Reati societari. Impedito controllo ex art. 2625 cc: reato di evento o di danno? Cassazione, sez. V Penale, 27 marzo 2012, n. 11639

 

REATI SOCIETARI. IMPEDITO CONTROLLO EX ART. 2625 CC: REATO DI EVENTO O DI DANNO?

Cassazione, sez. V Penale, 27 marzo 2012, n. 11639

Luca D’Apollo

 

In tema di reati societari l’Art. 2625 cod. civ. intitolato “Impedito controllo” stabilisce che “Gli amministratori che, occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci o ad altri organi sociali sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro. Se la condotta ha cagionato un danno ai soci, si applica la reclusione fino ad un anno e si procede a querela della persona offesa. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58”.

Nel caso in analisi la Corte è chiamata a stabilire la natura del reato ex art. 2625 cc al fine di delinearne il momento consumativo, con conseguente analisi della tardività della querela e pertanto della sussistenza (persistenza e perseguibilità) del reato.

L’interpretazione proposta dalla Corte di merito si basava sul rilievo che il reato in esame sia un reato di pericolo e di natura istantanea, per cui si era consumato con il fatto dell’occultamento dei documenti richiesti dalla persona offesa o con l’attività fraudolenta tesa ad ostacolare quella di controllo. Quindi, da ultimo, all’indomani della ricezione della più recente richiesta di visione degli atti da parte del socio accomandante, condotta fatta risalire all’agosto 2006. La querela, presentata in aprile dell’anno successivo, sarebbe tardiva.

La parte civile ed il Procuratore Generale sostengono la contraria tesi secondo cui la consumazione del reato in esame si perfeziona con il verificarsi dell’evento di danno previsto dalla norma, necessariamente successivo alla condotta dell’impedimento del controllo perché a questa legata da un rapporto di causalità.

La Cassazione accede a tale secondo ricostruzione interpretativa secondo cui il danno descritto dalla fattispecie normativa rappresenta il momento consumativo del reato: ne consegue che solo la prova di esso e del suo legame causale con la condotta di impedimento di controllo avrebbe integrato anche uno dei parametri per il computo del termine per presentare querela.

Secondo il Collegio il delitto di cui al secondo comma dell’art. 2625 cc è da considerare un reato che tutela il patrimonio dei soci a differenza dell’illecito amministrativo di cui al primo comma in cui non è prevista la causazione del danno e oggetto di tutela e le attività di controllo in sé.

Valgono in materia i generali principi in tema di presentazione della querela ed in particolare quello secondo cui il termine per la presentazione di essa decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva. E in tale dimensione non v’è motivo per il quale non debba essere ricompreso l’evento di danno cagionato dalla condotta di impedimento.

Sulla stessa linea la Corte, sia pure nella diversa ma affine – per struttura-fattispecie delle false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori, ha evidenziato che il reato di cui all’art. 2622 cod. civ., nel caso in cui il falso riguardi società non quotata, è perseguibile a querela della persona offesa, la quale, trattandosi di reato contro il patrimonio, è individuabile in colui che ha tratto detrimento patrimoniale dall’illecito, e, quindi, nel danneggiato. Pertanto, il termine di cui all’art. 124 cod. pen., per la proposizione della querela decorre dalla conoscenza dell’evento dannoso, quale conseguenza della comunicazione sociale infedele, il cui accertamento, oltretutto, costituendo profilo di fatto, sfugge al giudizio di legittimità (Sez. 5, Sentenza n. 27296 del 10/06/2010 Cc. (dep. 14/07/2010) Rv. 247891).

 

 

Cassazione, sez. V Penale, 27 marzo 2012, n. 11639

(Pres. Scalera  – Rel. Vessichelli)

 

Fatto e diritto

Hanno proposto ricorso per cassazione, contro la sentenza della Corte di appello di Catania del 17 novembre 2010 emessa nei confronti di R.E. , sia il Procuratore Generale di Catania, che la parte civile D.B.G. che, infine lo stesso imputato R. .

