LA “VEXATA QUESTIO” DELLE NORME E DEI PRINCIPI INTERNAZIONALI NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO: “IL CASO DELLA REFORMATIO IN PEIUS IN APPELLO”
Giuseppe Mariano – Avvocato
Sommario: Premessa; 1) Inquadramento della questione; 2) Il principio di diritto secondo la Corte EDU e l’ordinamento nazionale; 3) Le diverse posizioni all’interno della Suprema Corte di Cassazione; 4) L’art. 603 c.p.p.; 5) Conclusione.
L’influenza e la supremazia del diritto internazionale in seno all’ordinamento giuridico nazionale, non ultimo quello frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, sebbene dovesse essere una pacifica ed incontestata acquisizione del patrimonio giuridico italiano, anche alla stregua della pluridecennale adesione a numerosi trattati internazionali, ivi compresi quelli istitutivi delle Comunità Europee prima e dell’Unione poi, incontra, ancora oggi, numerose resistenze.
È lapalissiano come siffatto atteggiamento, che oserei definire “di diffidenza”, di fatto, vanifichi e neutralizzi proprio il fine principe dell’adesione, ovvero l’armonizzazione degli ordinamenti nazionali e la creazione di un sistema che consenta il riconoscimento prima e la tutela poi di alcuni diritti al di là e al di sopra dei confini nazionali. Inoltre, non va sottaciuto come tale resistenza, trasformandosi in violazione del diritto internazionale, comporti l’irrogazione delle gravose sanzioni previste.
Trattasi di atteggiamenti certamente sintomatici di una chiusura verso il diritto sovranazionale che, in talune ipotesi, sono agevolmente riscontrabili anche nelle pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Difatti, a decisioni pienamente conformate ai principi di diritto rinvenienti dall’ordinamento internazionale, così come elaborati ed interpretati dai suoi organi giurisdizionali, se ne contrappongono altrettante di segno decisamente contrario.
1. Tra queste ultime, a modesto avviso, va certamente annoverata anche la questione avente ad oggetto la possibilità per il Giudice di Appello di procedere alla reformatio in peius della sentenza di primo grado, ponendo a base della sua decisione una mera differente valutazione della medesima prova orale, limitandosi ad operare un semplice diverso apprezzamento in ordine alla attendibilità della fonte da cui promana, mediante la sola lettura delle dichiarazioni dalla stessa rese e, quindi, senza procedere alla sua riassunzione.
Difatti, il consolidato principio giurisprudenziale della Corte Europea dei diritti dell’uomo secondo cui il Giudice di secondo grado, ove investito del merito, deve procedere alla riassunzione della medesima prova, non risulta pacificamente applicato dalla Suprema Corte di Cassazione, atteso che in alcune sentenze si registra il ricorso a pseudo sottigliezze terminologiche più che giuridiche e che, a parere di chi scrive, altro non sono se non un escamotage, magari inconscio e frutto di un retaggio di nazionalismo, unicamente finalizzato ad arginare le influenze del diritto sovranazionale.
2. Sul punto, sono diverse le pronunce della Corte EDU nelle quali è sancito siffatto principio di diritto, non ultima la sentenza Dan c/ Repubblica di Moldavia del 14 giugno – 5 luglio 2011.
I Giudici della III sezione della Corte, infatti, hanno, ancora una volta, statuito il principio della necessaria ri-assunzione della prova da parte del Giudice d’appello, evidenziando come ogni differente conclusione costituisca palmare violazione del principio dell’equo processo, statuito all’articolo 6 CEDU, chiarendone anche la portata e i limiti.
In primis, il Giudice internazionale ha chiarito che del diretto apprezzamento della fonte probatoria sono onerate solo quelle Corti di secondo grado che, alla stregua delle norme interne, rivestono la funzione di Giudice del merito e, quindi, siano investite della questione sia in punto di fatto che di diritto.
In secondo luogo, la nuova assunzione della prova si rende necessaria non tutte le volte in cui il Giudice del gravame ritenga operare una reformatio in peius, ma solo qualora tale revirement risulti fondato su un differente giudizio di attendibilità della fonte. Conseguentemente, la mancata ri-assunzione costituisce violazione dell’art. 6 CEDU solo nell’ipotesi in cui il primo Giudice sia pervenuto all’assoluzione dell’imputato in virtù di un giudizio di inattendibilità della fonte probatoria e la Corte di appello intenda sovvertire siffatto apprezzamento.
È di tutta evidenza come siffatte antitetiche valutazioni scontino una valenza giuridica differente visto che, mentre il giudizio di attendibilità della prova espresso dalla Corte d’Appello ha natura meramente documentale, poiché fondato unicamente ed esclusivamente sulla sola lettura dei verbali di trascrizione, quello del primo Giudice risulta invece fondato sul diretto apprezzamento della fonte derivato dalla escussione personale del teste e, quindi, maggiormente ancorato all’essenza del procedimento penale, che, com’è receptum, fonda il suo fulcro proprio sulla formazione della prova in dibattimento, sotto l’egida del Giudice.
