Precisazione delle conclusioni e rigetto istanze istruttorie Cassazione, sez. VI-2 Civile, 27 giugno 2012, n. 10748

 

PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI E RIGETTO ISTANZE ISTRUTTORIE

Cassazione, sez. VI-2 Civile, 27 giugno 2012, n. 10748

 

Avverso le ordinanze emesse dal giudice, di ammissione o di rigetto delle prove, rispetto alle quali non è più previsto il reclamo, le richieste di modifica o di revoca devono essere reiterate in sede di precisazione delle conclusioni definitive al momento della rimessione in decisione ed, in mancanza, le stesse non possono essere riproposte in sede di impugnazione.

Lo stesso principio, al quale occorre dare continuità, deve necessariamente valere laddove il giudice istruttore, decidendo sulle istanze istruttorie proposte dalle parti, non ne prenda in considerazione alcune: anche in questo caso, la mancata reiterazione, con la precisazione delle conclusioni dell’istanza non considerata assume la valenza di rinuncia.

È rispondente al valore costituzionale del contraddicono tra le parti e dello svolgimento dello stesso nel pieno dispiegarne rito del diritto di difesa, coordinato con la lealtà necessaria per l’esplicazione della difesa della controparte (art. 111 Cost.). L’importanza della precisazione delle conclusioni sta nel fatto che, in ossequio al principio del contraddittorio, ciascuna parte ha l’esigenza di conoscere la formulazione definitiva e non più mutabile delle posizioni assunte dalle altre parti. Allora, ciò che e omesso nella precisazione della conclusioni è corretto che si intenda rinunciato, rispetto alla controparte che non avrà l’esigenza di controdedurre su quanto non espressamente richiamato, e rispetto al giudice, al quale l’art. 356 cod. proc. civ. assegna il compito di decidere se assumere una prova illegittimamente negata dal giudice di primo grado, determinandone le modalità con ordinanza e fissando un’udienza collegiale istruttoria.

 

 

Cassazione, sez. VI-2 Civile, 27 giugno 2012, n. 10748

(Pres. Goldoni – Rel. Proto)

 

Osserva in fatto

Con citazione dell’11/5/1998 B.R. , quale erede (in rappresentazione del padre D. ) di B.D. , in quote eguali con la propria zia B.C. in R. , chiedeva la divisione in parti eguali del compendio ereditario costituito da due unità immobiliari.

La convenuta si costituiva e chiedeva l’assegnazione in proprio favore del compendio ereditario con un conguaglio in denaro calcolato tenendo conto che l’attore, quale erede in rappresentazione del padre D. , era tenuto al pagamento di un debito di 55.000 marchi nei confronti del de cuius B.D. ed era debitore direttamente nei confronti di essa convenuta, di lire 14.000.000 per spese di conservazione del bene e per spese funeratizie.

A sua volta B.C. in R. iniziava altra causa nei confronti di B.R. chiedendo che fosse imputato alla quota ereditaria del R. il debito di 55.000 marchi che il padre premorto del R. aveva contratto nei confronti del de cuius e risultante da due certificati di debito che produceva e in ordine ai quali il convenuto dichiarava di non conoscere la sottoscrizione.

Le due cause erano riunite e il Tribunale di Lucca con sentenza 11/2/2005 assegnava in esclusiva proprietà a B.C. in R. le due unità immobiliari con obbligo di pagare un conguaglio di Euro 53.930,00.

B.C. in R. proponeva appello chiedendo la verificazione mediante CTU delle sottoscrizioni di B.D. su documenti prodotti in primo grado, chiedendo interrogatorio formale su alcuni capitoli (riportati nell’epigrafe della sentenza impugnata) e sostenendo che il materiale probatorio già acquisito in primo grado era idoneo a provare il debito del padre dell’attore; infine, lamentava l’eccessivo valore attribuito al compendio immobiliare.

Resisteva all’appello B.R. che con appello incidentale chiedeva la condanna di B.C. in R. alle spese che erano state, invece, compensate in primo grado e ai danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c..

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 24/6/2010 respingeva sia l’appello principale che l’appello incidentale regolando le spese del grado.