La Corte di appello aveva riformato la sentenza di primo grado, che era stata di condanna in ordine al reato di cui agli artt. 81 cp e 2625 cc, ed aveva, per l’effetto, dichiarato non doversi procedere per tardività della querela. La condotta contestata al R. era stata quella di avere, quale socio accomandatario della sas C. I., ostacolato l’attività di controllo del socio accomandante D.B.G. , non mettendogli a disposizione la documentazione contabile e sociale e ponendo in essere altresì degli artifici (quali la mancata convocazione della assemblea per la approvazione del bilancio del 2005, la mancata comunicazione degli atti di gestione straordinaria, la trasmissione del bilancio del 2005 senza verbale di approvazione e relazione dell’amministratore), condotte dalle quali era derivato un danno patrimoniale al socio. La Corte aveva analizzato gli elementi costitutivi del reato contestato ritenendoli sussistenti ma aveva anche evidenziato che la querela, presentata il 16 aprile 2007, era tardiva in quanto l’ultima richiesta di ostensione di atti da parte del D.B. risaliva al mese di agosto 2006.

Deducono il PG e la Parte civile la erronea applicazione dell’art. 2625 cc in punto di individuazione del momento consumativo del reato.

Deve ritenersi erronea la analisi del giudice dell’appello secondo cui il reato in parola è di mero pericolo ed il danno si atteggia a condizione obiettiva di punibilità.

Il danno è invece elemento costitutivo della fattispecie di rilevanza penale e rappresenta l’elemento di differenziazione rispetto all’illecito amministrativo previsto dal primo comma dell’art. 2625 cc, privo della menzione di un simile evento. Tanto si desumerebbe anche dal raffronto con la ipotesi dell’art. 2622 cc, analoga per struttura a quella in discussione (per essa v. Cass. N. 27296 del 2010). La progressione dalla fattispecie di rilievo amministrativo a quella di rilievo penale, con la tecnica della aggiunta, alla seconda, di un elemento specializzante, del reato, era stata seguita del resto anche nelle ipotesi di cui ai (non più vigenti) artt. 2623 e 2624 cc.

Ed il danno è, nel caso in esame, l’elemento costitutivo del reato che a tutt’oggi risulta persistente non essendo stata riscontrata l’ultima missiva, del gennaio 2007, con la quale si sollecitava la liquidazione del valore della quota sociale.

Nel negare tutti gli argomenti fin qui illustrati, la Corte di merito sarebbe incorsa anche in un vizio di motivazione, laddove ha risolto la questione facendo ricorso alla struttura della norma dell’art. 328 cp che ha ritenuto, erroneamente, similare. L’omissione di atti di ufficio, invece, non è paragonabile a quella qui in contestazione posto che è operativa anche in assenza della prova di un nocumento.

Da quanto fin qui esposto deriverebbe che il termine per la proposizione della querela non può ritenersi inutilmente decorso posto che il computo relativo può avere inizio solo al momento della consapevolezza dell’evento dannoso da parte della persona offesa: e nella specie detta consapevolezza si sarebbe determinata solo per effetto del mancato riscontro alla lettera raccomandata del 18 gennaio 2007.

Deduce la difesa di R. la violazione di legge.

La Corte di appello era tenuta a dimostrare la esistenza della prova che dalla condotta materiale di impedimento di controllo addebitata all’imputato fosse derivato un danno alla persona offesa.

Sul punto la motivazione è del tutto assente e, se l’analisi sollecitata con i motivi di appello fosse stata condotta, i giudici sarebbero pervenuti alla assoluzione per insussistenza del fatto.

Aggiunge la difesa, nella illustrazione del motivo sub 4), che il danno che il D.B. potrebbe vantare, pari al valore degli utili relativi all’esercizio 2005 e a quelli maturati l’anno successivo, (per alcune migliaia di Euro) aveva trovato ristoro nella messa a disposizione della cifra, rifiutata dall’interessato. Si sarebbe poi dovuto considerare che la pretesa di liquidazione del D.B. ammontava a 700 mila Euro, a fronte di apporti patrimoniali da parte sua pari a 17 mila Euro e, d’altra parte, tale somma nulla poteva avere a che vedere con il danno derivante della condotta contestata che si era protratta per pochi giorni, tra agosto ed ottobre 2006.