Non v’è alcun dubbio che un giudizio meramente “cartolare” riveste natura parziale poiché prescinde da alcuni fattori quali inflessione, postura assunta, eventuali tentennamenti della voce, silenzi che certamente non possono essere tralasciati in un giudizio di attendibilità del teste, stante la loro decisività.
Solo se il secondo Giudice si dota dei medesimi strumenti cognitivi di cui disponeva quello di prime cure, il che può avvenire solo mediante il riascolto del teste, può operare una corretta valutazione e quindi confermare il sentore avuto dalla semplice lettura delle trascrizioni, ovvero convincersi della bontà del giudizio di primo grado.
Da ultimo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo evidenzia che il principio del diretto apprezzamento della prova orale da parte del Giudice d’Appello può essere derogato solo ove ricorrano due ipotesi: a) impossibilità materiale di procedere al riascolto del teste poiché ed esempio deceduto o irreperibile, b) necessità di garantire il diritto del testimone a non autoaccusarsi (principi già esposti in precedenti pronunce, ad esempio Craxi c/ Italia, 5 dicembre 2002).
Per completezza, va doverosamente rilevato come, a parere di chi scrive, la reformatio in peius si traduca finanche in violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione repubblicana, generando una indubbia disparità di trattamento tra colui che viene condannato già in primo grado e chi, invece, solo in appello. Difatti, il primo imputato può beneficiare di un ulteriore vaglio nel merito ad opera di un secondo Giudice, quello dell’appello, mentre il condannato per la prima volta in grado di appello è, di fatto, privato di tale opportunità, atteso che può solo censurare la sentenza per eventuali vizi di legittimità, ma non certamente in punto di fatto.
A tanto occorre aggiungere che, oltre al cristallino principio giurisprudenziale innanzi descritto, diretta promanazione di quello dell’equo processo statuito dall’art. 6 CEDU, è lo stesso modello accusatorio, cui si ispira il codice processuale italiano del 1988, ad imporre il puntuale rispetto delle garanzie oggettive e soggettive in ordine alla prova anche nel giudizio di appello, tanto più ove si consideri la crescente attenzione riservata al processo di secondo grado anche da altre norme di diritto internazionale, tra le quali vanno certamente annoverate l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e l’art. 2 del VII protocollo CEDU, i quali riconoscono all’imputato il diritto al riesame ad opera di un Giudice superiore della sentenza di condanna pronunciata in prime cure.
3. Come sopra accennato, il principio del diretto apprezzamento della prova orale da parte del Giudice d’Appello, che oserei definire baluardo di civiltà giuridica, fondato non solo su norme di diritto internazionale, cui ai sensi dell’art. 117 della Costituzione quelle interne devono uniformarsi e conformarsi, ma addirittura deducibile dai principi generali dell’ordinamento interno, purtroppo fatica a trovare pacifica applicazione.
È sufficiente limitare lo studio relativo alla concreta attuazione alla sola giurisprudenza di legittimità per rendersene agevolmente conto e rilevare come, mediante il ricorso ad alcuni sottili distinguo terminologici i canoni posti a garanzia dell’imputato in caso di reformatio in peius vengano di fatto disattesi.
Tuttavia e a modesto avviso, l’attento esame di tali “sottigliezze” consente di rilevare come le stesse, più che rivestire i crismi tipici delle disquisizioni giuridiche, appaiono unicamente finalizzate ad eludere la concreta attuazione della norma dell’ordinamento sovranazionale, evitando, però, tanto di palesare apertamente la resistenza a siffatti principi, quanto il contrasto di giurisprudenza all’interno della stessa Corte di Cassazione.
Tanto si afferma poiché, all’orientamento giurisprudenziale che, proprio in virtù dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, onera il Giudice d’Appello della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale tutte le volte in cui intenda riformare la precedente sentenza assolutoria, sovvertendo il giudizio di inattendibilità espresso dal primo Giudice, (Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, sent 26.02.2013 n. 16566), se ne contrappone un altro che, nella medesima situazione, legittima la reformatio in peius, sebbene il Giudice del gravame non abbia apprezzato direttamente la prova.
Tale ultimo orientamento è manifestato in una recente sentenza del 2013, la n. 10965, quindi coeva a quella innanzi citata, laddove la V sezione della Suprema Corte di Cassazione legittima la condanna per la prima volta in grado d’Appello, facendo ricorso ad una pseudo distinzione tra “ri-valutazione” della medesima prova e “ri-lettura” dell’intero quadro probatorio formatosi nel corso del giudizio di primo grado.