Il rigetto dell’appello principale era fondato sulle seguenti motivazioni così sinteticamente riassunte:

– la richiesta, formulata in primo grado, di nomina di CTU per accertare che la dichiarazione (di debito) era stata scritta da B.D. , costituiva una istanza di verificazione di scrittura privata;

– tale istanza istruttoria era stata disattesa dal giudice di prime cure nella fase istruttoria (implicitamente, in quanto nella fase istruttoria non vi fu pronuncia sull’istanza);

– in sede di precisazione delle conclusioni B.C. non aveva reiterato le istanze istruttorie (tra le quali quella di verificazione) disattese;

– le istanze disattese, in quanto non riproposte al momento della precisazione delle conclusioni,dovevano intendersi abbandonate e non potevano essere riproposte nel giudizio di appello;

– pertanto le scritture prodotte da B.C. per provare il credito del de cuius nei confronti di B.D. dovevano reputarsi inutilizzabili e il credito non provato;

– la consulenza estimativa dei beni immobili caduti in successione era stata effettuata con la tecnica di comparazione e sulla base di dettagliata misurazione e descrizione degli immobili; parte appellante non aveva avanzato specifiche doglianze sulla metodologia estimativa seguita e non aveva portato a raffronto situazioni attuali diverse da quelle considerate dal CTU; la censura doveva quindi essere respinta. B.C. in R. propone ricorso per Cassazione, affidato a due motivi: il primo fondato sulla pretesa violazione degli artt. 346, 216 e 345 c.p.c. e il secondo non identificato in alcuno dei motivo considerati dall’art. 360 c.p.c., ma incentrato su una rinnovata critica del valore attribuito dalla consulenza al compendio ereditario in quanto determinato in un ammontare 13 volte più alto di quello dichiarato due anni prima all’ufficio del registro di Lucca.

Resiste con controricorso B.R. .

Osserva in diritto

1. Con il primo motivo la ricorrente, lamentando violazione degli artt. 346, 216 e 345 c.p.c. censura la decisione della Corte di Appello che, a suo dire, avrebbe erroneamente ritenuto abbandonata la domanda di verificazione della scrittura privata proposta in primo grado, in assenza di elementi dai quali desumere la volontà di abbandonare la richiesta e non avrebbe ammesso la prova diretta alla verificazione proposta con l’appello.

2. Il motivo è manifestamente infondato e in contrasto con il più recente orientamento giurisprudenziale in materia di qualificazione dell’istanza di verificazione della scrittura privata e di preclusioni derivanti dalla mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, delle istante istruttorie non accolte nella fase istruttoria. Occorre preliminarmente ricordare che, per consolidata giurisprudenza, il procedimento di verificazione, proposto in via incidentale, a differenza di quello proposto in via principale, ha funzione strumentale, contenuto e finalità istruttorie e pertanto si inquadra nell’ambito dell’attività probatoria delle parti (Cass. 2411/2005; 1549/2004).

Nella fattispecie, a conferma della dell’applicabilità delle regole processuali riguardanti l’attività istruttoria, è stata chiesta, in appello, proprio una attività istruttoria non espletata in primo grado, diretta alla verificazione della scrittura privata.

Ne discende che la problematica sollevata con il motivo di ricorso in esame non può essere risolta con la diretta applicazione dell’art. 346 c.p.c. che riguarda le domande e le eccezioni e non si estende anche alle istanze istruttorie, anche se la giurisprudenza di questa Corte ha applicato anche alle istanze istruttorie il principio per il quale se le conclusioni vengano precisate in forma analitica, deve intendersi abbandonata ogni precedente domanda od eccezione precedentemente formulata, e non riproposta nelle conclusioni (Cass. 2142/2000; Cass. 10569/2004).

La giurisprudenza più recente, formatasi nella vigenza delle norme del processo civile riformato nel 1990, ha costantemente affermato il principio per il quale avverso le ordinanze emesse dal giudice, di ammissione o di rigetto delle prove, rispetto alle quali non è più previsto il reclamo, le richieste di modifica o di revoca devono essere reiterate in sede di precisazione delle conclusioni definitive al momento della rimessione in decisione ed, in mancanza, le stesse non possono essere riproposte in sede di impugnazione (Cass. 25157/2008; Cass. 23574/2007).

