IL REATO DI CLANDESTINITÀ
Alessandra Grici
Praticante Avvocato Abilitato al Patrocinio
Introduzione
Il reato, cosiddetto di clandestinità, di cui all’art. 10 bis. del D.lgs. 286/98 (T.U. immigrazione), è stato introdotto dalla L. 94/2009 (pacchetto sicurezza), e prevede al primo comma che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Al reato di cui al presente comma non si applica l’articolo 162 del codice penale”
La fattispecie, punisce il cittadino extra-comunitario o apolide che fa ingresso (prima ipotesi), nel territorio italiano, sprovvisto di passaporto valido (o documento equipollente) e del visto d’ingresso, oppure che si trattiene (seconda ipotesi), una volta che sia già all’interno dello Stato, senza essere in possesso del permesso (o carta) di soggiorno, in corso di validità.
La pena prevista è quella dell’ammenda da euro 5.000 ad euro 10.000, e non è ammessa l’oblazione[1]. Viene, altresì, disposta l’espulsione dello straniero che sia già entrato in Italia irregolarmente (espulsione amministrativa ex art. 13 T.U. immigrazione), ovvero il suo respingimento alla frontiera, senza necessità di ottenere previamente il nulla osta dell’Autorità giudiziaria, essendo sufficiente la comunicazione a quest’ultima da parte del questore dell’avvenuta espulsione (la quale rende il reato non procedibile).
La competenza per il suddetto reato è del Giudice di Pace. Ferma restando la perplessità, più volte evidenziata dalla dottrina, in ordine alla convenienza di sottoporre a tale organo giurisdizionale la cognizione di un siffatto reato, posto che le materie di sua competenza contemplano ipotesi in cui lo stesso dovrebbe sollecitare una composizione bonaria della vertenza (conciliazione), si da atto che nel procedimento davanti a tale Ufficio, è previsto ai sensi degli artt. 53 e 55 d.lgs. 274/2000, un meccanismo di conversione delle pene pecuniarie nella sanzione della permanenza domiciliare.
La permanenza domiciliare, nel territorio italiano, entra però in conflitto con la logica precipua della politica sui flussi migratori, che è fondata sull’allontanamento del soggetto extra-comunitario.
2. La direttiva rimpatri.
La direttiva 2008/15 CE, contiene norme e procedure comuni, applicabili agli Stati membri, per il rimpatrio di cittadini di stati terzi il cui soggiorno è irregolare.
Obiettivo della direttiva è infatti, principalmente, l’allontanamento ed il rimpatrio, secondo procedure comuni, dei cittadini extra comunitari, nel pieno rispetto della loro dignità e dei loro diritti fondamentali, come si legge nel secondo “considerando” della direttiva, la quale contiene (come esplicitato dal quinto “considerando”), norme applicabili orizzontalmente ai cittadini non comunitari, per favorirne il rimpatrio nel loro paese di provenienza.
La direttiva de qua, quindi alla luce del processo di armonizzazione normativa tra gli Stati dell’Unione, ed al fine di delineare una comune politica migratoria, detta una disciplina precisa e dettagliata, che conferisce alla stessa la natura di normativa “self-executing”.
Tale aspetto è di preliminare importanza per il caso su cui ha dovuto pronunciarsi il Tribunale di Monza.
Ora, a differenza dei regolamenti comunitari, infatti, le direttive, non hanno un’efficacia diretta (orizzontale), ma si rivolgono agli Stati membri, i quali sono vincolati in merito agli obiettivi che la stessa determina, rimanendo inalterata la loro discrezionalità circa le forme ed i mezzi per raggiungerli. Generalmente, però, si conferisce un termine entro il quale alla stessa si deve dare attuazione.
Sennonché, alcune direttive, per determinate caratteristiche, allo scadere del termine di cui si accennava, in difetto di attuazione, acquisiscono un’efficacia diretta, seppure non orizzontale. Trattasi di quelle che contengono una normativa precisa e dettagliata, per cui di conseguenza gli Stati destinatari hanno un margine di discrezionalità ridotto, e alla luce delle quali, al giudice nazionale è imposto di disapplicare la normativa interna che dovesse trovarsi in contrasto con la disciplina delineata da quest’ultima.
Ora, la direttiva rimpatri, può essere considerata come self executing, prevedendo norme specifiche e dettagliate sulla procedura di rimpatrio, allontanamento, permanenza, diritti e doveri degli extracomunitari. Il termine d’attuazione previsto, risale al 24 dicembre 2010 (art.20). In una relazione dell’Unione Camere Penali, osservatorio Europa, a tal proposito si legge che, la direttiva a seguito della scadenza del termine d’attuazione ha acquisito il carattere di normativa self-executing, in qualità di strumento sufficientemente dettagliato ed incondizionato, posto che, così come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, ormai consolidata “l’esistenza di margini di discrezionalità, non è di per sé, ostativa al riconoscimento del carattere incondizionato ad una direttiva, laddove questa individui alcuni diritti e garanzie imprescindibili, come quelli riconosciuti dalla direttiva rimpatri allo straniero comunitario”.
3. Il caso
Il Tribunale di Monza, con sentenza del 17 dicembre 2012, assolve gli imputati del reato di cui all’art. 10 bis d.lgs. 286/98, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Gli imputati, giudicati in primo grado dal Giudice di pace di Monza, erano stati condannati alla pena dell’ammenda di Euro 5.000,00 e al pagamento delle spese processuali, in quanto cittadini extracomunitari illegalmente presenti sul territorio italiano. Ironia della sorte, ha voluto tra l’altro che gli stessi venissero denunciati dai carabinieri, a cui si erano presentati per denunciare a loro volta di aver subito una truffa.