I Giudici di legittimità sostengono che, in tale seconda ipotesi, si verterebbe in una valutazione di ulteriori elementi che sarebbero stati trascurati ovvero travisati dal Giudice di prime cure. Secondo siffatto orientamento non vi sarebbe, quindi, alcuna violazione del principio dell’equo processo, laddove la seconda decisione risulti dotata da persuasività tale da fugare ogni dubbio in ordine alla responsabilità penale dell’imputato.
Pur volendo tralasciare il dato oggettivo che già il contrasto tra i due giudicati sarebbe di per sé idoneo a far sorgere quantomeno un “ragionevole dubbio” che, com’è receptum, ai sensi dell’art. 533 c.p.p, così come novellato dall’art. 5 della L. 46/2006, non può che risolversi in favore dell’imputato, va comunque rilevato come la mera sussistenza di elementi di riscontro alle propalazioni del teste non scalfisca minimamente la differente valenza giuridica rivestita dai due giudizi di attendibilità, espressi dai due Giudici.
Difatti, a parere di chi scrive, ciò che rileva ai fini della violazione dell’art. 6 CEDU per come interpretato dalla sentenza Dan c/ Repubblica di Moldavia (14 giugno – 5 luglio 2011) è l’omessa riassunzione della prova orale al fine di valutare direttamente e personalmente la attendibilità e la genuinità della fonte e, quindi la sua veridicità intrinseca, mentre la sussistenza di ulteriori elementi di riscontro afferisce ad un giudizio postumo ovvero alla verifica dell’attendibilità estrinseca del teste.
Pertanto, il giudizio in ordine alla eventuale attendibilità estrinseca non può certamente esentare il Giudice da quello preliminare della attendibilità intrinseca, tanto più ove solo si consideri che l’inattendibilità intrinseca della fonte potrebbe essere determinata ed indotta proprio dalla necessità del teste di “adattare” le proprie dichiarazioni agli ulteriori elementi estrinseci acquisiti nel corso del dibattimento.
4. Anche gli ostacoli alla riassunzione della prova nel giudizio di appello, fondati su vincoli di natura meramente procedurale, li ritengo infondati.
Si sostiene che il diretto apprezzamento della prova da parte del Giudice del gravame sarebbe impedito dall’art. 603 c.p.p., atteso che la norma individua tassativamente le ipotesi in cui Egli può disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Contrariamente a tale assunto, è proprio l’art. 603 c.p.p. a consentirne la rinnovazione, stante la disposizione di cui al comma 3, che impone alla Corte d’Appello il ricorso, ex officio, ai poteri istruttori tutte le volte in cui si renda necessario.
Non v’è alcun dubbio che il diretto apprezzamento della prova orale, al fine di saggiarne la sua attendibilità intrinseca prima ancora che estrinseca, costituisca proprio una delle ipotesi di necessità assoluta tali da legittimare il Giudice d’Appello a ricorrere ai suoi poteri suppletivi, tanto più ove, come nella specie, la stessa sia stata oggetto di un precedente apprezzamento negativo, anche in virtù della precipua statuizione di cui all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Dan c/ Repubblica di Moldavia del 14 giugno – 5 luglio 201l, la cui efficacia giuridica nell’ordinamento italiano è espressamente riconosciuta dall’art. 117 Cost.
5. In conclusione, appare quanto mai necessaria, oltre che doverosa, una rapida presa di consapevolezza da parte degli operatori del diritto, Giudici compresi, che il sistema nel quale sono chiamati ad operare è un sistema multilivello, posto che i diritti del singolo trovano riconoscimento tanto negli ordinamenti nazionali, quanto e soprattutto in quelli sovranazionali ed internazionali.
Conseguentemente, il sistema giuridico, nella sua componente nazionale e internazionale, non può più tollerare ragionamenti che esulino e ignorino tali parametri normativi e giurisprudenziali. Trattasi di principi che hanno pari dignità e rilievo nell’ordinamento giuridico interno e possono essere disattesi solo nell’ipotesi in cui il caso de quo non sia sussumibile in quello trattato e valutato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, cui per espressa volontà degli stati aderenti è demandata la funzione interpretativa della Carta.
Peraltro, è lo stesso contesto storico e sociale, caratterizzato da un sostanziale “abbattimento” dei confini geografici degli Stati, favorito tanto dalla creazione di mezzi di trasporto sempre più veloci, quanto e soprattutto dalla piattaforma internet, ad imporre un sistema di tutela dei diritti che trovi la sua fonte in organismi sovranazionali, per cui lo strenuo tentativo di difendere “il nazionalismo” appare fine a se stesso, tanto più ove si consideri che contestualmente si è volontariamente optato per l’adesione a tali organismi e, quindi, di autolimitare la sovranità nazionale.