Lo stesso principio, al quale occorre dare continuità, deve necessariamente valere laddove il giudice istruttore, decidendo sulle istanze istruttorie proposte dalle parti, non ne prenda in considerazione alcune: anche in questo caso, la mancata reiterazione, con la precisazione delle conclusioni dell’istanza non considerata assume la valenza di rinuncia.

Come condivisibilmente rilevato in una recentissima pronuncia, questa interpretazione “è pure rispondente al valore costituzionale del contraddicono tra le parti e dello svolgimento dello stesso nel pieno dispiegarne rito del diritto di difesa, coordinato con la lealtà necessaria per l’esplicazione della difesa della controparte (art. 111 Cost.). L’importanza della precisazione delle conclusioni sta nel fatto che, in ossequio al principio del contraddittorio, ciascuna parte ha l’esigenza di conoscere la formulazione definitiva e non più mutabile delle posizioni assunte dalle altre parti. Allora, ciò che e omesso nella precisazione della conclusioni è corretto che si intenda rinunciato, rispetto alla controparte che non avrà l’esigenza di controdedurre su quanto non espressamente richiamato, e rispetto al giudice, al quale l’art. 356 cod. proc. civ. assegna il compito di decidere se assumere una prova illegittimamente negata dal giudice di primo grado, determinandone le modalità con ordinanza e fissando un’udienza collegiale istruttoria” (Cass. 27/4/2011 n. 9410).

A tali principi si è uniformato il giudice di appello e pertanto il motivo deve essere dichiarato inammissibile in quanto dissonante rispetto ai principi giurisprudenziali sopra richiamati.

3. Con il secondo motivo la ricorrente contesta la mancata ammissione di una nuova CTU sul valore degli immobili del compendio ereditario e la condivisione, da parte del giudice di appello, degli esiti della consulenza disposta in primo grado.

4. Il motivo è inammissibile sia perché non indica quale, tra i motivi di ricorso contemplati dall’art. 360 c.p.c., si è inteso far valere, sia perché, qualora si dovesse ravvisare una contestazione della motivazione, la censura non è diretta ad evidenziare insufficienza o illogicità della motivazione, ma una mera non condivisione sulla base di elementi fattuali (la valutazione dell’immobile ai fini dell’imposta di registro) diversi da quelli considerati dal giudice (la valutazione comparativa con analoghi immobili siti nella stessa zona territoriale) nell’ambito della sua discrezionalità insindacabile nel giudizio di legittimità.

5. In conclusione il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c. per essere rigettato.

Considerato che il ricorso è stato fissato per l’esame in camera di consiglio, che sono state effettuate le comunicazioni alle parti costituite e la comunicazione al P.G..

Considerato che il collegio ha condiviso e fatto proprie le argomentazioni e la proposta del relatore.

Considerato che il mancato invio, da parte della cancelleria, della memoria diretta (anche) al sig. Primo Presidente per la rimessione alle SS.UU. è giustificato dalla tardività dell’istanza, depositata in data 24/1/2012 mentre l’udienza camerale era fissata 2/2/2012;

pertanto non risultava osservato il termine di dieci giorni prima dell’udienza stabilito dall’art. 376 comma 2 c.p.c., né rileva, in funzione di una rimessione in termini non richiesta, il rinvio dell’udienza camerale al 12/4/20102, concesso al ricorrente su sua istanza nella quale dichiarava un impedimento a comparire, ma non reiterava istanza diretta al sig. Primo Presidente;

Considerato che questo Collegio non ritiene di dovere richiedere di ufficio al sig. Primo Presidente la rimessione alle SS.UU. in considerazione dell’ormai consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, come richiamato nella relazione;

Considerato, che con la memoria depositata il 24/1/2012 la ricorrente, deduce che l’interpretazione giurisprudenziale degli artt. 189, 345 e 346 c.p.c., per la quale l’istanza istruttoria non riproposta con la precisazione delle conclusioni si reputa tacitamente abbandonata è in contrasto con gli art. 47 e 52 dei diritti fondamentali Europei (rectius Carta dei diritti fondamentali Europei) e degli art. 2 e 6 del trattato di Lisbona nonché con gli art. 24 e 111 Cost.;