In merito alla questione della tempestività della querela, la difesa osserva che la prima richiesta di notizie sull’andamento degli affari della società era quella inviata il 24 luglio 2006 e ricevuta dal R. il 2 agosto 2006 (quella precedente, dell’aprile 2006, era stata solo di valutazione della quota di partecipazione). In verità il R. vi aveva dato seguito, il giorno 3 agosto, con l’invio di un prospetto riepilogativo, ma il D.B. si era ritenuto insoddisfatto assegnandogli (con lettera del 5 ottobre 2006) un termine per la evasione della richiesta e comunque esercitando il diritto di recesso dalla società, con rinnovo della richiesta di valutazione della quota. Il 30 novembre vi era stata la risposta del R. e il 16 aprile la formalizzazione della querela da parte del D.B. . Poteva dunque ritenersi che già alla data del 5 ottobre 2006 il D.B. , nel formalizzare il recesso dalla società per condotte del R. ritenute illegittime, fosse perfettamente a conoscenza di tutti gli elementi che, in seguito, erano stati posti a fondamento dell’atto di querela. A prescindere anche da tale considerazione, poi v’era da rilevare che dalla data della comunicazione del recesso, il D.B. aveva perso la qualità di socio che lo legittimava alla presentazione della querela.

Infine la difesa rileva anche il vizio di motivazione sull’elemento psicologico del reato.

Vi erano stati numerosi testimoni (M. , P. , Ri. ) che avevano dichiarato di avere ricevuto da R. , semmai, la disposizione di consegnare a D.B. la documentazione alla quale aveva diritto, documentazione peraltro mai ritirata.

I ricorsi del PG e della Parte civile sono fondati.

Con gli stessi, in sintesi, si censura la tesi, accolta dalla Corte di merito, dell’essere inutilmente decorso il termine trimestrale previsto per la presentazione della querela da parte della persona offesa D.B. .

Tale tesi è stata basata sul rilievo che il reato in esame, di pericolo e di natura istantanea, si fosse consumato con il fatto dell’occultamento dei documenti richiesti dalla persona offesa o con la attività fraudolenta tesa ad ostacolare quella di controllo. Quindi, da ultimo, all’indomani della ricezione della più recente richiesta di visione degli atti da parte di D.B. , condotta fatta risalire ad agosto 2006. La querela, presentata in aprile dell’anno successivo, sarebbe tardiva. Ora, la contraria tesi dei ricorrenti secondo cui la consumazione del reato in esame si perfeziona con il verificarsi dell’evento di danno previsto dalla norma, necessariamente successivo alla condotta dell’impedimento del controllo perché a questa legata da un rapporto di causalità, già sembra sufficiente a porre in evidenza i limiti del ragionamento e quindi la violazione di legge in cui è incorsa la Corte di merito.

Infatti, accedendo alla tesi dei ricorrenti – che sembra condivisibile ed è condivisa anche da una parte della dottrina – secondo cui il danno descritto dalla fattispecie normativa rappresenta il momento consumativo del reato, appare evidente che solo la prova di esso e del suo legame causale con la condotta di impedimento di controllo avrebbe integrato anche uno dei parametri per il computo del termine per presentare querela.

In violazione di legge appare quindi la decisione della Corte di merito che ha viceversa ancorato il decorso del termine in questione al verificarsi dell’impedimento del controllo.

E per di più va notato che se la rilevata assenza di argomenti sul punto specifico sopra evidenziato dovesse risultare cagionata da una mancanza di accertamento, scatterebbe la operatività del principio, pur evocato nei ricorsi, secondo cui la tardività della querela deve essere dimostrata da chi la eccepisce e, in mancanza, il dubbio non può che risolversi a favore del querelante (vedi tra le molte rv 226327). D’altra parte valgono in materia anche i generali principi in tema di presentazione della querela ed in particolare quello secondo cui il termine per la presentazione di essa decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva. E in tale dimensione non v’è motivo per il quale non debba essere ricompreso l’evento di danno cagionato dalla condotta di impedimento. Sulla stessa linea questa Corte, sia pure nella diversa ma affine – per struttura-fattispecie delle false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori, ha evidenziato che il reato di cui all’art. 2622 cod. civ., nel caso in cui il falso riguardi società non quotata, è perseguibile a querela della persona offesa, la quale, trattandosi di reato contro il patrimonio, è individuabile in colui che ha tratto detrimento patrimoniale dall’illecito, e, quindi, nel danneggiato. Pertanto, il termine di cui all’art. 124 cod. pen., per la proposizione della querela decorre dalla conoscenza dell’evento dannoso, quale conseguenza della comunicazione sociale infedele, il cui accertamento, oltretutto, costituendo profilo di fatto, sfugge al giudizio di legittimità (Sez. 5, Sentenza n. 27296 del 10/06/2010 Cc. (dep. 14/07/2010) Rv. 247891).

