della difesa. Quest’ultima, infatti, senza mettere in evidenza aspetti di contraddittorietà, o manifesta illogicità della motivazione (desumibili dal testo della medesima), si limita a proporre una diversa valutazione dei fatto, improponibile nella presente sede per le ragioni già indicate nella trattazione del terzo motivo di ricorso. Neppure può essere tacciato di “travisamento” la considerazione fatta dalla Corte territoriale circa la caratura politico-amministrativa del C. . Trattasi di valutazione di fatto, non manifestamente irragionevole, non sindacabile nel merito, con la quale la Corte territoriale mostra di avere preso in considerazione il peso delle minacce profferite dall’imputato, tenuto conto dei diversi ruoli ricoperti da quest’ultimo e dalla parte offesa, nell’ambito della stessa amministrazione comunale. Trattasi di considerazione che, proprio per non essere manifestamente illogica o in contraddizione, non è sindacabile sotto il profilo del merito.
Il motivo deve quindi essere dichiarato inammissibile.
Il settimo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Con motivazione adeguata (vv. pp. 39 e 40 dell’impugnata sentenza) la Corte territoriale ha spiegato di non poter procedere ad una diversa valutazione delle attenuanti generiche, valutando la particolare gravità del fatto ascritto allo imputato. Il Collegio di merito ha ancorato la propria considerazione non solo valutando la azione criminosa nei suoi aspetti squisitamente materiali, ma anche in funzione della particolare posizione dell’imputato nell’ambito della Pubblica Amministrazione e al ruolo istituzionale ricoperto. Anche in questo caso si è in presenza di una valutazione di merito, non illogica e non irragionevole e come tale non sindacabile nel merito, in quanto rispondente ai parametri previsti dall’art. 133 c.p.: I^ comma n. 1 e II^ comma nn. 3 e 4.
La censura mossa in relazione al negato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. è manifestamente infondata. Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che l’estremo della “speciale tenuità” prevista dall’art. 62 n. 4 c.p. si deve identificare una “rilevanza minima”, non coincidente, come sostenuto dalla difesa con il “danno lieve”. Anche in questo l’applicazione del principio di diritto è corretta e la non manifesta illogicità della valutazione operata dalla Corte d’Appello non consente di formulare un sindacato che sarebbe incidente esclusivamente sul piano del merito della decisione.
Per tutte le suddette ragioni il ricorso deve quindi essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.