Che in relazione a tale preteso contrasto la ricorrente chiede, rispettivamente, la rimessione alla Corte di Giustizia Europea ai sensi dell’art. 267 del trattato di Lisbona o alla Corte Costituzionale;

Che le richieste devono essere rigettate per manifesta infondatezza (a prescindere da ogni pur possibile considerazione sul rapporto tra debiti del rappresentato premorto e dell’erede in rappresentazione che è erede diretto del de cuius: v. art. 468 comma 2 c.p.c.) in quanto: – in base al TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) sono sottratti alla competenza interpretativa gli atti nazionali, non collegati all’applicazione del diritto dell’Unione, dal momento che l’interpretazione delle norme nazionali spetta ai giudici nazionali e non alla Corte; solo quando insorga un dubbio interpretativo sulla compatibilità di una norma anche processuale con la normativa Europea (in questo caso e in discussione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo) davanti al giudice di ultima istanza, il rinvio è obbligatorio;

– la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea risponde alla necessità di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza che fossero garantiti a tutti i cittadini dell’Unione;

– tuttavia, il giudice nazionale è sempre tenuto a svolgere una funzione di filtro tra le parti del processo e la Corte in modo tale da non subire passivamente ogni iniziativa che esprima un dubbio interpretativo che è solo della parte, posto che il dubbio esposto deve avere quanto meno una parvenza di serietà secondo i criteri della non manifesta infondatezza che condizionano il rinvio alla Corte Costituzionale;

– nella fattispecie appare del tutto evidente che la suddetta interpretazione delle richiamate norme processuali non determina alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo perché la norma processuale, come interpretata, non esclude ne rende disagevole il diritto di “difendersi provando”, ma lo subordina ad una domanda della stessa parte che, se non accolta (espressamente o implicitamente dal giudice dell’istruttoria) deve essere rivolta al giudice che decide la causa; questa richiesta (che doveva essere formulate con la precisazione delle conclusioni) non è stata formulata in primo grado;

– la norma processuale, quindi, non compromette e, anzi, riconosce il diritto di difendersi provando sia in primo grado, sia in secondo grado nel caso di mancata ammissione della prova nel primo grado, ma, in questa seconda ipotesi, stabilisce a carico dell’interessato un onere di richiesta (nel momento processuale nel quale si formulano le definitive domande, anche istruttorie da sottoporre al giudice che deve decidere la causa) che in alcun modo può essere considerato un serio impedimento all’esercizio del diritto di difesa, tenuto anche conto della assistenza tecnica garantita alla parte, obbligatoriamente tenuta ad essere assistita da un avvocato; al contrario la norma (nella sua corretta applicazione giurisprudenziale) garantisce anche il diritto di difesa della controparte che non deve controdedurre su quanto non espressamente richiamato e che subirebbe un pregiudizio del proprio diritto di difesa se il giudice chiamato a decidere la causa decidesse invece senza un contraddittorio su una istanza istruttoria non specificamente riproposta;

– gli esposti principi sono coerenti con il sistema processualcivilistico successivo alla riforma del 1990 che tiene distinti il thema decidendum riguardante le domande e eccezioni e il thema probandum riguardante le istanze istruttorie e, mentre per le prime soccorre la discrezionalità del giudice nell’interpretarle e nel ritenerle, eventualmente, abbandonate anche indagando sulla volontà delle parti, per le seconde vige il sistema delle preclusioni e delle decadenze che prescinde dall’indagine sulla volontà delle parti (così, in motivazione, Cass. n. 9410/2011, con richiami all’orientamento espresso da Cass. n. 25157 del 2008 e Cass. n. 23574 del 2007);

Rilevato, infine, che per le superiori considerazioni questo collegio non ritiene di rinviare la causa alla pubblica udienza;

Che le spese di questo giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza di R.C. (detta C. ) nata B. .

 

P.Q.M.

 

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare a B.R. le spese di questo giudizio di cassazione che si liquidano in complessivi curo 3.500,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

 

 

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