E non è dubbio che il delitto di cui al secondo comma dell’art. 2625 cc sia da considerare un reato che tutela il patrimonio dei soci a differenza dell’illecito amministrativo di cui al primo comma in cui non è prevista la causazione del danno e oggetto di tutela e le attività di controllo in sé.

Le contrarie deduzioni della difesa del R. , al riguardo, non valgono ad inficiare la tesi del PG e della parte civile.

Invero può convenirsi soltanto con l’affermazione secondo cui l’art. 2625 cc tutela il controllo posto in essere dai soci e non quello proveniente dagli ex soci anche se è innegabile che pure costoro potrebbero avere interesse a conoscere fatti verificatisi anteriormente al loro recesso dalla società: tuttavia la difesa di R. , sul punto si è limitata ad evidenziare circostanze di fatto che non solo non possono essere rappresentate alla Cassazione per la loro immediata valutazione, ma per di più appaiono irrilevanti.

Se rispondesse al vero, cioè, che il D.B. ha formalizzato il proprio recesso dalla società con lettera raccomandata di ottobre 2006 (e quindi con efficacia dopo tre mesi secondo il disposto dell’art. 2285 cc, valido anche per le società in accomandita semplice per effetto degli artt. 2315 e 2293 cc), sarebbe giusto non considerare condotte impeditive di controllo da parte del socio accomandatario, rilevanti ex art. 2625cc, quelle poste in essere dopo la data di gennaio 2007 (perché non rivolte contro l’interesse di un soggetto che rivesta la qualifica di socio). Tuttavia resterebbe il fatto che le condotte di impedito controllo da tenere in considerazione, pur risalenti materialmente al 2006, sono quelle comprensive del danno da esse stesse successivamente cagionato. E di tale danno (o meglio, della sua mancanza), come detto assente nell’accertamento dei giudici dell’appello, si sarebbe dovuta offrire congrua allegazione da parte del querelato per sostenere la tardività della querela : questi invece sembra essersi limitato ad affermare genericamente, e quindi insufficientemente, che il recesso era stato cagionato dalla già completa consapevolezza di un presunto danno subito dalla parte.

Consegue dai rilievi formulati che la sentenza impugnata, in accoglimento dei motivi di ricorso del Procuratore Generale e della parte civile, deve essere annullata perché i giudici analizzino nuovamente il tema della tempestività della querela attenendosi al principio di diritto enunciato.

Nella eventualità che la decisione sul punto fosse nel senso della presenza di una valida condizione di procedibilità, diventerebbero connotati da interesse gli ulteriori motivi di ricorso dell’imputato, altrimenti privi di tale caratteristica. È evidente infatti che l’imputato non ha interesse ad impugnare una sentenza di improcedibilità per mancanza di querela, trattandosi di causa originaria ostativa all’esercizio di qualsiasi diverso potere giurisdizionale (vedi rv 158076). E, alla detta condizione, appare fondato il principale motivo di ricorso del R. che, dopo avere contestato nei motivi di appello (vedi elenco a pag. 1 della sentenza qui impugnata) la integrazione del danno previsto dalla norma in contestazione, ha poi fondatamente eccepito la mancanza di qualsiasi motivazione sul punto da parte della Corte di merito.

La domanda di liquidazione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile dovrà essere valutata, in base all’esito finale, sulla base del criterio della soccombenza: si osserva infatti, nella giurisprudenza di legittimità che l’esercizio dell’azione civile nel processo penale realizza un rapporto processuale avente per oggetto una domanda privatistica (alla restituzione o al risarcimento del danno), con la conseguenza che il regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza, di cui all’art. 91 cod. proc. civ., in base al quale l’onere delle spese va valutato, nell’ipotesi di alterne vicende nei diversi gradi del giudizio, con riferimento all’esito finale, a nulla rilevando che una parte,risultata infine soccombente, sia stata vittoriosa in qualche fase o grado (Rv. 216462).

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per nuovo esame. Spese della parte civile al definitivo.

 

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