Ora, lungi dal soffermarci su una riflessione – pure meritevole di tutela – strettamente inerente il reato de quo, che ha suscitato il dibattito della dottrina penalistica, la quale in prevalenza sottolinea che siamo di fronte ad un illecito penale di pura disobbedienza, si prende atto che la pronuncia, espressamente dichiara che il fatto di soggiornare irregolarmente nel territorio statale non è da considerarsi quale reato. Se ciò dovesse essere confermato dalla Corte di Cassazione, in quanto il P.M. ha impugnato la sentenza in oggetto, si verserebbe in un’ipotesi di abolitio criminis, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero in ordine alla tematica della successione di leggi penali nel tempo, e che, inoltre, ancora una volta segnerebbe una sconfitta per il potere legislativo, agli occhi dell’Europa.
Il Tribunale di Monza, fonda la sua pronuncia sull’incompatibilità della fattispecie sottoposta al suo vaglio, con la normativa europea, posto che l’art. 10 bis è in contrasto con la direttiva rimpatri, e pertanto egli deve disapplicarlo.
Il Tribunale, impiegando i principi enunciati dalla Corte di Giustizia dell’UE sul caso “El Dridi”, rammenta che se è vero che uno Stato membro può prevedere che l’ingresso o la permanenza irregolare di un cittadino extracomunitario costituisca reato, è anche vero che “uno stato non può applicare una disciplina penale idonea a compromettere l’applicazione delle norme e delle procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115, privando così quest’ultima del suo effetto utile”.
Le norme della direttiva sarebbero compromesse, se il procedimento penale dovesse rallentare la procedura d’espulsione prevedendo ipotesi di reclusione o comunque di permanenza nello Stato membro.
La procedura di allontanamento, ai sensi dell’art. 8 della direttiva, deve essere avviata con la massima celerità. Pertanto prevedere misure di sostituzione della pena pecuniaria con l’obbligo di permanenza domiciliare, osta all’applicazione della direttiva. La Corte di Giustizia, a tal proposito chiarisce che “spetta al giudice del rinvio esaminare se esista, nella normativa nazionale, una disposizione che fa prevalere l’allontanamento sull’esecuzione dell’obbligo di permanenza domiciliare. In assenza di siffatta disposizione, occorrerebbe concludere che la direttiva 2008/115 osta a che un meccanismo di sostituzione della pena dell’ammenda con l’obbligo di permanenza domiciliare, del tipo previsto dagli artt. 53 e 55 del d.lgs 274/2000,sia applicato a cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare”.
Date le premesse suddette, il Tribunale, tenendo conto della pronuncia della Corte di Giustizia, ritiene che “l’attuale fattispecie penale delineata dal combinato disposto dell’art. 10 bis D.lvo 286/98 e degli artt. 53 e 55 del D.lvo 274/2000, non sia conforme alla direttiva comunitaria n. 2008/115, in quanto il sistema di sanzioni in concreto irrogabili è idoneo a ritardare, e quindi ad ostacolare, la procedura di allontanamento, e quindi una politica realmente efficace del controllo dei flussi migratori nell’ambito dell’Unione europea”, pertanto vi è l’obbligo del giudice di disapplicare la normativa interna in contrasto con quella comunitaria, e conclude assolvendo entrambi gli imputati, del reato a loro ascritto, perché “ il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
5. Conclusione.
In conclusione quindi, posto che la direttiva comunitaria è self executing, e quindi direttamente applicabile, e che qualora si ravvisi una normativa nazionale contrastante, il giudice deve provvedere alla sua disapplicazione; e, posto che il sistema sanzionatorio in ordine al reato di clandestinità, contrasta con la direttiva rimpatri (self executing), rallentando il processo di espulsione; l’art. 10 bis, previsto e disciplinato dal T.U. immigrazione, deve essere disapplicato, e pertanto l’ingresso o la permanenza irregolare del cittadino extracomunitario in Italia, non è previsto dalla legge come reato.
Il dibattito, sulla convenienza, logicità, ed anche costituzionalità, su questa controversa fattispecie penale, sembrerebbe essere arrivato al capolinea con questa pronuncia, qualora dovesse essere confermata dalla Corte di Cassazione.
Ancora una volta è la giurisprudenza che deve fare i conti con una realtà, che viene sottovalutata dal potere legislativo, che in questa – così come in altre – materie, sembra essere spinto più dalla cosiddetta “politica d’emergenza”, e dalla volontà d’istituire “leggi-manifesto”, piuttosto che da reali necessità, dietro le quali vi sia un logica ed approfondita riflessione, indispensabile in un campo, che tocca così da vicino i diritti fondamentali di un individuo.
In attesa che la Corte Suprema di Cassazione, illumini la strada da seguire, si auspica che il legislatore possa assolvere il suo compito con maggiore ponderazione, e soprattutto nell’ottica di un diritto che non si arresta nei confini nazionali, ma che si espande ed integra in un contesto europeo ed internazionale.
[1] Art. 162 codice penale, Oblazione nelle contravvenzioni, “ Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell’ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento. Il pagamento estingue il reato.”