DAL CASO ”LIDL” ALLA VICENDA “PLASMON/BARILLA”: LA LICEITA’ DELLA PUBBLICITÀ COMPARATIVA TRA PRODOTTI ALIMENTARI
Francesco Giovanni Pagliari
Sempre più spesso nel settore alimentare le aziende utilizzano la pubblicità comparativa tra prodotti.
Tale tecnica di marketing ha trovato una regolamentazione nella Direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla Direttiva 97/55/CE, la quale è stata attuata nell’ordinamento italiano con il D. Lgs. n. 67 del 25 febbraio 2000[1].
Il fatto che nel settore alimentare i prodotti debbano essere etichettati potrebbe agevolare l’identificazione della liceità dei messaggi comparativi. La stessa etichetta, da strumento di tutela del consumatore, può tuttavia trasformarsi in un veicolo di disinformazione, qualora contenga indicazioni false o ingannevoli.
Per poter essere dunque lecitamente tra loro comparati, i prodotti alimentari devono anzitutto soddisfare gli stessi bisogni, ed essere quindi omogenei o comunque presentare un sufficiente grado di intercambiabilità[2]. La pubblicità comparativa è cioè lecita se è volta ad illustrare al consumatore vantaggi e svantaggi di alcuni prodotti che presentino la caratteristica di essere, agli occhi del pubblico, succedanei.
Non è necessario che i prodotti siano identici: è sufficiente che siano intercambiabili per il consumatore, senza limitarsi alla constatazione che appartengano o meno allo stesso tipo merceologico.
La comparazione non deve poi necessariamente riguardare tutti gli elementi costitutivi delle due offerte concorrenti, è sufficiente anche un raffronto parziale purché avente ad oggetto elementi significativi ed oggettivamente omogenei.
Nella comunicazione commerciale comparativa si devono in ogni caso esporre i dati non solo veritieri e corrispondenti a parametri di legge, ma anche in modo tale da farli riconoscere al pubblico di riferimento. Di conseguenza, i messaggi pubblicitari devono essere tradotti in termini comprensibili per il consumatore, eventualmente ricorrendo a traduzioni da un linguaggio specializzato.
Importanti elementi interpretativi per valutare la liceità di una pubblicità comparativa tra prodotti alimentari sono stati forniti al Giudice nazionale[3] dalla Corte di giustizia europea nel caso “LIDL” [4].
Anzitutto in tale pronuncia la Corte ha chiarito che la Direttiva 84/450 è applicabile anche a prodotti alimentari non identici: i prodotti alimentari possano essere comparati anche qualora presentino caratteristiche gustative differenti, dato che ciò non impedisce che possano soddisfare bisogni simili ed essere quindi considerati come sostituibili.
E’ stato altresì osservato che una pubblicità comparativa basata esclusivamente sul prezzo potrebbe ritenersi ingannevole qualora i prodotti selezionati presentassero differenze obiettive tali da condizionare sensibilmente la scelta del consumatore, senza che tali differenze emergano dalla pubblicità in questione.
Secondo l’indicazione della Corte europea, inoltre, anche l’omissione del marchio più rinomato, le condizioni e i luoghi di produzione degli alimenti, gli ingredienti utilizzati e l’esperienza del produttore – essendo elementi suscettibili di modificare la commestibilità dei prodotti o il piacere procurato dal loro consumo – anche se tutto ciò non inciderebbe in linea generale sul carattere intercambiabile di tali prodotti, potrebbe configurare un caso di pubblicità ingannevole ai sensi della Direttiva 84/450.
Una significativa applicazione nel nostro ordinamento dei sopra esaminati principi espressi dalla Corte di giustizia europea è avvenuta nella vicenda Plasmon / Barilla.
Nel novembre 2011 Plasmon aveva lanciato una campagna pubblicitaria nella quale venivano confrontati taluni suoi prodotti, destinati alla prima infanzia, con i prodotti Barilla, indicando livelli di pesticidi e micotossine in essi presenti, inferiori nei primi rispetto ai secondi.
Barilla, ritenendo tale comparazione ingannevole ed illecita, si è rivolta alle due Autorità nazionali competenti in materia, il Giurì dello IAP ed il Tribunale ordinario; tali Autorità hanno così dovuto verificare: – se i prodotti confrontati potessero ritenersi “omogenei” e – se le modalità della comparazione potessero indurre in errore i consumatori e, pertanto, essere considerate ingannevoli.
Entrambe le Autorità adite sono pervenute alla medesima conclusione, ritenendo nel caso di specie la pubblicità comparativa ingannevole.
Il Giurì, pur ritenendo lecita la comparazione effettuata, ha infatti giudicato comunque ingannevole la campagna pubblicitaria Plasmon[5]. E’ stato infatti rilevato che la diffusione di risultanze scientifiche, seppur veritiere e corrette, se non accompagnate da strumenti interpretativi idonei a trasmettere in modo chiaro il significato ai consumatori, può risultare ingannevole. Le modalità di indicazione delle sostanze nocive espressa nella pubblicità, infatti, avrebbe potuto lasciare intendere, contrariamente alla realtà, che i prodotti Barilla potevano essere potenzialmente nocivi per la salute.
La pronuncia del Tribunale – posteriore a quella del Giurì – ha confermato il provvedimento di accoglimento della richiesta di inibizione cautelare avanzata da Barilla[6], ritenendo che i prodotti alimentari comparati non fossero “omogenei”, in quanto destinati a consumatori di fasce di età diverse: prodotti per bambini (Plasmon) e prodotti per adulti (Barilla)[7].
Il Tribunale ha ritenuto nel messaggio pubblicitario ingannevole, oltre la categoria di riferimento dei prodotti indicata, l’assenza del prezzo, ritenuta idonea a sviare le scelte d’acquisto del consumatore.
Le decisioni sopra esaminate evidenziano come la pubblicità comparativa tra prodotti alimentari, anche se finalizzata a perseguire importanti finalità di marketing, può tuttavia rivelarsi una rischiosa strategia promozionale, risultando spesso labile il confine tra la veridicità delle informazioni veicolate nel messaggio pubblicitario e la lesione delle aziende interessate dalla comparazione.
[1] D.Lgs. 25 febbraio 2000 n. 67, recante “Attuazione della direttica 97/55/CE, che modifica la direttiva 84/460/CEE, in materia di pubblicità ingannevole e comparativa” in G.U., n. 72 del 27 marzo 2000.
[2] L’articolo 3bis n. 1 della Direttiva 84/450, alla lettera b), prevede infatti che, per essere lecita, la pubblicità deve confrontare prodotti che “soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi”.
[3] Si deve evidenziare che, nel nostro ordinamento, è stato riconosciuto il ruolo che organismi di autodisciplina possono avere nella risoluzione delle controversie in questa materia, quali l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (IAP) che ha lo scopo di far rispettare, alle imprese che vi aderiscono, il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, attraverso due suoi organi: il Comitato di controllo ed il Giurì.
[4] Corte giustizia UE, 18 novembre 2010, causa C-159/09, Lidl c. Vierzon Distribution.
[5] IAP BARILLA – decisione n.148/2011 del 20/12/2011.
[6] Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, decreto del 3 dicembre 2012, relativo al procedimento cautelare iscritto al n. R.G. 72997/2011, Barilla c. Plasmon e Heinz.
[7] Tribunale di Milano, ordinanza del 17 gennaio 2012.